N. 20 - Gennaio 2007
LA LIBERTA’
IN UNIONE SOVIETICA
Il diritto di
classe
di Stefano De Luca
Il diritto, al pari
dell’arte e della letteratura, appare, al
pensiero marxista, come una forma specifica di
sovrastruttura. Una forma da un lato
“immaginaria e illusoria della giustizia, e
dall’altro irrigidimento istituzionale dei
rapporti di potere e di proprietà esistenti”.
Per Marx ogni diritto è un diritto di
classe, espressione dell’interesse medio della
classe dominante.
Rotto l’equilibrio secolare sul
quale poggiava la società feudale, nella quale
ogni individuo era collegato all’altro da
rapporti gerarchici ed era così inserito
all’interno di un sistema certo, la classe
borghese seppe in breve tempo sovvertire tale
organicità riuscendo a diventare egemone, ed
introducendo dei diritti a difesa della
proprietà privata, che era il suo interesse
primario. La libertà borghese consiste
nel diritto di poter fare tutto ciò che non
lede i diritti altrui, e tale libertà era
letta da Marx come “la libertà dell’uomo
considerato come una monade isolata e
ripiegata su sé stessa: il diritto dell’uomo
non fonda affatto la libertà sull’unione
dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sulla
separazione dell’uomo dall’uomo”.
L’affermazione della libertà
individuale, fondamento della società
borghese, era così un mero strumento di cui si
serviva la stessa per poter affermare il
diritto di proprietà privata. Il diritto
privato, in quanto espressione della classe
borghese dominante, faceva si che i rapporti
di proprietà esistenti fossero espressi come
interesse della volontà generale. Per il
filosofo di Treviri, il diritto privato dava
legittimità giuridica a quei rapporti di
produzione che risultavano utili soltanto per
la classe borghese, e che avrebbero permesso
l’imposizione del modello capitalistico.
I rapporti giuridici quindi
altro non erano che l’espressione dei rapporti
di produzione esistenti, e gli individui che
dominavano in questi rapporti dovevano “dare
alla loro volontà condizionata […]
un’espressione universale sotto forma di
volontà generale dello Stato, di legge”.
Vittime principali erano gli operai in quanto
i proprietari dei mezzi di produzione, che
sfruttavano il loro lavoro,
poterono affermare il proprio diritto a tale
proprietà.
Il diritto borghese è quindi,
nell’ottica marxista, il diritto alla
disuguaglianza, il diritto all’assoggettamento
dei lavoratori ai proprietari dei mezzi di
produzione. Non stupisce quindi che il
diritto sovietico guardi di cattivo occhio
l’affermazione di diritti individuali nel
senso comunemente inteso in Occidente.
In Unione Sovietica il soggetto
giuridico di riferimento non era, come in
Occidente, il singolo individuo con le
istituzioni, bensì un’intera classe sociale.
Chiunque avesse attentato alle conquiste
rivoluzionarie della classe operaia, era
perseguibile penalmente. In Unione Sovietica
viene prima il diritto di classe’, ed ogni
cittadino può dirsi tanto più libero quanto
meno entra in contrasto con tale diritto ‘di
classe’. Questo vale tanto per l’Unione
Sovietica di Stalin, quanto per quella di
Chruščëv o di Brežnev: l’unica discriminante
risulta il maggiore o minore grado di rigidità
col quale verranno stabilite quelle che sono o
meno da considerarsi azioni contro gli
interessi della classe operaia.
Nel periodo del terrore
sappiamo che questa interpretazione assunse
una rigidità tale da farla diventare
paradossale, folle e terribilmente crudele;
con Chruščëv trovò una contraddittoria, ma
comunque significativamente più morbida
applicazione; con Brežnev invece assunse una
rigidità teorica pari a quella staliniana, ma
epurata dagli eccessi di quest’ultima, e
quindi non di proporzioni di massa come la
precedente. In Unione Sovietica anche “un
tribunale è un organo della lotta di classe
degli operai contro i loro nemici”,
proprio perché l’insieme del diritto è
incentrato, almeno nell’impianto teorico,
sulla tutela della classe operaia.
Cardine di questo impianto
teorico, è l’art. 125 della Costituzione
dell’Unione Sovietica, inserito nel Paragrafo
X «Diritti e doveri dei cittadini»:
Art. 125.
«In
conformità con gli interessi dei lavoratori,
ed allo scopo di consolidare il regime
socialista, ai cittadini dell’URSS è garantita
per legge: a) libertà di parola; b) libertà di
stampa; c)libertà di riunione e di comizi; d)
libertà di cortei e dimostrazioni di strada».
Come si comprende, la cosa da
sottolineare è che tali libertà fossero
garantite “in conformità con gli interessi dei
lavoratori ed allo scopo di consolidare il
regime socialista”. Chi decideva che cosa
fosse o meno conforme a questi interessi? Il
PCUS, naturalmente.
Anche il diritto penale ha,
secondo l’interpretazione dei giuristi
sovietici, natura classista in quanto si
riferisce alla concezione marxista del diritto
che, “come ogni altro fenomeno dell’ordine
sovrastrutturale, è determinato, nella forma e
nel contenuto, dalla base economica della
società”.
Il primo codice Penale della RSFSR risale al
1922, il secondo al 1926, mentre il terzo al
1961. Quest’ultimo, entrato in vigore il primo
gennaio dello stesso anno, è una diretta
conseguenza della denuncia degli errori e dei
danni causati dal culto della personalità di
Stalin, condannato al XX° Congresso del PCUS
da Chruščëv.
Tomaso Napolitano spiega come
le modifiche apportate nel periodo
chruščëviano stessero a significare che “il
diritto penale non è più espressione del
diritto di una classe: esso riflette nelle sue
norme la volontà e gli interessi di tutti i
cittadini sovietici”, in quanto la battaglia
condotta dalla classe operaia contro le classi
antagoniste, era stata ormai vinta
trasformando lo “Stato di dittatura proletaria
in Stato di tutto il popolo”.
La prima conseguenza di ciò è che il CP del
1961 abolisce il termine
«contro-rivoluzionario», e di conseguenza non
distingue più, come quello del 1926, tra
«Delitti contro-rivoluzionari» e «Delitti
contro l’ordinamento amministrativo
particolarmente pericolosi per L’URSS». La
ragione del mutamento di terminologia deriva
dal fatto che “con l’attuazione, che si
ritiene completa, del socialismo nell’URSS, le
contraddizioni interne della società sovietica
non appaiono più antagonistiche, a seguito
dell’avvenuta distruzione delle residue classi
capitalistiche”.
Infatti durante il XXI° e il XXII° Congresso
del PCUS, il decennio 1961-1971 era stato
considerato come quello del ‘pre-comunismo’:
il diritto penale seguì quindi gli
orientamenti politici prefissati.
Il CP del 1961 da una parte
mitigava le pene previste in epoca staliniana
per gli atti criminali di minore pericolosità
sociale, e dall’altra prevedeva una severa
repressione per gli autori di fatti capaci di
screditare la comunità socialista, e di
ritardare l’avvento del comunismo. Così
prevarrà il criterio di considerare questi
ultimi come «nemici dello Stato sovietico», e
quindi da allontanare dalla società medesima a
causa della loro capacità di arrecarle danno.
Scomparivano così gli articoli riguardanti i
reati politici, sostituiti dagli articoli sui
reati contro lo Stato. Il cambiamento però fu
essenzialmente di tipo formale, in quanto la
classe operaia, precedentemente oggetto
diretto della tutela giuridica, veniva ora ad
identificarsi con lo Stato, e quindi tutelata
mediante la tutela dello Stato stesso.
Il deputato Poljanskij,
Relatore della legge sui delitti contro lo
Stato affermò nel 1958, di fronte al Soviet
Supremo, che le manifestazioni di avversione
al regime che ancora si riscontranvano, erano
frutto dell’intervento diretto della “reazione
imperialistica”. Infatti “gli agenti dei
servizi stranieri d’informazione inviati a
fini delittuosi nell’URSS hanno anche il
compito di assoldare cittadini sovietici
rinnegati moralmente, marci, con carichi
penali”, per corromperli e condurli “sulla
strada dei delitti contro lo Stato
particolarmente pericolosi”.
Il dissenso non avrebbe avuto vita facile, e
sarebbe costantemente stato accusato di
connivenza con le forze occidentali, e quindi,
al pari di esse, giudicato una minaccia per
l’intera società sovietica.
Il CP del 1961 distingue i
reati contro lo Stato in «Delitti
particolarmente pericolosi» e «Altri delitti».
Il primo gruppo si distingue a sua volta in
tre sottogruppi: i reati contro la sicurezza
dello Stato (tradimento della Patria, art. 64;
spionaggio, art. 65; atto terroristico contro
il rappresentante di uno Stato estero, art.
67; propaganda di guerra, art. 71), i reati
che attentano alla base economica sovietica
(delitto di diversione, art. 68; sabotaggio,
art. 69), ed i reati contro il potere
sovietico (ancora lo spionaggio, art. 65;
agitazione e propaganda anti-sovietica, art.
70). Vista la costanza con cui venne usato per
reprimere il dissenso, l’articolo del CP che
maggiormente ci interessa è il 70:
Art. 70.
‘Agitazione e propaganda anti-sovietiche’:
«L’agitazione
o la propaganda, condotte allo scopo di
sovvertire o indebolire il potere sovietico, o
di provocare la commissione di delitti contro
lo Stato particolarmente pericolosi; la
diffusione, ai fini sovraindicati, di basse
invenzioni denigratorie del regime statale o
la detenzione, agli stessi fini, di
letteratura dal contenuto sopraindicato: sono
punite con la privazione della libertà da sei
mesi a sette anni, con o senza il confino da
due a cinque anni. Gli stessi fatti, commessi
da persona già condannata per delitti contro
lo Stato particolarmente pericolosi, e
parimenti commessi in tempo di guerra: sono
puniti con la privazione della libertà da tre
a dieci anni, con o senza il confino da due a
cinque anni».
L’art. 70 del CP condannava
così l’agitazione e la propaganda
anti-sovietica, condotte allo scopo di
sovvertire o indebolire il potere sovietico, e
la detenzione e la diffusione di letteratura
contenente materiale denigratorio dello Stato
sovietico, utilizzata per gli stessi fini.
Oggetto della tutela giuridica risulta quindi
l’ordinamento sovietico sociale e statale. Era
necessario, ai fini dell’accertamento della
colpevolezza, dimostrare l’intento consapevole
di sovvertire o indebolire il potere
statuario: “come ciò possa in pratica
avvenire”, nota Napolitano, “attraverso la
semplice detenzione, non è del tutto agevole
da comprendere”.
Nel 1965 gli scrittori Daniel’
e Sinjavskij furono condannati in base
all’art. 70, anche se non fu possibile
dimostrare che l’aver inviato le loro opere
letterarie all’estero celasse la volontà di
sovvertire l’ordine sovietico. Da questa
contraddizione nascono gli articoli 190/1,
190/2 e 190/3, introdotti con l’Ukaz
del 16 settembre 1966.
Art. 190/1.
‘Divulgazione di fatti inventati di cui è
manifesta la falsità, che denigrano il regime
statale e sociale sovietico’: «La
sistematica divulgazione in forma orale di
invenzioni di cui è manifesta la falsità, che
denigrano il regime statale e sociale
sovietico, e parimenti la preparazione o la
divulgazione per iscritto, a mezzo di stampa o
in altra forma, di opere di tale contenuto:
Sono punite con la privazione della libertà
fino a tre anni o coi lavori correzionali fino
ad un anno o con la multa fino a cento rubli».
Art. 190/2.
‘Oltraggio allo stemma o alla bandiera’: «L’oltraggio
allo stemma statale o alla bandiera dell’URSS,
della RSFSR o di un’altra Repubblica federata:
è punito con la privazione della libertà fino
a due anni o coi lavori correttivi fino ad un
anno o con la multa fino a cinquanta rubli».
Art. 190/3.
‘Organizzazione di attività di gruppo o attiva
partecipazione ad esse con turbativa
dell’ordine pubblico’: «L’organizzazione di
attività di gruppo, e così l’attiva
partecipazione ad esse, che grossolanamente
turbino l’ordine pubblico, o che si
accompagnino ad evidente disobbedienza delle
legittime richieste dei rappresentanti del
potere, o che comportino intralcio al lavoro
del trasporto e delle istituzioni o imprese
statali e sociali: sono punite con la
privazione della libertà fino a tre anni o con
lavori correzionali fino ad un anno o con la
multa fino a cento rubli».
Napolitano lo definisce un
«rattoppo legislativo», volto a colmare le
lacune dell’art. 70: ora si poteva evitare che
le più caute manifestazioni del dissenso
fossero punite alla stregua di delitti contro
lo Stato. Tali aggiunte verranno infatti
inserite nel capitolo IX del CP, quello
inerente i reati contro l’ordine
amministrativo, a sottolineare che esse “non
richiedono l’animus di indebolire o
sovvertire il potere statale”.
Se l’art. 190/1 fosse esistito al momento
dell’arresto di Daniel’ e Sinjavskij, sarebbe
probabilmente stato imputato ai due scrittori
al posto dell’art. 70, che aveva provocato
tanti problemi.
Anche altri articoli del CP
vennero usati spesso per reprimere il
dissenso, e tra essi i più ricorrenti
risultano:
Art. 206.
‘Teppismo’: «Il teppismo, e cioè le azioni
dolose che in modo grossolano turbano l’ordine
sociale ed esprimono una palese mancanza di
riguardo verso il pubblico: sono puniti con la
privazione della libertà fino ad un anno o con
lavori correttivi per la stessa durata o con
la multa da trenta fino a cinquanta rubli. Il
teppismo perverso, cioè le azioni che si
caratterizzano per il loro contenuto di
eccezionale cinismo, ovvero congiunte a
resistenza verso un rappresentante del potere
o della socialità nell’esercizio dei doveri di
tutela dell’ordine pubblico, o commesse contro
altre persone che intervengono contro gli atti
di teppismo: è punito con la privazione della
libertà da uno a cinque anni».
L’art. 206 venne introdotto,
con Ukaz federale, il 4 agosto del
1966. Il primo a farne le spese fu Chaustov,
nel febbraio 1967.
Art. 209.
‘Nomadismo o accattonaggio abituali’: «La
pratica abituale del nomadismo o
dell’accattonaggio, e parimenti il fatto di
condurre prolungatamente altra forma di vita
parassitaria: sono puniti con la privazione
della libertà fino ad un anno o con lavori
correzionali per la stessa durata. Le stesse
azioni commesse da persona in precedenza
condannata in forza della prima parte di
questo articolo: sono punite con la privazione
della libertà fino a due anni».
In questo articolo, la cosa che
ci interessa è l’affermazione “altra forma di
vita parassitaria”. Napolitano chiarisce come
“i casi che praticamente si riesce a
comprendere in questa fattispecie sono
infiniti, come infiniti sono i possibili abusi
consentiti da un’applicazione non corretta
della norma”.
Per comprendere la varietà dei casi a cui
veniva applicata questa norma, basti pensare
che venne usata tanto per punire la
prostituzione (che non era di per sé una
fattispecie di reato), quanto l’attività
poetica di Josif Brodskij.
Art. 198.
‘Violazione delle norme sui passaporti’: «La
dolosa violazione delle norme sui passaporti
nelle località in cui vigono speciali norme
sul soggiorno e sui visti, ove tale violazione
consista nel soggiornare senza passaporto o
senza il visto: è punita con la privazione
della libertà fino ad un anno, o coi lavori
correzionali per la stessa durata, o con la
multa fino a cinquecento rubli».
Art. 83.
‘Espatrio clandestino ed entrata illegale in
URSS’: «L’espatrio,
l’entrata in URSS o l’attraversamento della
frontiera senza il passaporto occorrente o il
permesso delle autorità competenti: saranno
punite con la privazione della libertà per un
periodo da uno a tre anni».
Gli art. 198 ed 83 sarebbero
stati usati tanto per impedire la circolazione
interna dei dissidenti, quanto per
‘controllare’ il flusso migratorio degli ebrei
sovietici, dei tedeschi ed altre minoranze
etniche, e dei credenti (in maggioranza
battisti).
Art. 72.
‘Attività di organizzazione diretta alla
commissione di crimini contro lo Stato
particolarmente pericolosi e partecipazione ad
organizzazioni anti-sovietiche’: «L’attività
di organizzazione diretta alla commissione di
crimini contro lo Stato particolarmente
pericolosi, alla costituzione di
organizzazioni che si propongono di compiere
delitti, e parimenti la partecipazione ad
organizzazioni anti-sovietiche: sono punite da
tre ad otto anni di reclusione».
Questo articolo venne usato con
molta costanza soprattutto dopo il 1975,
quando in Unione Sovietica si formarono i
Gruppi non ufficiali ‘Helsinki’ che agivano
per controllare l’adempimento dei
provvedimenti relativi ai diritti umani
dell’Atto conclusivo della Conferenza per la
sicurezza e la cooperazione in Europa.
Tutte le altre Repubbliche
Federate avevano, nei rispettivi Codici
Penali, le stesse norme della RSFSR, anche se
non corrispondenti numericamente a quelle
dell’ordinamento da cui derivavano.
Il PCUS sarebbe ripetutamente
intervenuto a modificare, il più delle volte
inasprendoli, numerosi articoli del CP: dal
1961 al 1980 sono infatti cambiati 24 articoli
su 63 nella Parte generale, e ben 109 su 174
in quella speciale. Per oltre il cinquanta per
cento, le modifiche sono state introdotte da
Ukaz federali e questo, oltre a
dimostrare la subordinazione delle istituzioni
giuridiche a quelle politiche, “spiega anche
le molte carenze del linguaggio giuridico
sovietico”.
Il Partito, avanguardia dei lavoratori, era il
«primo mobile» del diritto sovietico ed i
giuristi, collocati nell’ambito
sovra-strutturario, dovevano adeguarsi alla
volontà politica.
Riferimenti
bibliografici
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