filosofia & religione
LEIBNIZ E LA CONCEZIONE DELL’UNIVERSO
UN'INFINITÀ DI PROSPETTIVE
di Raffaele Pisani
Impegno concreto per migliorare la
condizione umana generale e ricerca dei
principi fondamentali della realtà hanno
caratterizzato le varie fasi del
percorso esistenziale e filosofico di
Leibniz.
Gottfried Wilhelm Leibniz nacque nel
1646 a Lipsia, il padre, professore di
Diritto, morì quando il piccolo aveva
appena sei anni. Studiando i libri
presenti nella ricca biblioteca paterna
ebbe modo di farsi una cultura di base,
imparando da solo il latino. Compì
l’intero ciclo di studi giuridici, prima
a Lipsia poi ad Altdorf, fino al
dottorato in utroque iure,
ottenne anche la docenza universitaria,
ma capì ben presto che il suo campo
d’azione era altrove.
Si impegnò infatti nell’attività
diplomatica, che proprio nel momento
storico successivo alla Pace di
Westfalia del 1648 veniva ad assumere
tratti uniformi nell’intera Europa. Dal
1668, al servizio dell’elettore di
Magonza, ebbe modo di attendere ai
propri studi senza preoccupazioni
economiche. Incaricato di ordinare il
Diritto civile, si spinse oltre i
compiti a lui richiesti pretendendo di
spiegare More geometrico la
necessità di appoggiare l’elettore del
Palatinato quale re di Polonia.
L’attività multiforme di quegli anni
andava dagli studi matematici, il
calcolo infinitesimale, agli esperimenti
chimici, all’approntamento di tecniche
che permettessero di ottimizzare il
lavoro nelle miniere.
L’incarico diplomatico a Parigi per far
desistere Luigi XIV dall’invasione dei
Paesi Bassi, orientando le mire
espansionistiche verso l’Egitto, non
raggiunse il suo scopo. In ogni caso il
suo soggiorno nella capitale francese,
dal 1672 al 1676 con qualche breve
interruzione, fu molto proficuo. Venne a
conoscere e si confrontò con i filosofi
Malebranche e Arnauld e con il
matematico Huygens. In una breve
parentesi londinese venne accolto alla
Royal Society, divenendo membro
della prestigiosa istituzione. Di
passaggio da L’Aja ebbe modo di
incontrare Spinoza, che gli avrebbe
letto alcune pagine del manoscritto
dell’Etica; ad Amsterdam conobbe lo
scienziato Leeuwenhoeck, famoso per le
sue ricerche sulla microbiologia.
Alla fine
del periodo parigino accettò l’incarico
di bibliotecario fattogli da Giovanni
Federico duca di Hannover, divenendo poi
anche consigliere di corte e storiografo
ufficiale. Operò con tenacia per
l’unione delle Chiese e nel 1683,
durante l’assedio turco di Vienna,
criticò aspramente il sovrano francese
alleato dei turchi in funzione anti
imperiale scrivendo
Mars
Christianissimus ou apologie des armes
du Roy Très Chrétien contre les
Chrétiens.
Consigliere di Federico I di Prussia e
dello zar Pietro il Grande, nel 1713
venne accolto alla corte di Vienna, dove
elaborò vari progetti economico-sociali.
Delle sue opere possiamo ricordare il
Discorso di Metafisica (1686),
Nuovo sistema della natura (1695),
Saggi di Teodicea (1710),
Principi della natura e della
grazia (1714), la Monadologia
1714 e numerose Epistole.
Nella Monadologia, una serie di
brevi proposizioni che alcuni paragonano
al novecentesco Tractatus di
Wittgenstein, scritta negli ultimi anni
della sua vita e pubblicata postuma,
Leibniz delinea in maniera sistematica
la complessa architettura del suo
pensiero. L’aveva fatto anche con altre
opere come nel Discorso di Metafisica
o nel Nuovo sistema della natura
e la comunicazione delle sostanze,
ma questa può essere considerata una
sorta di testamento spirituale. Vedere
le stesse cose da punti di vista diversi
in un gioco di identità e di differenze
costituisce una prerogativa del suo
procedere filosofico.
Leibniz, si era formato culturalmente
con la Scolastica delle università e con
la Scienza Nuova delle accademie e dei
circoli culturali più innovativi. Né
l’una né l’altra a suo dire erano in
grado di spiegare con ragione il
fondamento filosofico in accordo con i
singoli fenomeni. In un periodo in cui
le cose erano ancora mescolate egli ha
in questo contribuito a far chiarezza
distinguendo i vari ambiti. Se Galilei
diceva di non voler tentar l’essenza,
Leibinz si proponeva di cercare proprio
questa.
Comincia la Monadologia trattando
della sostanza su cui si fonda l’intera
realtà: le monadi o entelechìe,
il primo termine è di derivazione
pitagorica il secondo è chiaramente
aristotelico. I sensi non le colgono, la
loro esistenza si dimostra
razionalmente; constatando che ci sono i
composti è necessario concludere che vi
siano dei semplici da cui derivano.
Diversamente dagli atomi, allora intesi
come unità minime inscindibili, ma
comunque materiali con forma e
dimensione, le monadi sono entità
semplici e inestese. La loro semplicità
le rende immutabili. La concezione
teologica, che chiarirà nelle pagine
successive, permetterà di affermare che
le monadi sono state create da Dio e
solo lui le potrebbe annichilire.
Prive come sono di caratteri corporei,
si distinguono per le loro qualità che
sono la percezione, definita
appercezione quando è cosciente, e
l’appetizione. Ogni monade
percepisce l’intero universo dal suo
punto di vista: il medesimo è colto in
un’infinità di variazioni; è un po’ come
a teatro, gli spettatori collocati in
punti diversi vedono certamente la
stessa opera rappresentata, ma da
angolature differenti. Quanto
all’appetizione, ognuna delle monadi ha
una tendenza, una sorta di dinamismo
interno che la fa passare da uno stato a
un altro. Tale concezione si distacca
sia dalla meccanica aristotelica sia da
quella cartesiana.
Se tutte le monadi percepiscono, anche
quelle disposte alla costituzione del
mondo inanimato, negli animali la
percezione è cosciente; lo possiamo
inferire osservando i loro organi di
senso e il fatto che abbiano la memoria.
Nell’uomo a tutto questo si aggiunge la
ragione, capace di conoscere le verità
necessarie ed eterne della logica e
capace pure del dinamismo riflessivo che
porta all’autocoscienza.
Il principio logico della
contraddizione, più comunemente
denominato: principio di non
contraddizione, ci permette di cogliere
quelle verità che non possono non essere
tali. La geometria offre al riguardo un
campo privilegiato per capire tali
principi. D’altra parte l’esistenza
umana porta a rilevare dei fatti
indubitabilmente veri ma non necessari
logicamente. Un esempio di verità del
primo tipo, verità di ragione, è
che la somma degli angoli interni di un
triangolo corrisponde a un angolo
piatto; uno del secondo tipo, verità
di fatto, potrebbe essere che
Giovanni e Anna si sono uniti in
matrimonio. Il primo è necessario il
secondo contingente. Visto che ci sono
delle realtà di fatto, contingenti, vuol
dire che c’è una ragione sufficiente
affinché esse siano.
Il rapporto causale di contingenti
rispetto altri contingenti non può
reggersi in un rimando all’infinito, «Perciò
la ragione ultima delle cose deve essere
in una sostanza necessaria, nella quale
la particolarità dei mutamenti si trovi
solo eminentemente come nella sua
origine, e questa è quello che chiamiamo
Dio». Alla dimostrazione a
posteriori dell’esistenza di Dio
conseguono gli attributi di unità,
infinità e somma perfezione. Si tratta
di una prova a posteriori.
Quella a priori segue un ragionamento
ancor più sottile, vediamola nel
dettaglio: noi abbiamo l’idea di cose
possibili, ad esempio, è possibile che
in questa casa fra tre mesi nasca un
bambino. La proposizione: «esistono
realtà possibili» non è solamente
vera, ma pure necessaria (non può non
essere), infatti è impossibile che tutto
sia impossibile; questa solida
tautologia ci mette al riparo da ogni
dubbio. Assodata la realtà dei
possibili, dobbiamo convenire della
necessità di un Ente in atto che li
pensi come possibili e che possa anche
attuarli. La prova assume una
diramazione ulteriore, infatti noi non
abbiamo difficoltà a concepire Dio come
possibile; l’impossibile in senso
stretto è solo il contradditorio:
l’impensabile come ad esempio un cerchio
quadrato; ma se Dio è possibile,
considerando la sua natura priva di
limiti deve necessariamente esistere.
Dio nel creare l’essenza e l’esistenza
degli enti dell’universo non procede ad
arbitrio, riguardo le verità necessarie
egli procede con coerenza logica, non fa
essere vera una contraddizione; riguardo
invece le verità contingenti sceglie con
il principio del meglio, come spiegherà
poco oltre.
L’universo è costituito dall’insieme di
monadi, unità inestese che non
comunicano fra di loro, ma direttamente
con Dio. È pur vero che il senso comune
ci farebbe pensare il contrario e almeno
in prima istanza si concilierebbe con la
fisica cartesiana. Leibniz ritiene si
possa chiarire ricorrendo all’idea di
armonia prestabilita. Dio nel creare
ogni singola monade la dispone in
relazione con le altre secondo il
criterio del meglio, del migliore dei
mondi possibili, e quella che sembra
essere un’azione di una monade su di
un’altra è solo una percezione più
distinta rispetto l’altra.
Una monade A sembra spingere una monade
B, ma in realtà sono state disposte da
Dio in modo tale che in occasione del
movimento della prima si verifichi anche
quello della seconda, senza azione
dell’una sull’altra.
Il corpo degli animali e dell’uomo è
costituito da un insieme di monadi
unificate da un’anima o monade
dominante; naturalmente il significato
dei termini si discosta alquanto da
quello del cartesianesimo imperante:
anima e corpo non sono due sostanze
distinte né destinate a separarsi. La
morte propriamente non esiste ma è solo
una continua graduale trasformazione che
dispone le monadi a formare macro o
micro corpi.
Quanto poi alla monade dominante
dovrebbe essere chiaro che lo è perché
disposta da Dio a tendere a un fine
mentre quelle del corpo agiscono in
virtù di una casualità efficiente, il
tutto nell’armonia stabilita da Dio. Tra
anima sensitiva e anima razionale non
c’è differenza sostanziale ma
gradualità, Leibniz dice al riguardo: «Sebbene
mi paia che ci sia in fondo la stessa
cosa in tutti i viventi» a un certo
punto si notano delle differenze che
meritano essere considerate. Quella
fondamentale è che le anime sensitive
ordinarie sono perlopiù riflesso del
creato mentre quelle razionali, chiamate
anche spiriti, sono anche immagini dalle
divinità stessa.
La società degli spiriti
costituisce l’ultima parte dell’opera.
Pur concependo anche i Genii,
vale a dire esseri spirituali che per
comodità potremmo chiamare angeli,
peraltro anch’essi provvisti di corpo,
il suo discorso sembra riferirsi
perlopiù agli uomini.
Dio è in rapporto con questi spiriti in
quanto ne è artefice per averli creati,
principe in quanto li governa con le sue
leggi, e anche padre che si prende cura
dei suoi figli. La realtà del mondo
fisico e quella del mondo morale sono
poste in armonia in modo tale che
l’azione moralmente giusta è compensata
dalla natura stessa, mentre quella
malvagia con lo stesso mezzo è punita;
questo avviene nei tempi e nei modi che
solo Dio può conoscere.
Se in quest’opera possiamo vedere una
sintesi del pensiero leibniziano, è pur
vero che tante cose rimangono da
spiegare, Ad esempio, da quel che
abbiamo letto è difficile capire se le
monadi siano libere o rigidamente
determinate, e ancora: com’è possibile
la sofferenza del giusto?
Per questo si rende necessario allargare
un po’ il raggio di ricerca ad altre sue
opere e anche al suo agire concreto.
Leibniz non è certamente un pensatore
solitario ma ben inserito nel dibattito
europeo e la sua filosofia sarà
destinata a dominare nelle università
fino a Kant.
Cercando di interpretare il suo pensiero
riguardo la formazione delle monadi,
possiamo ritenere per certo che, se di
libertà si tratta, deve essere una
libertà creaturale, simile a quella che
la tradizione attribuisce agli uomini e
al loro libero arbitrio. Nell’Europa
uscita dalla guerra dei trent’anni e
dagli strascichi successivi il tema
della libertà, della grazia e della
predestinazione divenne una questione
interna ai singoli stati. Questo dava
una certa garanzia di pace anche se
rimaneva a livello teorico una questione
aperta.
La posizione di Leibniz si articola in
argomentazioni molto sottili, che
peraltro hanno riscosso una limitata
approvazione. Le monadi, qui parliamo di
quelle superiori, sono state create
libere, in quanto non limitate da
fattori esterni; sono intelligenti e
possono passare da un grado minore a uno
maggiore di perfezione. Il loro agire
contingente sembra confliggere con
l’armonia prestabilita; la spiegazione è
data dal fatto che Dio nel suo infinito
presente prevede i futuri contingenti,
senza per questo interferire. Prevedendo
quale sarà la singola azione libera
delle infinite monadi, Dio le dispone a
costituire il migliore dei mondi
possibili. Egli non procede come un
contabile che, numeri alla mano,
constata qual è il meglio. Egli sceglie
con la sua infinita saggezza.
Se il male presente nel mondo possa
coesistere con la giustizia e la bontà
divina è tema che Leibniz affronta nei
Saggi di Teodicea. Dio è il luogo dei
possibili ed egli fra questi ha scelto
con la volontà antecedente l’insieme
migliore. Il mondo in cui siamo posti,
pur essendo il migliore dei possibili
non è tuttavia perfetto avendo il limite
metafisico della creaturalità. Il male
fisico non comporta tanti problemi di
spiegazione, può infatti essere
agevolmente messo in relazione sia al
limite creaturale sia a comportamenti
sbagliati.
Il punto forse più interessante riguarda
libertà delle monadi superiori, che può
portare a scelte verso il male. D’altra
parte anche dall’azione malvagia, di
solito si fa l’esempio del tradimento di
Giuda, Dio con la sua volontà
conseguente riesce a trarre il meglio.
Non vuole il male ma lo consente e
ricava da questo un bene più grande.
Leibniz pensava di poter spiegare con i
suoi sottili ragionamenti il rapporto
tra libertà e predestinazione, sperando
di poter conciliare le dottrina
cattolica con quella calvinista.
Riferimenti bibliografici:
Massimo Donà, Gottfried Wilhelm
Leibniz, in Filosofie nel tempo,
vol. II, SPAZIO TRE, Roma 2002.
Gottfried
Wilhelm Leibniz, Monadologia, a
cura di Sofia Vanni Rovighi, Editrice la
Scuola, Brescia 1975.
Gottfried
Wilhelm Leibniz, Saggi di Teodicea,
a cura di Vittorio Mathieu, San Paolo
Edizioni, Milano 1994.
Vittorio Mathieu, Introduzione a
Leibniz, Editori Laterza, Roma-Bari
1986. |