N. 149 - Maggio 2020
(CLXXX)
sulLa
riforma
agraria
in
Lettonia
periodo
interbellico
–
Parte
I
di
Andrea
Cecchini
Con
la
fine
della
grande
guerra
di
liberazione
(1°
dicembre
1918
- 11
agosto
1920)
la
Lettonia
entrò
a
pieno
titolo
nello
scenario
geopolitico
europeo
del
tempo.
La
portata
distruttiva
del
conflitto
aveva
messo
a
dura
prova
l’intero
apparato
socioeconomico,
e i
cittadini
lettoni
chiedevano
a
gran
voce
terre,
pace
e il
riconoscimento
di
quei
diritti
fondamentali
e
inalienabili,
da
secoli
calpestati
dalle
potenze
egemoni
dell’area
(Polonia,
Russia
e
Germania).
Tali
Stati,
seppur
in
momenti
storici
differenti,
erano
intervenuti
per
reprimere
ogni
spinta
autonomista
che
sfumava
verso
l’aspirazione
all’indipendenza
nazionale.
È
sullo
sfondo
di
questo
scenario
che
emerge,
con
tutte
le
sue
contraddizioni
e
ambiguità,
la
questione
agraria.
Il
20
settembre
1920
l’Assemblea
Costituente
(Satversmes
sapulce),
in
seguito
a un
energico
dibattito
interno,
adottò
un
nuovo
provvedimento
legislativo,
volto
a
ridefinire
tout
court
l’assetto
giuridico
della
proprietà
terriera,
da
tempo
monopolizzata
dalle
aristocrazie
allogene
(tedeschi
e
polacchi
su
tutti,
ma
anche
francesi
e
italiani)
di
antico
insediamento.
Tale
decreto,
infatti,
disponeva
la
confisca
delle
proprietà
agricole
che
raggiungevano
un’estensione
superiore
a
centodieci
ettari
nonché
la
creazione
di
un
fondo
speciale,
chiamato
a
supervisionare
il
processo
di
incameramento
e di
successiva
redistribuzione
dei
terreni
espropriati.
Lo
Stato,
dunque,
procedette
rapidamente
alla
“nazionalizzazione
coatta
e
punitiva”
delle
proprietà
detenute
dalla
nobiltà.
Anche
una
parte
del
patrimonio
fondiario
gestito
dalla
Chiesa
venne
incamerato
dal
Demanio.
La
statalizzazione
delle
foreste,
invece,
permise
all’apparato
statale
di
imporre
un
monopolio
esclusivo
nel
commercio
del
legname
che
costituì
un’importante
risorsa
per
l’economia.
Vennero
poi
create
commissioni
regionali
e
provinciali
al
fine
di
“registrare”
le
nuove
terre
disponibili,
risolvere
potenziali
controversie
e
gestire
le
numerose
richieste
avanzate
dai
cittadini.
Questa
misura,
seppur
elaborata
in
un
clima
di
profonda
incertezza
finanziaria,
contribuì
al
ristabilimento
dell’ordine
pubblico,
al
mantenimento
della
pace
sociale
e
allo
sviluppo
di
un
apparato
economico
alternativo,
basato
sulla
piccola
proprietà
contadina.
La
classe
dirigente
si
ispirò
allo
schema
agricolo
danese,
considerato
un
vero
e
proprio
modello
di
sviluppo.
La
riforma
agraria
trasformò
radicalmente
l’ordinamento
socio-produttivo
preesistente
consentendo
ai
contadini
lettoni,
fino
a
quel
momento
esclusi
dalla
gestione
dei
coltivi
e
costretti
ad
accettare
passivamente
l’influenza
delle
élite
baronali,
di
imporsi
quale
classe
autonoma
e
emancipata.
Era
chiara
l’intenzione
di
promuovere
la
radicale
ristrutturazione
dell’organizzazione
sociale
abbattendo
i
privilegi
di
classe
e
costruendo
una
società
egualitaria
e
indifferenziata.
Ovunque
nacquero
centinaia
di
piccole
“aziende”
le
quali
occupavano
circa
il
75 %
della
superficie
territoriale
totale,
raggiungendo
un’estensione
media
compresa
tra
i
venti
e i
cinquanta
ettari.
Il
restante
25 %
comprendeva,
invece,
quelle
“imprese
rurali”
la
cui
superficie
oscillava
tra
i 50
e i
110
ettari.
L’assegnazione
delle
terre
avvenne
in
base
all’elaborazione
di
una
speciale
graduatoria
che
privilegiava
innanzitutto
gli
uomini
che
avevano
eroicamente
servito
l’esercito
durante
la
guerra
di
liberazione.
Ma
anche
i
cittadini
di
età
compresa
tra
18 e
65
anni
potevano
inoltrare
la
propria
richiesta,
purché
divenissero
“contadini
di
professione”
e si
impegnassero
a
coltivare
i
fondi
loro
assegnati.
L’attuazione
di
questo
vasto
piano
di
interventi
ebbe
conseguenze
assai
diverse
a
livello
nazionale:
da
una
parte
furono
creati
nuovi
centri
di
produzione
nelle
campagne,
ponendo
al
contempo
le
premesse
necessarie
per
un
parziale
“ammodernamento”
dell’intero
comparto
agricolo;
dall’altra,
però,
questo
largo
strato
di
nuovi
contadini
liberi
(Jausaimnieki),
a
causa
dell’assenza
della
liquidità
necessaria,
fu
costretto
a
contrarre
debiti,
talvolta
gravosi,
per
provvedere
all’acquisto
dei
macchinari
e
delle
attrezzature
da
campo.
Vi
erano
poi
alcune
problematiche
strettamente
connesse
alle
specificità
dei
singoli
contesti
regionali.
In
Letgallia,
ad
esempio,
la
penuria
endemica
di
superfici
coltivabili
non
permise
di
soddisfare
le
numerose
richieste
recapitate
agli
organismi
competenti,
generando
fermenti
sociali
e
flussi
migratori
che
sfociarono
nello
spopolamento
di
vaste
aree
rurali.
Non
vennero
inoltre
risolti
i
problemi
tecnici
e
della
produttività
per
singolo
ettaro
e le
numerose
piccole
aziende
contadine
disperse
sul
territorio
non
riuscirono
a
introdurre
criteri
di
meccanizzazione
estensiva
né
tantomeno
ad
accumulare
capitali
e
profitti
indispensabili
per
un
miglioramento
complessivo
dell’economia
agraria.
La
riforma
produsse
significativi
mutamenti
dal
punto
di
vista
sociopolitico,
contribuendo
ad
alterare
radicalmente
la
storica
ripartizione
del
regime
fondiario
e a
rinnovare,
in
parte,
quelle
arcaiche
e
inadeguate
forme
di
produzione
consolidatesi
nei
decenni
antecedenti
la
proclamazione
dell’indipendenza
nazionale.
Peraltro,
la
Ritterschaft,
l’ordine
dei
baroni
tedeschi
che
per
secoli
aveva
controllato
le
Diete
di
Livonia
e
Curlandia,
si
oppose
con
durezza
al
provvedimento
confiscatorio.
Sebbene
tale
associazione
fosse
stata
sciolta
in
seguito
all’approvazione
di
un
decreto
ratificato
dalla
Satversmes
sapulce
il
29
giugno
1920,
i
Deutsch-Balten
si
appellarono,
ma
invano,
alla
Lega
delle
Nazioni
per
far
valere
i
propri
diritti
di
proprietà
sui
latifondi
requisiti.
I
Baltes,
che
durante
il
“conflitto
per
la
libertà
della
Lettonia”
avevano
cospirato
affinché
la
Repubblica
baltica
venisse
inglobata
dalla
Germania
imperiale,
rappresentavano
una
minaccia
permanente
per
l’establishment.
L’aspirazione
ad
avviare
un
processo
di
colonizzazione
tedesco
della
macroregione
baltica
si
rivelò,
tuttavia,
inattuabile
e la
sua
mancata
realizzazione
coincise
con
un
profondo
mutamento
della
condizione
sociale
ed
economica
della
nobiltà
tedesca.
Quest’ultima,
infatti,
una
volta
terminata
la
guerra
di
liberazione,
venne
relegata
in
una
situazione
di
profonda
subordinazione
e
perciò
costretta
ad
accettare
le
dure
imposizioni
promulgate
dalla
classe
dirigente.
Prioritaria
fu
inoltre
la
questione
relativa
agli
indennizzi
espropriativi
che
lo
Stato
avrebbe
dovuto
versare
ai
membri
dell’antica
aristocrazia
feudale
per
i
latifondi
confiscati
e
nazionalizzati.
Questo
tema,
difatti,
innescò
un
acceso
dibattito
politico,
destinato
a
protrarsi
per
tutto
il
ventennio
compreso
tra
le
due
guerre
mondiali.
Da
un
lato
la
fazione
socialdemocratica
(Latvijas
Sociāldemokrātiskā
strādnieku
partija,
LSDSP)
si
oppose
con
fermezza
a
qualsivoglia
ipotesi
di
compensazione,
mentre
dall’altro
gli
unionisti
agrari
(Latvijas
Zemnieku
Savienība,
LZS),
di
orientamento
più
moderato,
si
impegnarono
a
elaborare
un
piano
strategico
di
interventi,
finalizzato
a
soddisfare
le
pretese
d’indennizzo
avanzate
dall’ormai
ex
élite
nobiliare
baltica.
Quest’ultimo
progetto,
tuttavia,
tramontò
rapidamente
a
causa
di
due
differenti
fattori:
l’affermazione
del
“principio
non
compensativo”
propugnato
dai
socialdemocratici,
i
quali
detenevano
il
maggior
numero
di
seggi
all’interno
della
Costituente;
la
complessa
situazione
finanziaria,
registrata
nel
Paese,
non
consentiva
di
disporre
delle
risorse
necessarie
per
gestire
e
soddisfare
le
molteplici
richieste
risarcitorie.
Questa
controversa
e
dibattuta
riforma
ebbe
importanti
riflessi
anche
a
livello
internazionale
poiché
i
rappresentanti
diplomatici
di
numerosi
Stati
decisero
di
appellarsi
ai
rispettivi
governi
affinché
intervenissero
in
maniera
risoluta
per
tutelare
i
diritti
di
proprietà
storicamente
acquisiti
dai
propri
connazionali
nel
territorio
baltico.
La
questione
rischiò
addirittura
di
compromettere
il
lento
e
travagliato
cammino
verso
il
riconoscimento
internazionale
della
Repubblica
baltica.
Eppure,
malgrado
il
clima
di
accresciuta
conflittualità
creatosi
attorno
alla
vicenda,
il
20
dicembre
1920
l’Italia
votò
per
l’ammissione
della
Lettonia
alla
Società
delle
Nazioni
«compiendo
un
passo
che
conteneva
implicitamente
il
riconoscimento
di
diritto».
Tale
gesto
aveva
destato
enorme
scalpore
ed
emozione
tra
le
fila
dell’opinione
pubblica
lettone.
A
Riga
venne
persino
organizzata
una
manifestazione
di
ringraziamento
di
fronte
la
sede
dell’Ambasciata
italiana.
Nel
1921
le
potenze
occidentali
riconobbero
de
facto
la
Repubblica
lettone,
la
quale
venne
definitivamente
ammessa
alla
Lega
delle
Nazioni.
Contemporaneamente
il
governo
provvisorio
presieduto
da
Kārlis
Ulmanis
si
apprestava
ad
affrontare
la
seconda
fase
della
riforma
(1921-1925).
Questo
periodo
fu
contrassegnato
dall’emergere
di
questioni
piuttosto
rilevanti
e
significative:
la
limitatezza
oggettiva
della
terra
a
disposizione;
il
risentimento
dei
grandi
agricoltori
che
si
videro
improvvisamente
privati
dei
propri
patrimoni
fondiari;
la
diffusione,
su
larga
scala,
di
pratiche
e
condotte
illecite
che
rischiavano
di
compromettere
l’implementazione
della
riforma.
Quest’ultimo
tema
ci
permette
di
attuare
un’ulteriore
considerazione
poiché
numerosi
“nuovi
contadini”
incominciarono
a
vendere
gli
alberi
presenti
nelle
rispettive
proprietà
al
fine
di
trarre
il
massimo
profitto
da
questa
attività
illecita.
Gli
appezzamenti,
in
molti
casi,
furono
abbandonati
e
lasciati
così
incolti.
La
penuria
di
manodopera
agricola
costrinse
perciò
il
governo
a
sollecitare
l’afflusso
di
lavoratori
stagionali
provenienti
dai
territori
contigui.
Un
paradosso
questo
di
proporzioni
gigantesche.
Peraltro,
il
mancato
consolidamento
del
quadro
polito-istituzionale
non
consentì
all’esecutivo
di
fornire
risposte
adeguate
ai
bisogni
della
comunità.
Il
gabinetto
Ulmanis,
chiamato
a
traghettare
il
Paese
sino
alle
elezioni
del
7-8
ottobre
1922,
rassegnò
le
sue
dimissioni
in
seguito
«al
voto
di
sfiducia
dell’Assemblea
Costituente
sulla
questione
agraria».
La
Satversmes
sapulce
incaricò
così
Zigfrīds
Anna
Meierovics
(LZS)
di
costituire
il
nuovo
schieramento
governativo.
Questi,
nel
corso
di
un
discorso
pronunciato
dinanzi
alla
Costituente,
affermò
che
«il
governo
assicurerà
inoltre
la
realizzazione
della
riforma
agraria
la
quale
si
estenderà
a
tutti
i
rami
della
produzione
agricola».
Queste
aspettative,
però,
furono
ampiamente
disattese.
La
situazione,
creatasi
nel
Paese
dopo
le
consultazioni
dell’ottobre
’22,
non
permise
di
risolvere
le
numerose
controversie
connesse
al
provvedimento.
La
cosiddetta
“Età
del
parlamentarismo”,
che
dalle
elezioni
libere
del
’22
si
protrasse
sino
al
colpo
di
mano
del
maggio
1934,
fu
contrassegnata
da
un
incessante
variare
di
alleanze
e
strategie
e
dall’alternarsi
al
potere
di
compagini
governative
fragili
e
inoperose.
Questa
instabilità
istituzionale
ebbe
delle
gravi
conseguenze
sul
piano
interno,
rendendo
dunque
vani
i
tentativi
di
giungere
a
un
accordo
capace
di
appianare
le
numerose
divergenze
sorte
attorno
alla
riforma.
Nel
1923
l’esecutivo
presieduto
da
Meierovics,
subentrato
al
dimissionario
Jānis
Pauļuks,
«stanziava
in
bilancio
la
somma
equivalente
di
circa
due
milioni
e
mezzo
di
lire
a
titolo
di
prima
quota
dell’indennità
da
corrispondersi
agli
stranieri
danneggiati».
I
socialdemocratici,
però,
avevano
avanzato
la
proposta
di
eliminare
«dal
bilancio
preventivo
1924-1925
la
somma
che
il
governo
vi
aveva
appena
inserito».
L’annosa
querelle
sugli
indennizzi,
reclamati
a
gran
voce
dagli
agenti
plenipotenziari
accreditati
in
Lettonia,
rimaneva
irrisolta
condizionando
profondamente
le
scelte
politiche
della
classe
dirigente.
Tra
le
varie
proposte
formulate
si
segnalava
quella
relativa
«all’emanazione
da
parte
di
suddetto
governo
di
una
tassa
di
liquidazione
secondo
l’odierno
valore
commerciale»
dei
terreni.