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Arte


N. 54 - Giugno 2012 (LXXXV)

lewis carrol
minuetto

di Giuliano Confalonieri

 

Minuetto è l’antica danza francese di andamento moderato, di origine popolare, introdotta nel  XVII sec. alla corte di Luigi XIV e passò quindi nella musica strumentale come parte della suite, della sinfonia e della sonata divenendo più vivace. Questa è l’impressione che ho avuto in merito al rapporto tra Carroll Lewis e le sue modelle-bambine. Perciò niente di morboso – a mio parere – in questo attaccamento dello scrittore-fotografo al mondo pre adolescenziale.

 

Sigmund Freud insegna che le pulsioni sessuali – dalla semplice carezza al sado-masochismo – sono alla base di molti comportamenti umani: il piacere può diventare ossessione o rimanere contenuto in ambiti accettabili proprio come l’inclinazione di questo artista che delle bambine si è fatto intelligente interprete.

          

Carroll Lewis è lo pseudonimo dello scrittore inglese Charles Lutwidge Dodgson (1832/1898). Studiò a Oxford dove rimase fino al 1881 come lettore di matematica pura, scienza alla quale dedicò numerosi trattati. Di carattere molto timido, fu grande amico di alcune bambine e per una di loro scrisse Alice nel paese delle meraviglie (1865), l’opera più amata della letteratura infantile inglese che ha attratto anche il pubblico adulto per il gusto del gioco logico e verbale.

 

Alle avventure di Alice, seguì Attraverso lo specchio (1871), che ebbe un successo quasi altrettanto vasto. I personaggi che nell'opera precedente erano carte da gioco, in Attraverso lo specchio sono pezzi degli scacchi con il comportamento tipico delle  regole della partita. La facoltà, prevalentemente infantile, di osservare con il candore del gioco la realtà, servì a Carroll per evidenziare le assurdità degli atteggiamenti dell’età matura e per creare incantevoli giochi basati sulle regole della logica (La caccia allo Snark del 1876, in apparenza una poesia buffa, nasconde possibilità di interpretazione simbolica che hanno affascinato la critica moderna). Un esempio di fotografo evoluto quello di Carroll, non professionista ma valido nell’arte del clic, è diventato un’icona nel suo genere.

 

Nella prefazione al volume “Alice nel paese delle meraviglie e nel mondo dello specchio” (1966) della mitica economica BUR (volume triplo lire 300), il critico e romanziere Oreste Del Buono osservava: “Con la sua redingote nera, la sua cravatta bianca, i suoi occhi dolci, il reverendo Dodgson era sempre a caccia di sembianze e sorrisi infantili ... per facilitare gli approcci si portava addirittura dietro una valigetta piena di giocattoli. Naturalmente, si presentava ai genitori delle bambine su cui si appuntavano i suoi occhi, ne entrava in confidenza, finché poteva avanzare con disarmante timidezza il suo invito. E così le sue nuove piccole amiche (il loro numero superò il centinaio) facevano il loro ingresso da sole (senza accompagnatori adulti, erano le tassative condizioni) nella bella casa del professore di matematica a Oxford. Lì lui serviva loro con compunzione il tè e suonava loro infinite volte ‘Santa Lucia’ alla pianola, le ubriacava, per così dire, a forza di doni, improvvisazioni, rappresentazioni. Poi arrivava l’attimo di un nuovo, più intimo invito: che voleva salire allo studio? Sopra l’appartamento, era attrezzato uno studio di fotografo. Le nuove o vecchie, piccole amiche che acconsentivano venivano allora vestite appositamente da Dodgson perché risultassero più pittoresche e attraenti ... I modi di Dodgson era carezzevoli, ma come fotografo era di una pignoleria, di una esigenza eccessive, che a volte spazientivano le modelle ... Una fotografa e pittrice, certa Thomson fu incaricata per molto tempo da Dodgson di far posare nude e ritrarre ragazzine sui dodici anni scelte di preferenza tra le giovani attrici. Nel testamento Dodgson lasciò scritto che alla sua morte tutte le fotografie di nudi in suo possesso fossero rinviate alle modelle e alle loro famiglie o distrutte.”  

 

Anche Robert Mapplethorpe (New York 1946) presenta corpi e volti su fondali neutri dello studio di Bond Street a New York. Una delle sue immagini più intuite è quella derivata da Leonardo – modernizzazione di ‘homo ad circulum’ – realizzata nel 1986: ‘Thomas’ mostra un poderoso uomo nero inquadrato nella struttura geometrica e illuminato in modo da evidenziarne il sesso.

 

Volti celebri della cultura e dello spettacolo (Sonia Braga, Kathleen Turner, Norman Mailer) e corpi provocanti fotografati dapprima con la Polaroid poi con il sistema Hasselblad. Ha frequentato il Pratt Institute di Brooklyn e si è interessato di cinema. Il potere commerciale ed artistico di Helmut Newton (Berlino 1920) sta nell’accendere il desiderio in chi guarda le sue foto. L’originalità degli ambienti nei quali fa muovere le modelle, usando il bianco/nero per nascondere od evidenziare particolari intimi, stimola pensieri erotici dando tuttavia un tocco di eleganza alle situazioni costruite.

 

Entra nelle case dei personaggi celebri convincendoli a mostrarsi. Dagli anni Cinquanta ha lavorato a Parigi per le riviste Elle, Playboy, Vogue, Stern e Marie-Claire. David Hamilton (Londra 1933) predilige nudi di fanciulle in fiore e nature morte: “Il giorno in cui le fanciulle scompariranno dalla mia vita, mi ritirerò in solitudine e mi perfezionerò in questo genere, in omaggio a Morandi che ammiro grandemente”. Le sue immagini accuratamente preparate con una luce soffusa che rende eterei i giovanissimi corpi, non nascondono niente dei segreti intimi e della bellezza acerba adolescenziale. Lo stesso stile Hamilton lo ha trasferito sul grande schermo con “Bilitis”, “Tenere cugine”, “Primi desideri”. Dopo avere studiato architettura è diventato direttore artistico della rivista Queen; trasferitosi a Parigi collaborò con periodici internazionali.

 

Due fotografi molto famosi hanno lasciato le testimonianze dei loro lavori ma anche alcune considerazioni: “Desideravo fermare tutte le cose belle che mi si presentavano davanti” affermava Cameron Julia Margaret (Calcutta 1815-Ceylon 1879); educata in Europa, visse in Estremo Oriente fino al 1848, cominciò a scattare fotografie a 48 anni ritraendo molti personaggi importanti dell’epoca: la sua esperienza è riassunta in ‘Annals of my glass Hause’.

 

Il francese Henri Cartier-Bresson, morto nel 2004, a quasi 96 anni, lasciò scritto: “Volevo soprattutto cogliere, nei limiti di un’unica fotografia, tutta l’essenza di una situazione che si stava svolgendo davanti ai miei occhi ... Fotografare significa individuare in una frazione di secondo un fatto  e l’organizzazione delle forme  percepite visivamente che configurano questo fatto. Vuol dire usare nello stesso tempo la testa, gli occhi e il cuore”  –  “Ho estratto dagli uomini, attraverso la fotografia, il meglio e il peggio;  in questo caso li ho tutti perdonati, anche quando la mia Leica coglieva atroci istanti di ferocia”  –  “La fotografia è libertà del pensiero, senza strutture, è avventura; quando ancora mi dico: guarda che bella fotografia da fare, è già troppo tardi”. Fu assistente del regista francese Jean Renoir, nel 1944/45 fotografò l’occupazione della Francia e la liberazione di Parigi, girò “Le Retour”, documentario sui prigionieri di guerra reduci. Quando Cartier-Bresson incontrò l’ungherese Robert Capa e David ‘Chim’ Seymour fondò con loro nel 1947 una delle più importanti agenzie del mondo, la Magnum Photos.

 

Carroll soffriva di balbuzie e di emicrania e ciò avrebbe influito nei rapporti con il mondo adulto. Nel 1856 iniziò ad avvicinarsi alla neonata tecnica della fotografia che si dimostrò per lui uno strumento basilare per esprimere l'idea di "bellezza", ovvero uno stato di grazia, di perfezione morale, estetica e fisica: la trovava nel teatro, nella poesia, nelle formule matematiche e soprattutto nella figura umana, accomunandola alla purezza perduta dell'Eden: "rifiutava il principio calvinista del peccato originale sostituendolo con il concetto opposto di divinità innata".

 

Probabilmente il segreto della passione per l’innocenza infantile nacque da queste componenti: dal saggio Lewis Carroll, photographer di Roger Taylor (2002), che contiene le foto salvate dal tempo e dalla noncuranza, risulta che oltre la metà dei suoi lavori erano ritratti di bambine. La modella preferita era Alexandra Kitchin ("Xie") ritratta una cinquantina di volte fra i 5 ed i 16 anni di età. Si avvicinava a loro come fate, libere creature dei boschi e non come persone fatte di istinti,  quindi l’accusa di pedofilia rimane aleatoria malgrado fosse implicita nel giudizio dei  benpensanti dell’epoca. Il poeta, l’artista, vive una propria dimensione, dimentico delle regole stabilite dalla società.

 

Per merito dell’abilità fotografica venne accettato nei circoli sociali più esclusivi facendo ritratti a personaggi noti. Smise improvvisamente di fotografare nel 1880, dopo 24 anni di attività e oltre 3.000 foto. Meno di un terzo di queste immagini sono sopravvissute; alcune furono deliberatamente distrutte dallo stesso autore. Perduto anche il diario in cui annotava minuziosamente le condizioni in cui aveva realizzato ciascuno scatto.

 

Attualmente è considerato uno dei grandi fotografi dell'epoca vittoriana, certamente tra coloro che ha maggiormente influito sulla fotografia artistica moderna. Alto un metro e ottanta,  magro, capelli ricci e occhi azzurri. A diciassette anni ebbe un attacco di pertosse che compromise l'udito di un orecchio, problema che si assommò a quello respiratorio del quale soffrì  sempre.

 

Malgrado queste limitazioni o forse per tentare di superarle, Lewis cantava e recitava in pubblico, ambizioso di essere notato. Primeggiava anche in ambito scolastico tanto che l'insegnante di matematica affermò di non avere mai avuto un allievo così promettente. Ricevette numerosi riconoscimenti formali per i risultati ottenuti: ciononostante la sua carriera accademica, rimase in equilibrio fra brillanti risultati e annoiata pigrizia. Ebbe una cattedra in matematica ma sembra  che trovasse l'insegnamento privo di stimoli, e che nelle sue lezioni regnasse l'apatia.

 

Fiaba e favola, solitamente si usano ambedue i termini con lo stesso significato: il primo indica un racconto fantastico di origine popolare, di tradizione orale, nel quale interagiscono esseri soprannaturali (streghe, orchi, fate, elfi, gnomi, maghi); il secondo indica una narrazione in versi o prosa con fini pedagogici, nella quale agiscono animali o figure simboliche dei vizi e delle virtù umane.

 

Il mondo vecchio ma non completamente tramontato dei racconti del nonno intorno al fuoco ha conservato il suo fascino anche nell’era tecnologica e smaliziata del terzo millennio: atmosfera ricostruita nel film di Ermanno Olmi “L’albero degli zoccoli” del 1975 (due le versioni distribuite sul mercato, una nella lingua italiana e l’altra nel dialetto bergamasco: la stalla, dove faceva più caldo, era il luogo di ritrovo delle piccole comunità contadine e lì i racconti tramandati di generazione in generazione colpivano ed affascinavano i ragazzi non ancora intontiti dai messaggi mediatici).

 

Il significato etimologico della parola (dal latino ‘fabula’) è “una breve narrazione in prosa o in versi di intento morale avente per oggetto un fatto immaginato i cui protagonisti sono per lo più cose o animali”: il termine ha dunque un’estensione notevole, applicabile in maniera differenziata. La favola scritta o raccontata riportata fino ai nostri giorni ha origini classiche, dalla cultura greca a quella romana. Le leggende di origine religiosa o tribale hanno spesso carattere di fiaba e sono riferibili a civiltà antiche come quelle della Cina, dell’India e dell’Egitto, ognuna con le caratteristiche legate alla propria cultura.

 

Molti scrittori si sono cimentati per riversare in un racconto la potenzialità dell’immaginazione (raccolte di novelle come quella araba “Le Mille e una Notte”, “Il Decameron” di Giovanni Boccaccio e “I Racconti di Canterbury” dell’inglese Geoffrey Chaucer, possono essere considerate favole letterarie ‘per grandi’, così come la raccolta medioevale “Chanson de Roland”). Una serie di personaggi – spesso con segni antropomorfici – che avrebbero trovato una diversificazione espressiva nei fumetti e nei cartoons.

 

Le moderne favole si chiamano: “E.T. L’Extra Terrestre” (film di Steven Spielberg del 1982), il romanzo “Il signore delle mosche” (1954) di William Golding, “Il signore degli anelli” di J.R. Renel Tolkien, il romanzo di J.K. Rowling “Harry Potter e la Pietra filosofale”. Nei saggi degli anni Cinquanta raccolti nel volume “Il linguaggio dimenticato (la natura dei miti e dei sogni)”, lo scrittore tedesco Erich Fromm dedica un capitolo a “Cappuccetto Rosso” commentando che questa favola “esemplifica bene le teorie di Freud e allo stesso tempo offre una variante del tema del conflitto uomo-donna che abbiamo trovato nella trilogia di Edipo e nel mito della creazione”.

          

▪ Andersen Hans Christian (Danimarca, 1805). Dopo il primo successo con il romanzo scritto ed ambientato in Italia (“L’improvvisatore”, 1834) diventò famoso con le fiabe pubblicate in fascicoli annuali dal 1835 al 1872. Il suo mondo ingenuo e fantasioso invita alla speranza malgrado i contraccolpi della sorte (156 racconti tradotti in 30 lingue).

  

▪ Apuleio Lucio (Algeria, 125 ca). Scrittore latino che dopo avere studiato a Cartagine seguì l’inclinazione scrivendo e tenendo conferenze. Fu in occasione di un processo a suo carico che compose una dotta autodifesa (“Apologia”), sintesi degli stili retorici dell’epoca; con il medesimo taglio letterario raccolse 23 dei suoi brani oratori in “Florida”. L’unico romanzo della letteratura latina pervenutoci integro è considerato l’opera maggiore di Apuleio (“Metamorfosi” o “Asino d’oro”), racconti imperniati intorno al giovane Lucio, trasformato per magia in un asino, nei quali viene sottolineata la caduta e la redenzione dell’essere umano.    

 

▪ Basile Giambattista, anagramma di Gian Alesio Abbattutis (Napoli, 1575). Scrittore in lingua e dialetto, governatore di alcune zone dell’Italia meridionale, conosciuto per “Muse Napoletane” (quadri di vita quotidiana a sfondo moralistico e satirico) e per “Lo cunto de li cunti” (raccolta di cinquanta fiabe, pubblicata postuma nel 1635, tradotta in italiano nel 1925 da Benedetto Croce). Alcuni personaggi sono stati in seguito imitati dal francese Perrault: “Zezolla” è diventata “Cenerentola” e “Cagliuso” è diventato “Il gatto con gli stivali”. “Cuorvo” e “Le tre cetre” sono state rielaborate dall’italiano Gozzi, rispettivamente come “Corvo” e “L’amore delle tre melarance”.

 

▪ Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini). Nato a Firenze nel 1826 partecipò ad alcune campagne militari risorgimentali e si dedicò al giornalismo. Scrisse “Il viaggio per l’Italia di Giannettino”, “Minuzzolo”, “Occhi e nasi”, “Storie allegre”.  “Le avventure di Pinocchio, storia di un burattino”, apparvero sul Giornale dei Bambini nel 1880 ed in volume nel 1883.

 

▪ Esopo. Favolista greco di origine frigia, schiavo a Samo nel VI sec. a.C., divenne una figura leggendaria tanto da stimolare la stesura nel IV sec. d.C. di una biografia romanzata della sua vita avventurosa. Ė considerato il creatore di favole sugli animali con riferimenti allegorici ai vizi ed alle virtù dell’uomo.

 

▪ Fedro. Favolista latino del I sec. d.C., originario della Macedonia, liberto di Augusto a Roma. Scrisse cinque libri, spesso “traduzioni” dei lavori attribuiti ad Esopo, anche se la sua ambizione fu quella di creare uno stile personale .

 

▪ Fiacchi Luigi detto il Clasio (1754). Sacerdote ed Accademico della Crusca. Le sue “Favole” (1807) ambientate nel natio Mugello hanno una dichiarata intenzione pedagogica eppure la capacità dell’autore di rielaborare le idee in modo fantastico con l’uso appropriato e semplice della lingua italiana ha dato al suo lavoro un’impronta  originale.

 

▪ Firenzuola Agnolo, soprannome di Michelangiolo Giovannini (Firenze 1493). Esercitò l’avvocatura e per qualche tempo indossò il saio penitenziale. Prosatore elegante ‘capace di armonizzare modi illustri e forme popolaresche, colore arcaico e moderna spigliatezza’. Rielaborò le “Metamorfosi” di Apuleio (“L’asino d’oro”, 1525), scrisse favole e apologhi zoomorfi (“Prima veste dei discorsi degli animali”). Quasi tutte le sue opere furono pubblicate postume.

   

▪ Gadda Carlo Emilio. Nato a Milano nel 1893, di professione ingegnere, pubblicò una serie di opere che sono considerate innovative per il particolare uso della lingua ed il continuo imprevedibile ribaltamento delle strutture narrative: “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, “La cognizione del dolore”. Scrisse “Il primo libro delle  favole” nel 1952.

 

▪ Gozzi Carlo (Venezia, 1720/1806). Polemico contro il rinnovamento e quindi a favore della tradizione, difese la Commedia dell’Arte con l’uso insistente della ‘maschera’ come nella tragedia greca e nel teatro classico giapponese – al tramonto per la ripetitività degli schemi – contro la novità teatrale dei ‘caratteri’ goldoniani. Le “Fiabe” di Gozzi furono parodie alle idee innovative di Carlo Goldoni ma poi acquistarono autonomia creativa nella quale si mescolano comico e tragico, magia e realismo, spesso evidenziando il contrasto tra il ‘favoloso oriente’ ed il ‘pragmatismo occidentale’. 

 

▪ Grimm Jacob (1785) e Wilhelm (1786). Fratelli tedeschi, professori di filologia a Gottinga, noti oltre che per una serie di interessanti lavori letterari (grammatica, vocabolario e storia della lingua tedesca, leggende eroiche tedesche) anche per “Fiabe per bambini e per famiglie” nelle quali riassumono con un linguaggio semplice e suggestivo molte storie raccolte dalla viva voce del popolo.

   

▪ Hoffmann Ernst Theodor Amadeus (Germania, 1776). Artista di eclettica cultura (musica, pittura, critica teatrale) in parallelo con l’attività di magistrato. Dal 1808 si cimentò con la letteratura scrivendo romanzi e racconti. Nella raccolta “Fantasie alla maniera di Callot” è inserita la storia fantastica e grottesca “La pentola d’oro”.

   

▪ La Fontaine Jean de (Francia, 1621). Dopo gli studi di teologia e diritto diventò ispettore delle acque e foreste. Dopo avere sposato una quattordicenne – dalla quale poi si separerà – nel 1658 si trasferì a Parigi dove frequentò, tra gli altri, Racine e Molière. Colui che fu definito ‘Aretino mitigato’ per i temi licenziosi trattati in diverse sue opere, è ricordato soprattutto per le sue “Fables” edite a Parigi tra il 1668 e il 1694: gli spunti di questa notevole raccolta risalgono ad Esopo, Fedro, a fonti medioevali e rinascimentali, a libri della cultura indiana. Dopo un periodo nel quale usò lo stile didattico tipico della favola per bambini, l’autore francese (“un miracolo di cultura”) ampliò il discorso ai temi più impegnativi dell’etica e della politica conservando però la fluidità dello stile.

 

▪ Lessing Gotthold Ephraim (1729). Scrittore tedesco, giornalista e bibliotecario. Capolavoro della sua produzione teatrale è considerata la fiaba drammatica “Nathan il saggio”, un apologo sulla tolleranza religiosa.  

 

▪ Pancrazi Pietro (Cortona, 1893). Saggista, redattore di riviste, collaboratore del “Corriere della Sera” e consulente editoriale, si interessò di tutti gli aspetti della letteratura del suo tempo. I racconti favolistici definiti “vicini alla prosa d’arte” sono raccolti in “Esopo moderno” (1930).

 

▪ Passeroni Gian Carlo (Nizza, 1713). Poeta membro dell’Accademia dei Trasformati. Tra il 1779 ed il 1788 scrisse “Favole esopiane” ma questo autore è noto anche per il poema “Cicerone” nel quale espone curiose notizie sui costumi del XVIII secolo.

 

▪ Perrault Charles (Parigi, 1628). Funzionario pubblico e membro dell’Académie française. È conosciuto per “I racconti di mia madre l’Oca” (“Contes de ma mère l’Oye”, 1697), otto in prosa e tre in poesia. I soggetti, ripresi dall’antica tradizione orale della favolistica popolare e con l’uso di uno stile fluido, comprendono titoli universalmente conosciuti come “La bella addormentata nel bosco”, “Cappuccetto rosso”, “Il gatto con gli stivali”, “Cenerentola”. 

  

▪ Pignotti Lorenzo (Firenze, 1739). Professore di fisica all’Università di Pisa, si cimentò con “Favole e novelle” dove prende bonariamente in giro la società toscana del Settecento.

  

▪ Rodari Gianni (Omegna, 1920). Giornalista e scrittore per l’infanzia. La sua novità è stata quella di aprire il mondo della favola ai temi della vita contemporanea sostituendo all’immaginifico tradizionale personaggi e situazioni surreali moderne: “Le avventure di Cipollino”, “Le filastrocche del cavallo parlante”, “C’era una volta il barone Lamberto”.

 

▪ Saint-Exupéry Antoine de (Lione, 1900). Pilota e scrittore di origine aristocratica. “Il piccolo Principe” è un classico della letteratura per l’infanzia, scritto ed illustrato nel 1943, un anno prima che durante un volo di ricognizione il suo aereo fosse abbattuto.

 

▪ Salgari Emilio (Verona, 1862). Produsse 80 romanzi e 150 racconti per ragazzi. Con i personaggi esotici  (“I Pirati della Malesia”, “Le Tigri di Mompracem”) ottenne un successo strepitoso; ciononostante lo scrittore veronese fu sempre assillato dai debiti tanto da essere indotto al suicidio.

 

▪ Straparola Giovan Francesco. Scrittore italiano del XV sec. Nelle 75 novelle raccolte sotto il titolo “Le piacevoli notti” (ipoteticamente narrate nell’Isola di Murano per 13 notti durante il carnevale da una brigata di commensali) l’autore alterna favole a racconti popolari. 

 

▪ Trilussa (anagramma di Salustri, Carlo Alberto). Scrittore dialettale romano (1871). Si dedicò al bozzetto di costume ed “alla favola moraleggiante di ascendenza esopiana”. Trilussa ha commentato in modo ironico e disincantato mezzo secolo di storia italiana: “Favole romanesche”, “Caffè-concerto”, “Er serrajo”, “Ommini e bestie”. Personaggio popolarissimo, fece diverse tournée in Italia ed all’estero come lettore di poesie.

 

▪ Twain Mark (pseudonimo di Samuel Langohorne Clemens). L’autore statunitense (1835) fu pilota di battello sul fiume Mississippi e proprio dal linguaggio marinaresco ricavò il nome per la sua carriera di scrittore: ‘mark twain’ significa ‘marca due’ per segnalare che la profondità dell’acqua è di ‘due braccia’. Diventò poi conferenziere, inviato speciale e romanziere di successo con le vicende picaresche dei ragazzi americani di fine Ottocento: “Le avventure di Tom Sawyer”, “Le avventure di Huckleberry Finn”.

 

▪ Verne Jules (Nantes, 1828). Diventò famoso nel 1863 con “Cinque settimane in pallone”, un romanzo d’avventure ispirato al progresso scientifico. Macchine avveniristiche e personaggi straordinari sono raccontati in “Viaggio al centro della terra”; “Dalla Terra alla Luna”, “Ventimila leghe sotto i mari”.

 

Oggigiorno la pagina scritta è affiancata e talvolta prepotentemente sottomessa dai mezzi elettronici: la televisione ed i video-giochi affascinano i ragazzi ma non permettono loro di esercitare le potenzialità dell’immaginazione; lo schermo casalingo non solo isola gli individui ma sempre più presenta in modo assillante le tremende realtà quotidiane oppure fiction nelle quali la violenza è fine a se stessa e quindi spettacolo diseducativo (la famiglia è il nucleo primario della società: se è malata, il processo di autodistruzione è inevitabilmente innescato, una pericolosa escalation verso il vuoto morale e sociale).

 

Fra gli autori che hanno apertamente dichiarato di considerare Alice una fonte di ispirazione per le loro opere si possono ricordare James Joyce e Jorge Luis Borges. In molti paesi del mondo esistono club e società di estimatori di Carroll; gli è dedicato il Lewis Carroll Shelf Award, importante premio per la letteratura per ragazzi.

 

Ecco l’inizio di “Alice nel paese delle meraviglie”: Alice cominciava ad essere veramente stufa di star seduta senza far niente accanto alla sorella, sulla riva del fiume. Una o due volte aveva provato a dare un'occhiata al libro che sua sorella stava leggendo, ma non c'erano né figure né filastrocche. "Che me ne faccio di un libro senza figure e senza filastrocche?" pensava Alice. A dire la verità non era possibile pensare molto, perché faceva tanto caldo che Alice si sentiva tutta assonnata e con le idee confuse: adesso si stava domandando se valesse la pena di alzarsi a raccogliere fiori per fare una ghirlanda di margherite, quan­do ecco che improvvisamente le passò proprio davanti un Coniglio Bianco con gli occhi rosa. La co­sa non sembrò tanto strana, ad Alice. Non le sem­brò neppure tanto strano che il Coniglio dicesse tra sé: 'Povero me, povero me! arriverò troppo tar­di!" Solo in un secondo tempo, quando ripensò a questo fatto, Alice si rese conto che avrebbe dovu­to meravigliarsene; sull'istante le sembrò addirittu­ra una cosa naturale. Però quando il Coniglio tras­se un orologio dal taschino del panciotto e, dopo avergli dato un'occhiata, affrettò il passo ancora di più, Alice balzò in piedi meravigliata perché ricor­dava benissimo di non aver mai visto uri coniglio con un taschino nel panciotto e, per di più, con un orologio dentro questo taschino! Ormai era tutta presa dalla curiosità: lo rincorse attraverso il cam­po e per fortuna arrivò in tempo per vederlo infi­larsi in una grande tana, sotto una siepe.

 

Un istante dopo Alice si infilava nella tana dietro di lui: non le venne neppure in mente di chiedersi come avrebbe poi fatto ad uscire da quel posto. Per un pezzo la tana era diritta come una galleria, poi sprofondava all'improvviso, ma così all'im­provviso, che Alice non fece neppure in tempo a pensare che era meglio fermarsi, perché si trovò su­bito a sprofondare lungo quella specie di pozzo ve­ramente profondo. O il pozzo era molto profondo oppure Alice cadeva lentamente: il fatto certo è che essa, prima d'arrivare in fondo, ebbe tutto il tempo di guardarsi intorno e di chiedersi che cosa le stesse capitan-do. In un primo tempo cercò di guardare in basso per vedere dove stava andando a finire. Ma c'era troppo buio e non si vedeva niente. Allora guardò le pareti del pozzo e si accorse che erano piene di credenze e di scaffali. Da ogni parte si vedevano carte geografiche e quadri appesi ai chiodi. Alice prese a volo un barattolo da una credenza: sull'eti­chetta c'era scritto "MARMELLATA D'ARANCE".  Però fu molto delusa quando s'accorse che il barat­tolo era vuoto. Non voleva buttarlo via, perché aveva paura che, cadendo, potesse ammazzare qual­cuno. Allora lo posò sopra un'altra credenza, mentre le passava davanti. "Bene!” pensava intanto Alice. "Dopo una caduta come questa, un capitombolo lungo le scale mi sem­brerà uno scherzo! A casa troveranno che sono proprio coraggiosa! Anzi sono sicura che non avrei paura nemmeno se dovessi cadere dal tetto di ca­sa!”. (Questo, molto probabilmente, era vero.)

 

E cadeva, cadeva, cadeva. Ma non finiva mai di sprofondare? "Chissà quanti chilometri di caduta ho fatto finora” disse ad alta voce. "Ormai debbo essere vicina al centro della terra. Vediamo: sarebbero più di seimila chilometri di profondità, mi sembra..." (Alice aveva imparato parecchie cose come queste a scuola, ed anche se non era certamente la migliore occasione per fare sfoggio della sua erudizione, da­to che non c'era nessuno ad ascoltarla, era però un buon esercizio ripetere quelle cose.) "Sì, deve essere proprio la distanza giusta. Però vorrei sapere il grado di latitudine e di longitudine che ho raggiunto.» (Alice non aveva la più piccola idea di che cosa fosse la Latitudine e tanto meno la Longitudine: però le piaceva dire queste due parole.) Poi cominciò a pensare ancora: "Chissà se attra­verserò tutta la terra. Sarebbe divertente capitare fra la gente che cammina a testa in giù! Mi pare che si chiamino gli Antipati..." (Questa volta era abbastanza contenta che non ci fosse nessuno ad ascoltarla, perché la parola non le sembrava proprio quella giusta.) "Bisognerà che domandi a qualcuno il nome del paese, si capisce.

 

Per favore, signora, questa è la Nuova Zelanda oppure l'Australia?" (Cercò d'inchinarsi con gentilezza, mentre parlava... pensate un po': inchinarsi educatamente mentre si cade attraverso l'aria! Ci riuscireste voi?) "Chissà che bambina ignorante penserà che io sono! No, è meglio non domandare; forse lo troverò scritto in qualche posto. E cadeva, cadeva, cadeva. Non c'era niente da fare. Perciò Alice ricominciò a parlare. "Credo che Dina sentirà molto la mia mancanza, stasera." (Dina era la gatta.) "Spero che non dimentichino di darle il suo piattino di latte, quando sarà l'ora della merenda. Dina cara, vorrei che tu fossi qui con me! Non ci sono topi per aria, lo so, ma potresti acchiappare un pipistrello: somiglia molto a un topo, no?  Chissà se i gatti mangiano i pipistrelli." A questo punto Alice cominciò a sentir sonno e continuò a parlare fra sé, come in dormiveglia: "I gatti mangiano i pipistrelli? I gatti mangiano i pipistrelli?” ripeteva. E a volte diceva: "I pipistrelli mangiano i gatti?” Infatti, siccome non era in grado di rispondere a nessuna delle domande, non dava molto peso alla maniera in cui se le poneva. Alla fine  si accorse che stava addormentandosi. A un cer­to punto cominciò a sognare di trovarsi a passeggio con la sua Dina, a braccetto, e di domandare alla gatta con molta serietà: "E adesso, Dina, dimmi proprio la verità: l'hai mai mangiato un pipistrello?"

 

D'un tratto - bum! bum! - arrivò proprio al fondo e si trovò sopra un mucchio di foglie secche. Aveva finito di cadere. Alice non s'era fatta nulla e un attimo dopo era già in piedi. Guardò in alto, ma era tutto buio sulla sua testa. Davanti a lei c'era un altro lungo corridoio, in fondo al quale fece appena in tempo a vedere il Coniglio Bianco, che stava svoltando l'angolo. Non c'era un minuto da perdere. Alice si mise a correre come il vento ed arrivò in tempo per sentirlo dire, mentre voltava l'angolo: "Per i miei occhi, per i miei baffi, s'è fatto tremendamente tardi!” Ormai Alice gli era vicinissima, ma quando anche lei voltò l'angolo, il Coniglio non si vedeva più. Alice si tro­vò in una sala bassa e lunga, illuminata da una fila di lampade che pendevano dal soffitto. Intorno alle pareti si vedevano molte porte, ma erano tutte chiu­se. Fece un giro completo, cercando inutilmente di aprirle, e poi si diresse tutta afflitta verso il centro della sala. Si chiedeva come avrebbe potuto fare per uscire da quel posto.

 

Un inizio decisamente originale per adeguarsi alla fantasia infantile, immaginata e scritta in un modo assolutamente invogliante alla lettura. Il binomio Alice-Coniglio diventa il nucleo di un racconto che si dipana in ulteriori invenzioni molto vicine al mondo giovanile. Non so se ancora oggi la parola scritta riesce a sovrastare i modelli tecnologici sempre più invasivi; è certo però che gli estri degli scrittori dei secoli passati hanno in sé qualcosa di magico perché nati dalle idee e non dai suggerimenti elettronici.

 

Carroll usa Alice come un mezzo per esporre le proprie fantasie traslate nel linguaggio fanciullesco. Commenta Carroll: Di solito la ragazzina diventa un essere così diverso quando si trasforma in donna; allora anche la nostra amicizia deve evolversi: in generale questa evoluzione si traduce nel passaggio da un’intimità affettuosa a rapporti di semplice cortesia consistenti nello scambio di un sorriso e di un saluto quando ci incontriamo. Da questa frase risulta chiaro come la dolcezza sentimentale di Carroll nei confronti delle bambine sia senza secondi fini e quindi completamente innocente, proprio come l’artista che trasforma la modella in ideale: le pulsioni sessuali adulte si fermano sulla porta del proibito, nel rispetto totale della persona in divenire.

 

Lo prova il finale del racconto: "La giuria emetta il verdetto!" urlò il Re per la ventesima volta o quasi. "No, no!" gridò a sua volta la Regina. "La sen­tenza prima... il verdetto dopo!" "Stupida pazza!" disse forte Alice. "Che Cretina! Vuole prima la sentenza!" "Zitta!" disse la Regina. E diventò paonazza. "Neanche per sogno!" ribatté Alice. "Tagliatele la testa!» urlò allora la Regina con tut­to il fiato che aveva in gola. Ma nessuno si mosse. "A chi credi di far paura?» disse Alice, che ormai . aveva raggiunto la sua statura normale. "Dopo tut­to, non siete che un mazzo di carte!» Non aveva ancora finito di parlare, quando tutto il mazzo di carte si sollevò in aria e cominciò a vol­teggiarle intorno minaccioso. Alice ebbe un piccolo grido, un po' per la rabbia e un po' per la paura. Cercò di difendersi, di cacciarle via e... si risvegliò sulla riva del fiume: aveva il capo posato sul grem­bo della sorella, la quale era intenta a toglierle dal viso le foglie secche cadute proprio allora da un al­bero. "Svegliati, Alice" disse la sorella. "Che sonno lun­go hai fatto!" "Oh, che strano sogno ho fatto!" mormorò Alice. E raccontò alla sorella le strane Avventure che avete appena finito di leggere. Quando poi Alice giunse alla fine della sua storia, la sorella la baciò dicendo: "È stato davvero uno strano sogno. Ma adesso corri a far merenda. È tardi".

 

Alice si alzò e si mise a correre più che poteva. Ma intanto pensava ancora al suo sogno mera­viglioso. La sorella restò lì, seduta, a guardare il sole che tramontava. Poi appoggiò la testa sulla mano e pen­sò alla piccola Alice e alle sue meravigliose Avven­ture. Allora anche lei si abbandonò a un sogno, che adesso vi racconto. Sognò la piccola Alice: le sue manine stringevano le ginocchia della sorella e i grandi occhi splen­denti erano fissi nei suoi. Udì ancora il suono festo­so della sua piccola voce, rivide il movimento della testa che gettava all'indietro i capelli ribelli, ostinati a voler sempre ricadere sugli occhi. Mentre era intenta ad ascoltare la voce della so­rellina, tutto intorno a lei si popolò delle strane crea­ture del sogno di Alice. L'erba folta si incurvava con un fruscio sotto il passo frettoloso del Coniglio Bianco...

 

Il Topo spa­ventato nuotava in cerca di una via di scampo nello stagno vicino... si sentiva il tintinnio delle tazze da tè della Lepre Marzolina e dei suoi amici durante il loro pranzo senza fine... la voce acuta della Regi­na ordinava l'esecuzione dei suoi poveri invitati... il Porcellino starnutiva sulle ginocchia della strana Duchessa, mentre i piatti e le pentole volavano per aria... e ancora si udì nella quiete della sera il gri­do del Grifone, lo stridere del gessetto di Bill, gli applausi dei ‘tacitati’ Porcellini d'India, confusi ai lontani singhiozzi dell’infelice Finta Tartaruga. Restò così seduta, con gli occhi chiusi, e quasi credeva anche lei di trovarsi nel Paese delle Mera­viglie. Eppure sapeva che sarebbe stato sufficiente aprire gli occhi per tornare alla sbiadita realtà sen­za fantasia delle persone grandi.

 

L'erba si sarebbe incurvata solo sotto il vento... lo spavento del Topo nello stagno si sarebbe mutato nel fruscio sordo delle canne... il tintinnio delle tazze della Lepre Marzolina nel rumore delle campanelle di un gregge vicino... gli strilli rauchi e fieri della Regina nella voce di un esile pastorello... gli starnuti del bimbo, il gri­do del Grifone, e tutte le altre strane voci del sogno, si sarebbero mutate, ne era certa, nel clamore del cortile di una fattoria, mentre il muggito lontano degli armenti si sarebbe sostituito a poco a poco ai disperati singhiozzi della Finta Tartaruga.

 

Alla fine tentò di immaginare la sua sorellina nel tempo in cui sarebbe divenuta donna: avrebbe con­servato, attraverso gli anni più maturi, il cuore sem­plice e affettuoso di adesso? Chissà se un giorno avrebbe raccolto intorno a sé altre bambine, per fare che i loro occhi brillassero come stelle al racconto del suo (ormai tanto lontano) viaggio nel Paese delle Meraviglie. Chissà se avrebbe saputo parte­cipare, ancora con lo stesso cuore, ai loro piccoli dispiaceri e alle loro semplici gioie, nel ricordo della sua vita di bambina e dei suoi felici giorni d'estate. Lei era certa che Alice ne sarebbe stata capace.

 

Il sogno era finito e come dice Dante uscì a riveder le stelle... fino al momento in cui sarebbe rientrata nella seconda catarsi dalla  realtà quotidiana. Prima di penetrare il miraggio, ecco un paio di lettere scritte da Lewis Carroll (talvolta firmate con il nome originario Charles L. Dogson), un lucido spaccato della personalità dello scrittore-fotografo, tanto dolce quanto esigente ed ossessivo nelle sue manie.

 

Ah, bambina mia, bambina mia! perché non sei mai venuta a farti fotografare a Oxford? Otto giorni fa ho fatto una gran bella fotografia ma siccome la luce è molto debole in questo periodo dell’anno, la mia modella (una bambina di dieci anni) è dovuta restare in posa per un minuto e mezzo. Se tu trovassi qualcuno per farti accompagnare sin qui, riuscirei comunque a fotografarti. Penso di restare a Oxford fino a Natale. A che serve avere una sorella maggiore se non è capace di accompagnarti per l’Inghilterra? Dopo Natale, spero di andare a Londra e di accompagnare alcune bambine a vedere le pantomime. Mia prima preoccupazione sarà quella di accompagnare a teatro la mia amica Evelyn Dubourg (i suoi genitori mi ospitano quando vado a Londra). Dice che "si conserva piccola” per poter uscire con me. Non è ancora grande (compirà sedici anni tra una settimana), così bisogna perdonarla se ha gusti infantili. Dopo Evelyn, sarei molto contento di portare allo spettacolo due di voi (10.12.1877).

 

Mia cara Florence,

quel che prova la vecchia signora che, dopo dato da mangiare al suo canarino ed essersene andata a fare una passeggiata trova al suo ritorno la gabbia occupata da un tacchino vivo; quel che sente il vecchio ,signore che, dopo aver messo alla catena la sera un piccolo fox-terrier, la mattina seguente trova un ippopotamo che fa il diavolo a quattro nella cuccia: ecco quel che provo io, quando mentre cerco di evocare il ricordo di una bambina che sguazzava nel mare di Sandown, mi trovo davanti alla stupefacente fotografia di quello stesso microcosmo bruscamente sviluppatosi in una grande ragazza che io non oserei guardare neppure con l'aiuto di un occhialino che sarebbe senz'altro necessario per farsi un'idea chiara del suo sorriso o, almeno, per rendersi conto se abbia o no delle sopracciglia! Uff! Questa lunga frase mi ha esaurito; mi resta abbastanza forza per dirti: "Ti ringrazio sinceramente delle due fotografie..." Sono atrocemente parlanti. Andrai a Sandown l'estate prossima? C'è una piccola probabilità che io vi passi o tre giorni; ma per ora il mio quartier generale è Eastbourne. Con tutto il mio affetto (10.2.1882).

 

Commenta ancora Oreste Del Buono nella prefazione del libro: Con la sua redingote nera, la sua cravatta bianca, i suoi occhi dolci, il reverendo Dodgson era sempre a caccia di sembianze e sorrisi infantili in cui cercava di recuperare un qualche particolare, una qualche sfumatura, qualche eco della piccola amata: per facilitare gli approcci si portava addirittura dietro una valigetta piena di giocattoli. Naturalmente, si presentava ai genitori delle bambine su cui si appuntavano i suoi occhi, ne entrava in confidenza, finché poteva avanzare con disarmante timidezza il suo invito. E così le sue nuove piccole amiche (il loro numero superò il centi­naio) facevano il loro ingresso da sole (senza accompagnatori adulti, erano le tassative condizioni) nella bella casa del professore di matematica a Oxford.

 

Lì lui serviva loro con compunzione il tè e suonava loro infinite volte Santa Lucia alla pianola, le ubriacava, per così dire, a forza di doni, improvvisazioni, rap­presentazioni. Poi arrivava l'attimo di un nuovo, più intimo invito: chi voleva salire allo studio? Sopra l'ap­partamento, era attrezzato uno studio di fotografo. Le nuove, o vecchie, piccole amiche che acconsentivano ve­nivano allora vestite appositamente da Dodgson perché risultassero più pittoresche e attraenti. Nelle im­magini conservate queste bambinette appaiono in Pan­ni di mendicanti come Alice Liddell o di cinesine o di turche o pescatrici, con espressioni pensierose, vagamente sofferenti: i modi di Dodgson erano carezzevoli, ma come fotografo era di una pignoleria, di una esi­genza eccessive, che a volte spazientivano le modelle.

 

“Alice nel mondo dello specchio”. Continua la meravigliosa avventura della protagonista Alice insieme alla gatta Kitty, questa volta in un turbinio di mosse del complesso gioco degli scacchi. Mentre Alice stava a sedere rannicchiata in un angolo della grande poltrona, un po' parlando a se stessa e un po' dormendo, la gattina aveva co­minciato a giocare sfrenatamente col gomitolo di lana che Alice s'era affaticata ad avvolgere e lo aveva fatto rotolare in su e in giù, finché il gomitolo s'era nuovamente disfatto del tutto ed ora lo si vedeva sparpagliato sul tappeto accanto al caminetto, diventava tutto nodi e grovigli, mentre la gattina vi scorrazzava sopra inseguendo la sua coda ... Quando io ho detto: ‘Scacco’ tu hai fatto le fusa. Sì, era uno scacco davvero bello, Kitty, ed avrei potuto vincere se non fosse stato per quello stupido cavallo che è sceso a far strage fra i miei pezzi ... Text Box:  
Riferirò qualche frase del discorso di Alice alla gattina: Facciamo finta che tu sia la Regina Ros­sa, Kitty! Credo che se ti alzerai sulle zampe e pie­gherai le zampette, sembrerai identica a lei. Via, proviamo! E Alice prese dal tavolo la Regina Ros­sa e la mise davanti alla gattina perché questa la imitasse: naturalmente la gattina non ci riuscì, so­prattutto, disse Alice, perché non sapeva piegare le zampette nella maniera giusta. Allora, per punirla, la portò davanti allo specchio perché potesse ve­dere come fosse una buona a nulla e aggiunse: Se non riesci subito, ti getterò nella Casa che si vede nello Specchio. Ti piacerebbe? Ecco, se avrai un po' di pazienza e non parlerai troppo, ti dirò quello che penso della Casa che è nello Specchio. In primo luogo c’è la stanza che si vede attraverso il vetro, identica al nostro salotto ma con gli oggetti disposti al contrario. Se salgo su una sedia, riesco a vederla tutta, all'infuori di quel pez­zo che è dietro il caminetto ...

 

Facciamo finta che ci sia un modo di entrare dentro, Kitty. Facciamo finta che lo specchio sia soffice come una garza, così che possiamo attraversarlo. Anzi, penso che adesso si stia trasformando in una specie di nebbia. Sarà abbastanza facile attraversarlo ... Mentre diceva queste cose, Alice era salita sulla cornice del caminetto e lei stessa non riusciva a ren­dersi ben conto di come fosse arrivata sino lì. A un certo momento il vetro cominciò a liquefarsi e di­ventò come una lucida nebbia d'argento. Poco dopo Alice passò attraverso il vetro e sal­tò in punta di piedi nella stanza dello Specchio.

 

Ecco il nuovo fantastico mondo da ideare al quale Lewis si accinge per avvicinarsi ancora di più all’età infantile. Ecco dunque presentarsi sulla scacchiera dell’utopia le Pedine, i Cavalli, le sagome del Re e della Regina nelle due sembianze antagoniste, lo strano paesaggio dove i quadrati del gioco sono divisi da ruscelli attraversati da ponticelli come se su un palcoscenico gigante si svolgesse una reale partita a scacchi. Strani incontri enfatizzati come Pizzicotto e Pizzichino – contornati da Ostriche, Falegname, Tricheco, Corvo, Tombolo Dondolo – ognuno dei quali sostiene le proprie ragioni per esistere, un insieme di personaggi creati ex novo dalla mente fervida del reverendo.

 

Il racconto prosegue con la pecora-commessa in una piccola bottega-bazar dove la merce nei cassetti scompariva all’avvicinarsi di Alice, insomma un insieme di immaginifiche visioni tipiche di poeti e favolisti: Un attimo dopo apparvero dei soldati che correvano per il bosco, prima a due a due, poi a tre a tre, poi a dieci o venti alla volta e infine divennero una folla così enorme che sembrarono abbattere la fore­sta. Alice si nascose dietro un albero, per paura di essere travolta, e aspettò che se ne andassero. In tutta la sua vita non aveva mai visto dei solda­ti che si tenessero in piedi così male: inciampavano sempre in qualche cosa e, non appena uno di loro cadeva, molti altri gli cadevano addosso tanto che, ben presto, il suolo fu ricoperto di piccoli mucchi di uomini. Allora arrivarono i cavalli. Siccome avevano quat­tro zampe, essi si reggevano in piedi meglio dei soldati. Però ogni tanto ce n'era qualcuno che inciam­pava. Allora, immancabilmente, non appena il cavallo inciampava, il cavaliere cadeva a terra. La confu­sione aumentava di minuto in minuto e Alice pen­sò bene di andarsene in un posto più spazioso dove trovò il Re Bianco seduto a terra e intento a scri­vere febbrilmente sul suo quaderno.

 

In un vecchio trattato di psicopatia sessuale si afferma che la pedofilia si ancora col feticismo, una tesi che potrebbe adattarsi al gusto per l’immagine fantastica – sia fotografica che letteraria – di Carroll. Nulla fa supporre che nel legame instaurato con il mondo sprovveduto a lui caro si siano varcati i limiti della decenza. A noi ha lasciato la testimonianza di una creatività tanto più valida quanto più inventiva, innocente perché non nascosta; infatti nelle lettere scritte alle bambine non tralascia di completarle con I miei più cari saluti a tua mamma e a tuo papà, un chiaro indice di rapporti aperti e leali.  



 

 

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