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N. 149 - Maggio 2020 (CLXXX)

La crisi economica libanese

La Rivoluzione della fame

di Gian Marco Boellisi

 

Nonostante il mondo sia impegnato a occuparsi della pandemia dovuta al Covid-19, fenomeni sociali e politici non hanno smesso di fare il loro corso. All’interno del contesto mediorientale non si può ignorare la crescente instabilità della situazione in Libano, dove nelle ultime settimane l’intero paese sta protestando contro il governo al potere a causa delle ristrettezze economiche che affliggono la popolazione da svariati mesi, se non anni, a questa parte.

 

Sebbene i movimenti di protesta siano iniziati a ottobre dello scorso anno e abbiano subito una momentanea interruzione dovuta alla pandemia, nell’ultimo periodo le condizioni di povertà e precarietà dei libanesi hanno fatto sì che la paura della fame superasse di gran lunga quella del contagio, facendo tornare le persone per le strade e per le piazze del Paese dei Cedri. Risulta quindi interessante analizzare la causa di questa crescente tensione in Libano e a quale risultato essa possa portare per il paese.

 

Partiamo dalle basi. Il Libano è uno dei paesi dalla storia più ricca e affascinante di tutto il bacino Mediterraneo. Resosi indipendente dalla Francia nel 1943, il paese conobbe un grande sviluppo sociale, economico e finanziario negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, diventando sede di un numero cospicuo di istituti bancari tanto da essere conosciuto come la “Svizzera del Medioriente”. Tuttavia le tensioni interne e con il nuovo vicino israeliano continuarono ad aumentare nel corso degli anni, sfociando nella nota guerra civile libanese, la quale durò dal 1975 al 1990, e a un conflitto armato con Israele stesso nel 1982. Nel bene e nel male, il libano è sempre stato un importante protagonista della regione.

 

La guerra civile distrusse la solidità finanziaria costruita all’indomani dell’indipendenza, scaricando un enorme fardello sull’economica libanese che permane ancora oggi. Infatti le politiche di ricostruzione attuate dai vari governi succedutisi nel tempo non hanno fatto che depauperare le già provate casse statali, mancando l’obiettivo di un rilancio economico stabile e duraturo nel post-conflitto. Basti pensare che, nonostante le potenzialità del paese, il debito pubblico libanese ammonta attualmente al 150% del PIL.

 

Unendo questo dato alla dilagante corruzione presente a tutti i livelli della macchina statale, al basso reddito medio dei cittadini libanesi e a un costo dei beni di prima necessità molto alto si ottiene una crisi economica di proporzioni bibliche. Ed è proprio ciò che sta vivendo il Libano da circa otto mesi a questa parte. Nel mese di marzo 2020 il governo centrale non ha più potuto reggere e ha dichiarato ufficialmente il default, chiedendo in via ufficiale prestiti al Fondo Monetario Internazionale. Ciò ha portato come prima conseguenza il decollo dell’inflazione, portando molti beni essenziali a costare il 50% in più, ma soprattutto l’interruzione dell’ingresso di capitali esteri, comportando così un depauperamento quasi totale del sistema economico nazionale.

 

Questa situazione disastrosa ha portato ovviamente i libanesi a scendere in piazza uniti per chiedere un miglioramento generale delle condizioni di vita, abbassamento dei prezzi dei beni di prima necessità, l’implementazione di un basilare sistema di welfare per le fasce meno abbienti e in generale una riforma del sistema politico. Un aspetto peculiare delle proteste è stato il loro carattere inclusivo, essendo esse composte da tutte le etnie e tutte le confessioni religiose, senza divisione settaria alcuna. Si è arrivati a usare lo slogan “tutti vuol dire tutti”, mostrando una coesione come paese che non si vedeva da prima della guerra civile.

 

La prima fase delle manifestazioni è stata pacifica e caratterizzata dall’assenza di violenze da parte della popolazione, conquistando così anche in parte le simpatie dell’esercito. Tuttavia non tutti sono stati a favore dei movimenti popolari. Hezbollah, il “Partito di Dio”, ha in alcune occasioni colpito deliberatamente i manifestanti in modo da scoraggiare le proteste in tutto il paese. Ma ciò non ha fermato i libanesi. Neanche le dimissioni dell’ex primo ministro Hariri e la formazione di un nuovo governo guidato da Hassan Diab sono state abbastanza per gli abitanti del Paese dei Cedri.

 

Essi tuttavia sono stati costretti a interrompere le dimostrazioni a causa della pandemia di Covid-19. Nonostante nelle prime settimane si sia assistito a una relativa calma, tra la fine di aprile e l’inizio di maggio sono riprese le proteste contro il governo e il carovita. Anche in questo caso le manifestazioni hanno interessato quasi tutte le città del paese, ma in particolare Tripoli, seconda città del paese e secondo alcune stime uno dei centri urbani più poveri di tutto il Medio Oriente.

 

In generale i centri più poveri sono stati coinvolti maggiormente, vivendo qui molte persone alla giornata e non potendo permettersi di rimanere chiuse in casa a causa della pandemia. In questo periodo sempre più cittadini libanesi si sono rivolti alle organizzazioni umanitarie presenti nel paese. Vista la gravità della situazione, alcuni analisti hanno già battezzato le ultime proteste la “Rivoluzione della fame”.

 

Se nelle prime fasi delle manifestazioni di piazza il governo si è mostrato poco presente e poco attivo sul fronte di risoluzione della crisi, in questo momento è del tutto assente. Dall’altro lato vi sono i cittadini libanesi i quali, colmi di rabbia ma soprattutto affamati a causa delle difficoltà del paese, hanno sfogato la propria collera in deliberati atti di violenza contro banche e istituti finanziari. A seguito di ciò l’esercito è intervenuto rispondendo con forza e provocando svariati feriti tra i manifestanti.

 

Nonostante l’esercito in Libano sia una delle poche istituzioni senza divisioni settarie, aspre critiche sono state mosse contro di esso a seguito di questa risposta. Infatti le forze armate sarebbero intervenute solo ora, ma non avrebbero mosso un dito quando Hezbollah prendeva di mira i protestanti inermi. È molto probabile che questa risposta sia stata un tentativo da parte della classe dirigente di soffocare i movimenti popolari per poter prolungare il proprio tempo al comando, cogliendo anche l’opportunità data dal Covid-19 in termini di coercizione verso le fasce popolari.

 

Per quanto riguarda la popolazione libanese, essa non crede più che le proteste pacifiche possano portare a qualche risultato concreto. Nonostante il governo abbia approvato un pacchetto di misure per le famiglie bisognose in tempi di lockdown pari a 150 dollari a nucleo familiare, esso sembra aver interrotto lo studio e la consultazione di qualsiasi altra misura di assistenza sociale verso la popolazione.

 

Nei dibattiti succedutisi in parlamento, i vari schieramenti hanno continuato ad accusarsi a vicenda della situazione attuale. Il risultato è stato un pantano generale da cui nessuno schieramento ha avuto il coraggio di uscire, essendo ogni fazione diversamente complice del fallimento politico ed economico di una nazione.

 

In conclusione, le proteste in Libano sono riprese nonostante la pandemia e difficilmente si esauriranno nell’arco di un periodo breve. L’unico obiettivo dei manifestanti è il rinnovamento del sistema politico dell’intera nazione, il quale tuttavia patisce sempre la debolezza intrinseca di forti divisioni settarie mai del tutto cancellate.

 

Per quanto ancora le proteste non siano caratterizzate da grandi fenomeni di violenza, è dai tempi della guerra civile che il Libano non entrava in una crisi così profonda. L’unica via di uscita attualmente ipotizzabile è l’apertura da parte del governo alle richieste dei manifestanti, cosa peraltro non semplice visto l’immobilismo politico dei partiti attualmente esistenti.

 

Se il governo non provvederà a muoversi celermente, è solo questione di tempo prima che la pandemia finisca e che la popolazione tutta si sollevi in modo da poter chiedere quei diritti essenziali che troppo a lungo le sono stati negati.



 

 

 

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