N. 45 - Settembre 2011
(LXXVI)
LIBERO GRASSI
IL CORAGGIO E LA SOLITUDINE
di Giuseppe Tramontana
Il coraggio è una cosa che si organizza, che vive e muore, che bisogna tenere in ordine come i fucili. Il coraggio individuale non è nulla più che una buona materia prima per il coraggio delle truppe.
(A.
Malraux,
La
speranza)
Il
coraggio
non
va
mai
giù
di
moda.
(W.
Shakespeare,
I
quattro
Giorgi)
Il
29
agosto
1991,
a
Palermo,
il
sole
sembra
alto
da
sempre.
Un
signore
di
67
anni,
capelli
grigi,
ben
rasato,
esce
di
casa
dopo
aver
indossato
una
polo,
un
paio
di
pantaloni
leggeri
e
dei
sandali.
È
solo.
Cammina
a
testa
alta.
Si
chiama
Libero
Grassi
ed è
un
imprenditore
palermitano.
Un
imprenditore
inconsueto,
a
dire
il
vero.
Dirige
la
Sigma,
una
storica
fabbrica
di
biancheria
intima,
boxer,
slip,
vestaglie,
pigiami,
dando
lavoro
a
centocinquanta
operaie.
La
Sigma
è
una
camiceria
storica,
in
città.
Ha
un
ottimo
campionario,
clienti
fidati
e
prestigiosi
in
tutta
Italia,
tempi
di
consegna
rapidi
e
certi.
Insomma,
va
bene.
Grassi,
invece,
è un
tipo
anomalo,
dicono.
D’altra
parte
se
sei
nato
nel
1924,
l’anno
in
cui
venne
rapito
e
ucciso
Giacomo
Matteotti,
e ti
chiami
Libero,
non
solo
in
memoria
di
uno
zio
anarchico,
ma
anche
per
riguardo
allo
stesso
deputato
socialista
fatto
fuori
dai
fascisti,
strano
devi
venir
su
per
forza.
È di
Catania,
Libero.
Ma
all’età
di 8
anni
si è
trasferito
con
i
suoi
a
Palermo,
nella
capitale.
Amante
delle
buone
letture
e
della
cultura
dell’impresa,
cullava
una
grande
ammirazione
per
la
laboriosa
borghesia
del
Nord
Europa,
per
quelli
che
pragmaticamente,
razionalmente,
a
costo
di
enormi
sacrifici
e
duro
lavoro,
in
un
sol
colpo
fanno
quadrare
i
conti,
danno
lavoro,
si
tengono
lontani
dalla
corruzione
e
dai
compromessi
politici
e
non
chiedono
aiuti
o
favori
a
chicchessia.
È
sposato,
Libero.
Con
Pina
Maisano,
una
donna
minuta,
occhi
grandi
e
intelligenti,
savoir
faire
innato
e
volontà
di
ferro.
È
lei
che
gestisce
uno
storico
negozio
di
tessuti
in
centro.
Ed è
una
fervida
militante
del
Partito
Radicale.
Hanno
due
figli
giovani,
Alice
e
Davide.
Da
un
annetto
Libero
Grassi
è
diventato
famoso.
È
andato
persino
in
televisione,
a
Samarcanda
di
Michele
Santoro,
ha
preso
a
rilasciare
interviste
sui
quotidiani
siciliani.
Tutto
è
iniziato
in
un
modo
per
nulla
confortante,
anzi
decisamente
preoccupante.
Ad
inizio
d’anno,
qualcuno,
un
fantomatico
“geometra
Anzalone”,
gli
ha
telefonato
per
chiedergli
il
pizzo:
50
milioni
così,
sull’unghia.
Al
che
Libero
di
nome
e di
fatto,
ha
preso
carta
e
penna
e ha
scritto
una
lettera
al
“caro
estortore”,
pubblicata
sul
Giornale
di
Sicilia:
“Caro
estortore,”
ha
esordito
“Volevo
avvertire
il
nostro
ignoto
estortore
di
risparmiare
le
telefonate
dal
tono
minaccioso
e le
spese
per
l’acquisto
di
micce,
bombe
e
proiettili,
in
quanto
non
siamo
disponibili
a
dare
contributi
e ci
siamo
messi
sotto
la
protezione
della
polizia.
Ho
costruito
questa
fabbrica
con
le
mie
mani,
lavoro
da
una
vita
e
non
intendo
chiudere…
Se
paghiamo
i 50
milioni,
torneranno
poi
alla
carica
chiedendoci
altri
soldi,
una
retta
mensile,
saremo
destinati
a
chiudere
bottega
in
poco
tempo.
Per
questo
abbiamo
detto
no
al
‘Geometra
Anzalone’
e
diremo
no a
tutti
quelli
come
lui”.
Più
chiaro
di
così!
Grassi
ha
rifiutato
la
‘protezione’
ed
ha
anche
rifiutato
di
pagare
il
pizzo.
Punto.
Solo
che,
a
questo
punto,
si è
esposto,
rischia
di
divenire
un
facile
bersaglio.
A
meno
che
anche
gli
altri
imprenditori,
la
Confindustria
siciliana
e
non,
le
associazioni
di
categoria,
i
sindacati,
istituzioni
non
decidano
di
stargli
accanto,
sostenendolo
in
una
lotta
che
è
anche
una
lotta
per
la
legalità
e
per
il
lavoro,
oltre
che
per
la
loro
sopravvivenza.
Dopo
le
sue
denunce,
8
mafiosi
sono
stati
arrestati.
Grassi
è
stato
invitato
da
Santoro,
a
Samarcanda.
È
stato
l'11
aprile
1991.
Così
ha
portato
il
suo
caso
davanti
alla
nazione.
Ormai
sta
diventando
un
simbolo
della
lotta
alla
mafia.
“Non
sono
un
pazzo
- ha
dichiarato
a
Santoro
-
sono
un
imprenditore
e
non
mi
piace
pagare.
Rinuncerei
alla
mia
dignità.
Non
divido
le
mie
scelte
con
i
mafiosi”.
Non
solo.
Con
piglio
sicuro,
da
imprenditore
pragmatico
abituato
a
vedersela
con
i
numeri,
ha
aggiunto
“Con
le
mie
denunce,
ho
fatto
arrestare
otto
persone.
Se
duecento
imprenditori
parlassero,
milleseicento
mafiosi
finirebbero
in
galera.
Non
le
sembra
che
avremmo
vinto
noi?”
Ma è
stato
proprio
a
questo
punto,
cioè
nel
momento
di
massima
esposizione
mediatica,
che
ha
avuto
la
netta
sensazione
di
essere
praticamente
isolato.
Se,
da
un
lato,
all’indomani
della
famosa
lettera
aperta
pubblicata
dal
Giornale
di
Sicilia,
attestazioni
di
solidarietà
sono
pervenute
dal
prefetto
Jovine
e
dal
questore
di
Palermo
(mentre
la
Sigma
veniva
presidiata),
dai
sindacati
e
dalle
ACLI,
dal
sindaco
di
Palermo
e
dal
Centro
di
Documentazione
‘Peppino
Impastato’;
dall’altro,
sono
rimasti
latitanti
l’API
(Associazione
Piccole
Imprese),
l’Assindustria
(l’associazione
delle
imprese
di
cui
pur
fa
parte),
il
Coordinamento
Antimafia.
In
realtà,
Grassi
è
stato
lasciato
solo
da
quelli
a
cui
più
teneva,
i
colleghi,
l’associazione
di
cui
da
decenni
fa
parte,
da
quelli
che
si
trovano
sulla
sua
stessa
barca
e
dai
quali,
ovviamente,
si
sarebbe
aspettato
aiuto
e
solidarietà.
Ma
così
non
è
stato.
È
rimasto
solo.
Persino
la
stampa
si è
defilata.
Un
trafiletto
su
Repubblica,
silenzio
assordante
del
Sole-24
ore.
L’Ora,
il
maggior
quotidiano
palermitano,
ha
titolato:
“Ha
detto
no
al
pizzo
e la
città
è
con
lui”.
Figurarsi:
la
città
se
ne
lava
le
mani,
gli
fa
il
vuoto
attorno!
Grassi
lo
sa.
Riferendosi
all’Assindustria,
dalla
quale
evidentemente
si
attenderebbe
la
più
convinta
e
fattiva
solidarietà,
ha
dichiarato:
“È
come
se
la
mia
denuncia
non
li
riguardasse.
Ho
avuto
solo
la
telefonata
di
qualche
amico
e
nulla
più”.
Secondo
lui,
Salvatore
Cozzo,
presidente
dell’associazione,
porta
avanti
la
“politica
dello
struzzo”:
testa
nella
sabbia
per
non
vedere
quello
che
accade
e
via
con
gli
interessi
di
botteguccia!
Si è
aperta
una
polemica.
Cozzo
ha
replicato
che
non
possono
imporre
agli
associati
di
rifiutare
di
pagare
il
pizzo:
non
è il
loro
mestiere.
Loro
hanno
altri
obiettivi:
primo
tra
tutti,
la
promozione
dello
sviluppo
produttivo.
“Non
possiamo
farci
portabandiere
solo
della
lotta
alla
mafia
-
chiosa
-
Abbiamo
altri
compiti,
altri
doveri”.
Grassi
ha
tuonato:
“Chi
non
denuncia
è
colluso
con
il
racket
delle
estorsioni”.
E
Cozzo
di
rimando:
“Gli
imprenditori
taglieggiati
sono
soltanto
vittime
e
come
tali
devono
essere
tutelati.
Nostro
compito
è
chiedere
alla
polizia
sorveglianza
e
controlli
efficaci.
E –
conclude,
acido
-
credo
che
la
polizia
abbia
tutelato
bene
Grassi”.
E,
sulle
prime,
alcuni
avvenimenti
sembrano
dare
ragione
al
presidente.
Ai
primi
di
aprile,
qualche
giorno
dopo
la
chiusura
della
diatriba,
una
sentenza
del
tribunale
di
Catania,
emessa
dal
giudice
Russo,
non
ha
lasciato
adito
a
dubbi:
pagare
il
pizzo
non
è
reato,
purché
lo
si
faccia
per
tutelare
la
propria
azienda
e il
proprio
lavoro.
Insomma,
è
una
casus
necessitatis:
o ci
si
piega
o si
chiude.
Meglio
piegarsi,
suvvia!
Sulla
vicenda,
il 4
aprile
Grassi
ha
rilasciato
un’intervista
a
caldo
all’Ora:
“una
sentenza
gravissima.
– ha
commentato
– È
la
legittimazione
giuridica
dei
rapporti
di
convivenza-connivenza
tra
imprenditoria
e
mafiosi.
Il
giudice
Russo
ha
in
pratica
ammesso
che
se i
cavalieri
catanesi
non
avessero
intrattenuto
rapporti
con
la
mafia,
non
avrebbero
potuto
fare
il
loro
lavoro
di
manager.
Questo
si
traduce
in
una
sorta
di
impunità
collettiva,
un’amnistia
generale
che
giustifica
passato,
presente
e
futuro.
Peggio:
è un
suggerimento
preciso
su
come
comportarsi
di
fronte
alle
offerte
di
Cosa
Nostra”.
Accennando
alle
conseguenze
che
la
stessa
sentenza
avrebbe
avuto
per
gli
imprenditori,
Grassi
è
stato
chiaro:
“Io
ho
avuto
più
problemi
con
loro
(gli
imprenditori,
ndc)
che
con
gli
estortori.
I
miei
colleghi
mi
hanno
messo
sotto
accusa,
dicono
che
i
panni
sporchi
si
lavano
in
famiglia.
E
intanto
continuano
a
subire:
perché
lo
so
che
pagano
tutti.
Secondo
me
essere
intimiditi
e
collusi
sul
piano
operativo
è la
stessa
cosa.
Alcuni
confessano
di
subire
per
paura,
altri
si
vantano
delle
loro
conoscenze
nel
mondo
dei
pezzi
da
novanta.
Sono
atteggiamenti
molto
comuni:
ma
io
penso
che
se
ciascuno
fosse
disposto
a
collaborare
con
la
polizia
e i
carabinieri,
a
denunciare,
a
fare
i
nomi
dei
taglieggiatori,
il
racket
avrebbe
vita
breve”.
L’11
aprile
c’è
stata
la
trasmissione
di
Santoro.
Il
14
ha
rilasciato
un’altra
dichiarazione
che
non
ha
lasciato
adito
a
dubbi:
“L’associazione
degli
industriali
non
ha
assunto
ancora
una
posizione
chiara
sulla
questione
delle
estorsioni.
Il
presidente
dell’associazione
l’ha
detto
davanti
a
tutti:
la
mafia
è
invincibile
ed è
inutile
che
un
signor
Libero
Grassi
prenda
posizione
senza
tener
conto
di
questa
realtà.
Lui
non
accetta
le
mie
denunce.
Ma
desso
ho
preso
una
decisione:
se
entro
un
mese
l’associazione
non
si
muove,
io
mi
dimetto.”
Proprio
per
cercare
di
far
crescere
il
consenso
attorno
a
Grassi
e,
soprattutto,
non
lasciarlo
isolato,
il 4
maggio
i
Verdi
hanno
organizzato
un
dibattito
nella
sala
consiliare
del
comune
di
Palermo.
Pochi
i
partecipanti:
una
trentina
di
persone.
Oltre
a
Grassi,
presenti
l’imprenditore
Salatiello
della
Keller
e il
presidente
dell’API,
Albanese.
Salatiello
e
Grassi,
da
un
lato,
a
perorare
la
necessità
delle
denunce,
Albanese,
dall’altra,
a
rintuzzare,
annacquare,
distinguere,
scaricare
barili
di
aria
fritta.
Il
senso
di
ciò
che
sta
accadendo
è
stato
sintetizzato
dall’intervento
di
Umberto
Santino,
presidente
del
Centro
Impastato:
“l’iniziativa,
che
doveva
essere
di
solidarietà,
sta
servendo
solo
per
rendere
visibile
ancor
di
più
l’isolamento
di
Grassi
e
dei
pochi
che
gli
stanno
accanto.”
Oltre
tutto,
Grassi
è
senza
scorta:
bersaglio
facilissimo.
A
fine
maggio,
si è
scomodata
una
giornalista
tedesca,
Katharina
Burgi,
della
rivista
Nzz
Folio,
recatasi
a
Palermo
per
ottenere
impressioni
e
notizie
sulla
mafia.
Tra
le
persone
che
ha
incontrato,
vi è
stato
Libero
Grassi,
l’imprenditore
ormai
famoso,
in
Europa
e
Usa,
per
il
‘gran
rifiuto’
di
pagare
il
pizzo.
La
giornalista
dirà
che
è
rimasta
profondamente
colpita
dalla
forza
interiore
di
Grassi.
Le è
apparso
deciso
a
lottare
per
la
difesa
dei
propri
interessi,
con
la
speranza
che
il
suo
esempio
sia
l’inizio
di
una
ribellione
pacifica
che
sottragga
l’Isola
all’influenza
di
Cosa
Nostra.
Nel
giro
di
qualche
giorno
anche
il
Washington
Post,
ha
parlato
di
lui:
“Sicilian
businessman
does
the
unthinkable:
he
says
no
to
the
mafia”,
ha
titolato.
Ma
non
è
finita.
Ai
problemi,
anzi,
non
c’è
mai
fine.
E
così,
poco
prima
delle
ferie
estive,
sono
state
le
banche
a
mettersi
di
traverso.
Ha
chiesto
dei
finanziamenti,
ma
loro,
le
banche,
fanno
difficoltà.
La
Banca
S.
Angelo,
per
uno
scoperto
di 5
milioni
di
lire
(insignificante
a
fronte
di
un
fatturato
di
circa
7
miliardi)
si è
rifiutata
di
concedere
un
prestito.
È
chiaro
che
lo
scoperto
è un
pretesto:
la
banca
non
vuole
più
avere
rapporti
con
lui.
Alle
7,30
di
quel
29
agosto
Libero
Grassi
esce
di
casa
per
recarsi
alla
Sigma.
Ma
non
ci
arriverà.
In
via
Vittorio
Alfieri
lo
aspettano
Marco
Favaloro,
in
macchina,
e
Salvino
Madonia,
figlio
del
boss
di
Resuttana,
che
lo
sta
pedinando
da
una
settimana
buona.
Madonia
scende
dall’auto,
lasciando
lo
sportello
aperto.
Impugna
una
pistola
a
tamburo,
un’altra
ce
l’ha
infilata
nei
pantaloni
dietro
la
schiena.
E
spara.
Subito
dopo
il
delitto
i
Verdi
e il
Centro
Impastato
affiggono
un
manifesto
eloquente:
“LIBERO
GRASSI,
un
uomo
coraggioso
che
ha
sfidato
la
mafia.
Le
istituzioni
non
lo
hanno
protetto,
gli
altri
imprenditori
non
hanno
seguito
il
suo
esempio,
l’antimafia
parolaia
ha
taciuto.
La
sentenza
di
Catania
che
ha
legalizzato
il
pizzo
con
l’assassinio
del
29
agosto
è
sanguinosamente
confermata.
Cosa
hanno
fatto
le
forze
politiche
per
valorizzare
l’impegno
civile
di
Libero
Grassi?
Cosa
ha
fatto
il
signor
Prefetto
per
difendere
Libero
Grassi?”
Ai
funerali,
le
operaie
della
Sigma
e
molti
altri
(ma
non
moltissimi),
partecipano
recando
grandi
mazzi
di
fiori.
Il
figlio
Davide,
sorprendendo
tutti,
portando
la
bara
del
padre,
alza
la
mano
a V,
simbolo
di
vittoria.
Intanto
il 7
settembre
il
Sole-24
ore,
quotidiano
della
Confindustria,
rivolge
un
appello
alle
imprese.
L’impresa
dichiari
guerra
alla
mafia
è il
titolo.
L’appello
sottolinea
come
il
problema
della
mafia,
delle
tangenti
o
pizzo,
della
protezione
appartengano
ormai
all’Italia
intera.
È
nell’interesse
degli
stessi
imprenditori
intraprendere
questa
guerra,
se
non
vogliono
vedere
le
loro
imprese
distrutte
dalla
criminalità:
non
basta
affidarsi
alla
polizia
per
ripristinare
la
legalità:
occorre
scendere
in
campo
e
spendersi
in
prima
persona.
“La
rivolta
degli
imprenditori
contro
mafie
e
camorre
d’ogni
tradizione
–
conclude
– è
una
rivolta
in
nome
della
loro
stessa
cultura
d’impresa,
fatta
di
mercato,
competitività,
regole
trasparenti
e
certe.
Laddove
la
cultura
mafiosa
per
affermarsi,
deve
uccidere
il
mercato,
impedire
la
competitività,
imporre
l’arbitrio.”
L’appello
accoglie
molti
consensi
ed
adesioni.
I
giovani
imprenditori
si
riuniscono
a
Palermo
e il
presidente
dell’associazione,
Aldo
Fumagalli,
seduto
accanto
a
Davide
Grassi,
il
figlio
di
Libero,
ed
al
presidente
dell’ACIO,
Tano
Grasso,
dichiara:
“La
Confindustria
applichi
rigorosamente
il
codice
etico.”
Parole,
consensi,
tra
luci
ed
ombre.
Ad
ottobre
si
costituisce
a
Palermo
l’Osservatorio
Libero
Grassi
per
i
fenomeni
di
racket.
Ma
resterà
sostanzialmente
sulla
carta.
Nello
stesso
mese
di
ottobre
viene
varato
il
decreto
346/1991,
reiterato
con
un
altro
decreto
del
31
dicembre
e
diventato
legge
antiracket
nel
febbraio
1992
con
il
numero
172.
Il
decreto
attuativo
verrà
approvato
solo
nell’agosto
successivo.
La
legge
istituisce
un
Fondo
di
solidarietà
per
le
vittime
del
racket,
ma
inizierà
ad
operare
solo
nel
1993
e
solo
dopo
enormi
difficoltà
logistiche
e
tecniche.
Il
ristoro
è
previsto
fino
al
70%
dei
danni
patiti
e
non
deve
superare
il
miliardo
di
lire.
La
procedura
non
è
agile,
le
richieste
stentano:
60
nel
’92,
54
nel
’93.
Il
primo
provvedimento
sarà
del
marzo
’94.
Intanto
nell’ottobre
del
’93
vengono
arrestati
Salvino
Madonia
e
Marco
Favaloro.
Saranno
condannati
per
l’omicidio
di
Grassi.
Favaloro,
divenuto
collaboratore
di
giustizia,
racconterà
tutte
le
fasi
dell’omicidio.
Madonia
è al
41-bis,
condannato
anche
per
l’omicidio
del
poliziotto
Natale
Mondo.
E
dal
dicembre
2009
è
indagato
anche
per
il
fallito
attentato
a
Falcone
all’Addaura.
Anche
la
moglie
di
Madonia,
Mariangela
Di
Trapani,
figlia
del
boss
Ciccio,
è
finita
in
manette,
accusata
di
aver
preso
il
posto
del
marito
nella
gerarchia
mafiosa.
Nel
maggio
2010
è
stata
condannata
a 10
anni
di
carcere,
pena
ridotta
a 9
l’
anno
successivo,
in
appello.
L’omicidio
è
per
alcuni
(pochi)
una
presa
di
coscienza,
per
molti
una
pagina
da
voltare
in
fretta,
scomoda.
L’11
settembre
il
Parlamento
Europeo
approva
una
risoluzione,
in
cui
esprime
profonda
indignazione
per
l’assassino
dell’imprenditore
palermitano
ed
esprime
il
proprio
cordoglio
ai
famigliari
della
vittima.
Il
Consiglio
comunale
di
Lodi
il 1
ottobre,
intitola
una
piazza
della
città
a
Libero
Grassi.
Il
20
settembre
si
tiene
una
trasmissione
a
reti
unificate
RAI-Finivest
che
vede
collaborare
Michele
Santoro
e
Maurizio
Costanzo
nella
messa
in
onda
di
una
puntata
speciale
dei
rispettivi
Samarcanda
e
Maurizio
Costanzo
Show
in
onore
di
Libero
Grassi.
La
prima
parte
della
puntata
è
dal
teatro
Biondo
di
Palermo
e la
conduce
Costanzo,
nella
seconda
parte
il
collegamento
passa
al
teatro
Parioli
di
Roma,
padrone
di
casa
Costanzo.
Per
il
resto,
però.
La
situazione
è
deludente.
In
primis,
per
l’azienda
di
Grassi,
la
Sigma.
Nel
Natale
del
1991
c’è
un’in
iniziativa
dell’associazione
Agrisalus
che
organizza
una
campagna
per
far
conoscere
i
prodotti
dell’azienda.
Pochi
i
risultati.
La
Sigma
entra
in
crisi,
cambia
nome
in
Dali,
dai
nomi
di
Davide
e
Alice,
passa
alla
Gepi,
che
la
chiude.
Riaprirà
solo
nel
2004
con
il
nome
di
Sigma
Nuova,
con
a
capo
sempre
Davide
ed
Alice.
L’esempio
di
Libero
Grassi,
intanto,
è
seguito
da
molti,
ma
non
da
tutti.
Organizzazioni
antiracket
sorgono
in
varie
parti
d’Italia,
una
trentina
in
Sicilia
(da
Augusta
a
Palazzolo
Acreide,
da
Capo
d’Orlando
a
Francofonte,
Catania,
Siracusa,
Ragusa,
Barcellona,
Vittoria),
una
decina
in
Puglia,
alcune
in
Calabria
e
Basilicata,
qualcuna
anche
nel
Lazio.
Ma
questo
è
solo
una
goccia
nel
mare
del
racket,
di
cui
resta
ancora
vittima
il
32%
dei
commercianti
a
Napoli,
il
30%
a
Palermo,
il
27%
a
Bari,
il
17%
a
Padova
e
Firenze,
il
15%
a
Torino,
il
13%
a
Milano,
l’11%
a
Roma.
In
media,
un
commerciante
su 5
paga
il
pizzo.
Ancora
oggi.
Questo
dicono
i
dati
delle
Camere
di
Commercio
e
delle
Prefetture.
In
questi
anni,
nonostante
la
novità
di
Libera
nel
1995
e la
bellissima
realtà
di
Addiopizzo,
associazione
palermitana
creata
nel
2004,
non
sempre
gli
imprenditori
e i
commercianti,
soprattutto
del
capoluogo
siciliano,
hanno
dato
prova
di
aver
cambiato
registro:
nei
processi
agli
estortori,
le
vittime
non
hanno
collaborato
e
alcuni
sono
stati
persino
condannati
per
omertà.
Invece,
altri
hanno
seguito
l’esempio
di
Libero
Grassi.
Alcuni,
purtroppo,
fino
al
sacrificio
finale,
formando
una
cupa
litania
di
caduti
per
mano
mafiosa.
Ricordiamoli,
lo
meritano.
Il
21
aprile
1992,
a
Lucca
Sicula,
Agrigento,
viene
ucciso
Paolo
Borsellino,
un
imprenditore
che
si
era
opposto
all’ingresso
dei
mafiosi
nella
propria
ditta
di
calcestruzzi.
Il
successivo
17
dicembre
anche
il
padre
di
Paolo,
Giuseppe
Borsellino,
che
aveva
iniziato
a
collaborare
con
la
giustizia
per
individuare
gli
assassini
del
figlio,
viene
colpito
a
morte.
Un
mese
prima,
a
Gela,
era
stato
ammazzato
il
commerciante
Gaetano
Giordano,
mentre
il
figlio
Massimo
era
stato
ferito.
Giordano
si
era
opposto
al
racket.
La
vedova
Franca
Evangelista
decide
di
restare
a
Gela,
in
difficili
condizioni,
nel
mezzo
di
una
guerra
di
mafia
tra
Cosa
Nostra
e
Stidda.
Un
altro
imprenditore
palermitano,
Innocenzo
Lo
Sicco,
è
costretto
invece
all’esilio.
Prima
pagava
il
pizzo
senza
fiatare,
poi
si è
stufato
ed
ha
denunciato
gli
estortori
ed è
andato
via.
Successivamente
è
tornato
per
testimoniare
contro
i
mafiosi
ed
ha
messo
su
un’associazione
antiracket.
Intanto,
nel
novembre
1994
minacce
arrivano
alla
vedova
di
Grassi.
Passa
un
anno
e il
30
agosto
1995,
a
Nicolosi,
Catania,
viene
ucciso
un
commerciante
di
formaggi,
Antonino
Longo.
Ancora
tre
mesi
e il
29
novembre
1995
ad
Avola
(Siracusa)
tocca
all’imprenditore
Antonino
Buscemi.
Per
gli
investigatori,
o si
è
rifiutato
di
sottostare
al
racket
imposto
dalle
cosche
aretusee
o si
è
aggiudicato
lavori
già
assegnati
ad
altri.
Nel
giugno
del
1997
i
killer
raggiungono,
a
Palermo,
il
costruttore
Angelo
Bruno.
Si
pensa
ad
un’altra
vittima
del
racket.
I
famigliari
avvalorano
questa
tesi,
anche
se
il
costruttore
non
ha
mai
parlato,
neanche
in
casa,
di
richieste
di
pizzo.
Ad
Alcamo,
Trapani,
il
successivo
12
settembre
si
suicida
il
commerciante
Gaspare
Stellino:
non
se
la
sente
più
di
testimoniare
contro
gli
estortori.
Il 3
novembre
1999,
a
Sant’Angelo
Muxaro,
Agrigento,
viene
assassinato
Vincenzo
Vaccaro
Notte,
imprenditore
che,
insieme
al
fratello
Salvatore
gestiva
una
ditta
di
pompe
funebri.
Salvatore,
a
sua
volta,
verrà
freddato
tre
mesi
dopo,
il 5
febbraio
2000:
entrambi
hanno
rifiutato
di
piegarsi
alle
estorsioni.
Il
triste
rosario
continua:
il 6
dicembre
2001
viene
ucciso
a
Calatabiano
(Catania)
il
commerciante
in
pensione
Carmelo
Benvegna.
Ha
denunciato
e
fatto
arrestare
alcuni
estortori
ed è
già
sfuggito
ad
un
agguato.
Il
23
ottobre
2003
tocca
al
commerciante
nisseno
Michele
Amico,
attirato
in
campagna
e
ucciso
a
bruciapelo.
Ma,
ciò
nonostante,
qualcosa
si è
mosso.
Dal
2004,
la
Cooperativa
Soldaria,
in
collaborazione
con
Confcommercio ,
lo
Sportello
Legalità
della
Camera
di
Commercio
di
Palermo
e il
Ministero
dell'Istruzione,
dell'Università
e
della
Ricerca,
organizza
il
“Premio
Libero
Grassi”,
sui
tema
della
legalità
e
della
lotta
al
racket
ed
alle
mafie,
rivolto
alle
scuole
italiane
di
ogni
ordine
e
grado.
Dal
1993
il
VII
I.T.C.
di
Palermo
è
intitolato
a
Libero
Grassi.,
mentre
in
varie
città
d’Italia
sono
sorte
vie
e
piazze
a
lui
dedicate,
da
Palermo
a
Enna,
da
Osnago
e
Olgiate
(LC)
a
Isola
della
Scala
(VR),
da
Foggia
a
Rivoli
(TO),
da
Muggiò
(MI)
a
Cosenza,
a
Piazza
Armerina.
La
libertà
comincia
anche
da
qui,
dal
riprendersi
in
mano
memoria,
luoghi
e
destino
personale.
Restando
sempre
uomini,
a
schiena
dritta.
Giacché,
come
diceva
Libero,
se
ognuno
di
noi
facesse
il
proprio
dovere,
senza
piegarsi,
non
vinceremmo
noi?