contemporanea
SULLA RIFORMA AGRARIA IN LETTONIA
PERIODO INTERBELLICO / PARTE III
di Andrea Cecchini
Nel 1929 il governo raggiunse un
importante accordo risarcitorio con la
vicina Polonia. La Lettonia, infatti,
versò nelle casse di Varsavia una somma
riparatoria pari a cinque milioni di
lats per i danni patrimoniali
cagionati ai cittadini polacchi in
seguito al varo della riforma. Il 15
marzo 1929 la Corte di Cassazione
disponeva inoltre che «gli antichi
proprietari delle terre che furono
espropriati a causa della legge sulla
riforma agraria, possono rivolgersi ai
tribunali civili per sostenere le loro
ragioni e ottenere in restituzione quei
lotti di terreno che erano stati loro
tolti in forma irregolare».
Questa disposizione determinò una vasta
ondata di proteste, innescando al
contempo un’importante frattura
istituzionale.
Celmiņš,
infatti, sottolineò la «necessità di
presentare alla Saiema un
progetto di legge, il quale stabilisse
che non i tribunali civili fossero
competenti a regolare le questioni
concernenti l’esecuzione della riforma
agraria, ma gli organi amministrativi
dello Stato». Nel frattempo, il deputato
Firks, rappresentante della fazione
balto-tedesca, minacciò di ritirare il
sostegno all’esecutivo qualora la
coalizione avesse invalidato la sentenza
emessa dalla Cassazione.
Augusto Stranieri, allora ambasciatore
italiano a Riga, riferisce che «togliere
a un proprietario la facoltà di
difendere i propri diritti dinnanzi ai
tribunali, significa svellere i cardini
del diritto civile. Possiamo da questi
elementi desumere come la questione
della riforma agraria non sia morta, ma
sempre viva e costituirà sempre il muro
divisorio fra lettoni e baltici
tedeschi».
Lo schieramento tedesco alla Camera
rappresentava un sicuro baluardo a
difesa della minoranza teutonica
stanziata nel Paese, configurandosi allo
stesso tempo come un importante fattore
in grado di influenzare le sorti e gli
scenari politici nazionali. Nel marzo
1931 l’esecutivo
Celmiņš,
dilaniato dalle acerrime
contrapposizioni interne, si dimise.
Fu allora
Kārlis
Ulmanis ad assumere l’iniziativa. Il
leader unionista avviò complesse
consultazioni con tutti i gruppi
parlamentari che avevano costituito
l’uscente sodalizio governativo,
riuscendo così a dar vita a un esecutivo
nazionale di transizione. Questi
frequenti rivolgimenti interni ebbero
degli effetti profondamente negativi sul
Paese baltico, rendendo impossibile
l’elaborazione di un progetto
riformatore organico capace di rinnovare
l’intero apparato economico-produttivo,
duramente colpito dalle catastrofiche
conseguenze finanziarie prodotte dalla
crisi globale del ’29.
Questa congiuntura negativa determinò la
contrazione dei consumi, il calo
vertiginoso della produzione e l’aumento
del tasso di disoccupazione. Il
presidente del consiglio Ulmanis era
addirittura ricorso alla leva del
protezionismo attraverso imponenti
sbarramenti doganali per arginare
l’eccessivo afflusso di merci
provenienti dall’estero. Le elezioni
parlamentari del 3-4 ottobre 1931
avrebbero prodotto ben altri risultati,
segnando l’inizio di una nuova intensa
stagione politica.
I risultati elettorali accrebbero
ulteriormente i dissapori tra le
differenti correnti parlamenti, incapaci
di formulare risposte adeguate ai
bisogni di una società divisa e ormai
insofferente di fronte all’imperante
corruzione che pervase i gangli vitali
dell’intero sistema politico. L’estrema
frammentazione della rappresentanza
parlamentare si configurò come un
elemento centrale per il mancato
consolidamento del quadro istituzionale,
costituendo al contempo il fattore
chiave alla base dell’instabilità
politica del Paese. Verso la fine del
1931 Marģers Skujenieks, che nel
frattempo aveva riconsiderato le
posizioni concettuali delle origini,
costituì il cosiddetto “ministero
borghese nazionale”.
L’esecutivo elaborò una serie di
interventi emergenziali per tentare di
risanare il circuito finanziario e
contenere la dilagante crisi economica
che aveva prodotto effetti profondamente
negativi soprattutto a livello sociale.
Queste misure prevedevano il risanamento
della bilancia commerciale, il rilancio
della produzione nazionale, il
contenimento del tasso di disoccupazione
nonché divieti e limitazioni sulle merci
provenienti dall’estero. Le severe
disposizioni varate dal “ministero
borghese nazionale” non sortirono alcun
beneficio ma, anzi, aggravarono
ulteriormente lo scenario economico come
testimonia l’aumento dell’inoccupazione,
il deprezzamento delle derrate agricole
e la carenza di liquidità.
Numerosi istituti creditizi furono
travolti da scandali finanziari e
fallimenti. All’inizio del 1933 il
gabinetto Skujenieks, lacerato dalle
divisioni interne, fu costretto alle
dimissioni lasciando via libera al
governo al leader dell’Unione dei
nuovi contadini Ādolfs Bļodnieks. Il
nuovo governo iniziò a varare una serie
di decreti leggi utilizzando come
pretesto l’articolo 81 della Carta
Costituzionale. Furono perciò colpite
numerose organizzazioni e associazioni
politiche operanti a livello locale. I
deputati appartenenti alla cosiddetta
Unione professionale di sinistra
(comunisti) furono arrestati e puniti
con gravi pene detentive. Le restrizioni
introdotte lasciavano in qualche modo
presagire un imminente cambiamento
dell’ordine costituito.
Vennero inoltre promulgati una serie di
imponenti provvedimenti volti a colpire
coloro che avessero offeso, per mezzo di
articoli o riunioni non autorizzate, gli
esponenti del governo. Tali decreti
furono adottati anche grazie all’occulta
attività svolta da Ulmanis, il quale si
prodigò affinché venisse elaborata una
riforma costituzionale in grado di
limitare l’influenza esercitata dai
numerosi partiti e garantire così
maggiore solidità alla compagine
governativa incaricata. I contrasti
economici interni alla coalizione
Bļodnieks spinsero lo stesso Ulmanis a
presentare una mozione di sfiducia nei
riguardi dell’esecutivo.
Il testo, approvato all’unanimità dal
Parlamento, sancì l’inizio di una nuova
fase storica per la Lettonia. È proprio
in quel complesso turbinio di eventi e
transizioni governative che Ulmanis
attuò, grazie al sostegno della milizia
Aizargi e della polizia politica,
il suo illiberale colpo di Stato. Il 15
maggio 1934 il leader unionista
sciolse il Parlamento, sospese la
Costituzione, liquidò le opposizioni e
limitò drasticamente la libertà di
stampa.
Il golpe si configurò come un
radicale punto di svolta capace di
imprimere una sferzata decisiva
all’intero sistema, segnando quel
passaggio epocale dalla cosiddetta
“dittatura parlamentare”, caratterizzata
dall’eccessivo centralismo decisionale
delle singole formazioni partitiche, a
un deprecabile autoritarismo imposto dal
singolo. Nel complesso, dunque, i
numerosi esecutivi avvicendatisi durante
l’Età del parlamentarismo non seppero
proporre un disegno organico di Stato né
tantomeno promuovere un lungimirante
programma di sviluppo che tenesse conto
delle esigenze della collettività.
È proprio all’interno di questo
intricato scenario che la questione
agraria divenne elemento chiave della
nuova politica governativa. Il
Vadonis, massimo depositario delle
tradizioni e dei valori del mondo
rurale, riuscì a portare a compimento la
riforma nel 1937 indirizzando maggiori
risorse finanziarie verso il settore
agricolo. Sotto la guida autoritaria di
Ulmanis, i contadini si sentivano
“protetti” e tentarono perciò di
sviluppare un certo senso di fiducia nei
propri “mezzi imprenditoriali”. Una
riforma “strisciante e pluriennale” che
aveva condizionato la stabilità
dell’intera impalcatura istituzionale
destando, come visto, molto scalpore a
livello internazionale.
Restano inoltre numerosi dubbi e
interrogativi sull’intera querelle
risarcitoria: in particolare se lo Stato
sia riuscito o meno a definire e a
dirimere l’annosa diatriba relativa agli
indennizzi espropriativi. Proprio su
questo tema la documentazione in nostro
possesso sembra inspiegabilmente
interrompersi, non offrendoci dunque
l’opportunità di riempire quel vuoto
lasciato dalla storiografia. Appare
evidente che la maturazione di questa
vocazione imprenditoriale essenzialmente
agricola abbia avuto delle palesi
ripercussioni sull’intero sistema
produttivo nazionale, condizionando la
crescita e lo sviluppo di settori
strategici alternativi.
In Lettonia, durante tutto il corso del
ventennio interbellico, il numero
complessivo delle fattorie crebbe
sensibilmente passando dalle 141.723
unità del 1920 alle 275.698 del 1935.
È indubbio che la riforma abbia creato
un vasto strato di proprietari contadini
medio-piccoli ma è altrettanto vero che
la loro impreparazione tecnica e la
carenza di risorse finanziarie
investibili abbiano rappresentato un
grave limite per il tanto agognato
“balzo in avanti”.
I modesti risultati raggiunti attraverso
la progressiva implementazione della
riforma furono in gran parte vanificati
in seguito alla stipula del patto
Ribbentrop-Molotov, siglato il 23 agosto
1939. La Lettonia fu infatti costretta a
sottoscrivere con Mosca un accordo di
mutua assistenza (5 ottobre 1939) che
permise alle unità militari sovietiche
di impiantare basi d’appoggio sul
territorio della Repubblica baltica.
Si trattava di un’occupazione “silente”
e pianificata in ogni singolo dettaglio.
Una volta terminata la guerra d’inverno
contro la Finlandia, Stalin poté
concentrare le sue energie «sull’anello
baltico». Verso la metà del giugno 1940
il governo di Riga, ormai pressato dalle
ingiunzioni provenienti da Mosca,
dovette rinunciare definitivamente
all’esercizio delle sue prerogative. Le
nuove elezioni del 14-15 luglio 1940 si
svolsero sotto l’egida dei dirigenti
sovietici e il ricostituito Partito
comunista riuscì perciò a imporsi come
unico attore politico sulla scena
nazionale.
Il 21 luglio 1940 il nuovo esecutivo
Augusts Kirchenšteins proclamò la
nascita della Repubblica socialista di
Lettonia la quale, il 5 agosto ‘40,
divenne parte integrante della rigida
struttura amministrativa sovietica. Una
volta completato il processo
annessionistico, la classe dirigente
comunista avviò un massiccio processo di
sovietizzazione che non a caso investì
anche il settore agricolo.
La rigida ortodossia stalinista imponeva
difatti la cosiddetta collettivizzazione
forzata delle campagne: le terre con
un’estensione superiore ai 30 ettari
furono requisite e ovunque vennero
create le famigerate fattorie collettive
(Kolchoz). La riforma elaborata
dalla Costituente nel settembre 1920
appariva ormai un lontano ricordo.
Riferimenti bibliografici:
S. Bottoni, Un altro novecento.
L’Europa orientale dal 1919 ad oggi,
Carocci Editore, Roma 2011.
F. Guida, L’altra metà dell’Europa.
Dalla grande guerra ai giorni nostri,
Laterza, Roma-Bari 2015.
M. Kalnins, Latvia, a short history,
Hurst e company, London 2015.
A. Plakans, The Latvians, a short
history, Hoover institution press
publication, Stanford 1995.
A. Plakans, C. Wetherell, The
agrarian reform in Latvia: historical
context, The national council for
Soviet and Eastern European research,
Massachusetts Avenue, N.W. Washington,
D.C . 20036, 1996.
A. Plakans, A.Purs, Historical
dictionary of Latvia, Lanham, Rowman
e Littlefield, 2017.
A. Tamborra, L’intesa baltica,
Varese, Industrie grafiche Amedeo Nicola
e c., 1934.
R. Tuchtenhagen, Storia dei paesi
baltici, Bologna, il Mulino, 2008.
Archivio Storico Diplomatico Ministero
Affari Esteri e Cooperazione
Internazionale, serie affari politici
1919-1930, Lettonia, buste 1389 – 1390 –
1391.
|