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SUI LEGUMI ITALIANI: VARIETÀ locali e
CURIOSITÀ
TRA CECI, FAGIOLI E LENTICCHIE
di Angela R. Piergiovanni
Da alcuni anni è sempre più frequente
trovare nei supermercati, accanto ai più
che noti parmigiano reggiano o
prosciutto di Parma, prodotti locali di
varie classi merceologiche. Così è ora
possibile acquistare i fagioli di Lamon
e quelli di Sarconi, la fava di Carpino
e quella di Leonforte, la farina di
Saragolla lucana e quella di Timilia, il
farro della Garfagnana, il peperone di
Senise e la cipolla rossa di Tropea, il
pistacchio di Bronte e via dicendo.
In genere chi compra questi prodotti è
un consumatore particolarmente attento a
ciò che acquista, ma raramente conosce
storia e tradizioni di queste antiche
varietà locali specie quando provengono
da altre regioni. Le antiche varietà di
specie vegetali sono frutto della
selezione operata empiricamente nel
tempo dai contadini. Coltivate per
svariati decenni a volte anche oltre un
secolo, contribuivano al sostentamento
delle comunità rurali di ben definiti
areali o tramite il consumo diretto o
come merce di scambio per acquistare
beni non prodotti in loco.
È grazie a pochi ostinati contadini che
hanno continuato a coltivarle, anche
quando sono state ampiamente sostituite
dalle moderne varietà, che molte sono
sopravvissute sino ai giorni nostri
guadagnandosi piccoli spazi come
prodotti di nicchia. In realtà, dietro
ciascuna di queste varietà locali ci
sono storie reali o leggende, proverbi,
piatti tipici e usanze anche curiose.
Un variegato complesso di sapere
popolare, in genere tramandato
oralmente, che quasi mai varca i confini
della comunità che da tempo apprezza e
custodisce ciascuna varietà. Proviamo a
conoscerne qualcuna.
Il fagiolo gialèt
La coltivazione in Val Belluna (Veneto)
di questo fagiolo è documentata con
certezza sin dall’inizio del 1900. In
realtà, la coltivazione dei fagioli in
questa parte d’Italia è ben più antica.
Infatti, varie fonti storiche collocano
proprio nel bellunese l’inizio della
coltivazione del fagiolo in Italia
fissandola intorno al 1530 per
iniziativa dell’umanista Giovanni Pierio
Valeriano, che era originario di queste
terre.
Un testo del ‘700, che descrive le
coltivazioni presenti nel Distretto di
Feltre, fa cenno alla presenza di
coltivazioni di fagioli nella zona ma
non fornisce dettagli sulle varietà
coltivate. Il volume del Catasto Agrario
relativo alla provincia di Belluno,
redatto nel 1929 a seguito del
censimento nazionale, quantifica in
riporta quasi 8.000 ettari la superfice
dedicata alla coltivazione del fagiolo.
Tornando ai nostri giorni il gialèt,
detto anche fasol biso o
solferino, condivide il territorio
di coltivazione con altri fagioli sia
più noti, come quelli di Lamon, che
decisamente meno conosciuti come il
Bala rossa o il Mame d’Alpago.
Come si può intuire dal nome, tratto
distintivo del gialèt è il colore
giallo del seme. Fagioli di colore
giallo sono coltivati anche in altre
zone ad esempio in Carnia (Friuli) dove
sono denominati Cesarin e in
Toscana dove è coltivato il fagiolo
Zolfino. Sebbene l’aspetto del
seme e soprattutto il colore sia simile
si tratta di varietà con alcune
differenze genetiche.
Tra tutti i fagioli coltivati in Val
Belluna il gialèt è sempre stato
considerato il più pregiato per il
sapore particolarmente delicato
caratteristica che lo rendeva molto
apprezzato dalle classi più agiate. Tra
fine ’800 e primi del ‘900 i
commercianti veneti ne facevano incetta
poiché era molto richiesto dal Vaticano,
che assorbiva gran parte del raccolto,
motivo per cui era anche conosciuto con
l’appellativo di “fagiolo del Papa”.
A livello locale i contadini si
limitavano a coltivarlo con grande cura
poiché il raccolto non commercializzato
al di fuori della zona di coltivazione,
sarebbe stato sicuramente acquistato dai
ceti più agiati. Il gialèt era
quindi tenuto in gran conto, una varietà
sicuramente da coltivare, ma non da
consumare poiché la sua vendita
garantiva un introito importante
nell’economia familiare.
La lenticchia di Altamura
Nel nostro paese le leguminose non
vengono in genere considerate produzioni
agricole capaci di generare un indotto
economicamente rilevante. In realtà c’è
stato un periodo in cui questo assunto è
stato smentito. A partire dagli anni
Trenta del Novecento la coltivazione
della lenticchia ha rappresentato nella
zona murgiana a cavallo tra Puglia e
Basilicata una fiorente attività,
raggiungendo una rilevanza economica di
tutto rispetto.
La coltivazione di una varietà locale a
seme molto grande iniziata in sordina
grazie all’intraprendenza del dr.
Stasolla si diffuse su un ampio
territorio diventando un volano per
l’economia agricola di un vasto
comprensorio. Questa lenticchia infatti,
era molto apprezzata dai consumatori non
solo italiani ma anche stranieri.
Nella prima metà del ‘900 la
lenticchia di Altamura, si divideva
il mercato con quella di Villalba (CL),
anch’essa un tipo a seme grande, ed era
esportata in nord America e persino in
Australia. Il cuore dell’attività di
commercializzazione era ad Altamura, da
qui il nome con cui questa varietà è
ancora oggi conosciuta. Nella città
pugliese vi era persino un borsino per
la quotazione delle partite di seme e
manodopera locale trovava impiego non
solo nella coltivazione, ma anche nella
lavorazione del raccolto dalla pulitura
alla vagliatura e confezionamento della
granella. Alcune delle attrezzature
originali sono ancora esistenti sebbene
in stato di abbandono.
La rilevanza di questa filiera locale
legata alla lenticchia ebbe il suo
riconoscimento nel 1951, anno in cui
l’allora Presidente della Repubblica
Luigi Einaudi fece visita alle strutture
agricole e commerciali di Altamura
riconoscendo l’intraprendenza e
operosità della popolazione locale.
Purtroppo, nel dopoguerra l’economia
italiana stava rapidamente cambiando
ridimensionando il ruolo della
agricoltura a favore
dell’industrializzazione del paese.
Inizio così, come per tante altre
varietà locali, il declino della
lenticchia di Altamura soppiantata in
pochi anni anche dalla concorrenza di
lenticchie provenienti da altri paesi e
caratterizzate da un prezzo inferiore e
dalla resistenza al tonchio.
Questo parassita attaccava i semi
altamurani nella fase di stoccaggio
provocando perdite anche consistenti del
raccolto. Così Altamura, la città delle
“Tre elle”, lino-lana-lenticchia,
prodotti su cui si era basata l’economia
della città per un lungo periodo, ha
cambiato pelle ed oggi è sicuramente più
nota per il suo tipico pane di grano
duro.
Il cece nero di Cassano delle Murge
Una curiosa consuetudine è stata per
lungo temo legata al cece nero, un altro
legume tradizionalmente coltivato nel
territorio murgiano nel quale
rappresentava un tipico componente della
alimentazione. Fino agli anni Sessanta
del secolo scorso era usanza, tra gli
abitanti di Cassano delle Murge, offrire
alle donne come primo pasto dopo il
parto il brodo di cottura dei ceci neri.
Si trattava di un liquido nerastro molto
denso che era ritenuto indispensabile
per poter recuperare le forze
consentendo alla puerpera di riprendere
velocemente le proprie incombenze
casalinghe.
La consuetudine prevedeva anche la
consegna di una gallina come pagamento
del battesimo del nascituro al sacerdote
che officiava tale rito. La disparità di
trattamento tra queste due figure è
evidente, ma non deve poi stupire più di
tanto. In tutte le culture ed in tutti i
tempi è possibile ritrovare esempi di
cibi ritenuti portatori di particolari
proprietà da quelle afrodisiache a
quelle terapeutiche. Credenze in genere
tramandate oralmente di generazione in
generazione all’interno di comunità più
o meno vasta, ma prive di qualunque
riscontro oggettivo.
Un esempio che oggi non può che farci
sorridere è quello del cacao la cui
bevanda nell’Europa del XVI-XVII secolo
era ritenuta inadatta al consumo da
parte delle donne e tra gli uomini era
riservata solo alle fasce sociali più
elevate.
Il fagiolo del Purgatorio di Gradoli
Nel contesto rurale del passato le
leguminose erano una insostituibile
fonte di proteine di buona qualità
soprattutto per le classi meno abbienti
che non potevano permettersi un regolare
consumo di carne. In molte comunità
questa rilevanza nel quotidiano ha
portato a legarle a eventi religiosi non
solo attraverso modi di dire e proverbi
come quelli che associavano importanti
fasi del lavoro dei campi, come la
semina delle varie specie, con le
festività religiose localmente più
sentite e celebrate, ma inserendole a
pieno titolo nelle celebrazioni stesse.
Gli esempi sono numerosi, uno di essi è
il banchetto rituale che dal ‘600 si
svolge a Gradoli, nel viterbese. In
questa cittadina la confraternita
denominata “Fratellanza del Purgatorio”
organizza in occasione delle Ceneri un
banchetto detto “pranzo del Purgatorio”,
in passato riservato ai poveri della
comunità perché almeno per un giorno
fossero al centro dell’attenzione. Oggi
il rituale è rimasto, ma il banchetto è
aperto a tutta la cittadinanza e ne
rappresenta un evento identitario.
Una delle immancabili portate è
preparata con una varietà locale di
fagiolo denominato appunto “fagiolo
di Gradoli o del Purgatorio” che,
poiché si tratta di un pranzo di magro,
viene consumato lesso condito solo con
olio sale e pepe. Si tratta di un
fagiolo molto piccolo (100 semi pesano
meno di 20 grammi), di colore bianco,
dal tegumento sottile coltivato
principalmente nell’agro di Gradoli e di
alcuni comuni limitrofi.
La coltivazione di questa varietà locale
si ricollega alle tradizionali colture
dell’alto viterbese sui cui terreni di
origine vulcanica sono da lungo tempo
diffusamente coltivate varie leguminose.
Una precisazione è d’obbligo per quanto
riguarda la presenza di piatti a base di
legumi in banchetti rituali poiché
quello di Gradoli non è un caso isolato.
Ad esempio, nei comuni della Grecià
salentina (Puglia) si celebrano
annualmente le cosiddette “Tavole di S.
Giuseppe”, banchetti rituali in cui non
può mancare una portata detta “massa
ciceri” preparata con ceci e pasta
fatta in casa.
Il fagiolo a formella
Che i fagioli sono arrivati nel vecchio
continente dalle Americhe dopo la loro
scoperta è ben noto, forse meno noto è
che la quasi totalità di quelli
coltivati in Italia, pur nella grande
variabilità morfologica del seme tipica
delle varietà locali, appartengono a
un’unica specie il fagiolo comune (Phaseolus
vulgaris L.).
Nel continente americano in realtà non è
stata domesticata solo questa specie, ma
anche altre che però non hanno avuto una
grande diffusione nel nostro paese e in
genere in Europa. Fatta eccezione per il
fagiolo di Spagna (Phaseolus
coccineus L.) apprezzato al suo
arrivo dal Nuovo Mondo più come pianta
ornamentale che da seme.
Solo il fagiolo comune si diffuse con
grande rapidità. Le cause sono
molteplici dalla sua notevole
somiglianza col fagiolino dall’occhio,
coltivato sin dai tempi dei romani, alla
adattabilità dei fagioli americani alle
diverse condizioni ambientali rispetto a
quelle degli ambienti di provenienza.
Come spesso accade, esiste però
l’eccezione del “fagiolo a formella”.
Questa varietà locale appartiene a una
terza specie il fagiolo di Lima (Phaseolus
lunatus L.) esempio raro se non
unico di coltivazione di questa specie
in Europa.
L’areale tradizionale di coltivazione è
compreso tra Nola e Acerra, in Campania,
il seme di colore bianco, è schiacciato
e di forma quasi trapezoidale. Proprio
la sua similarità con dei bottoni di
antica foggia è all’origine del nome
formella, un termine del vernacolo
locale che indicava appunto un
particolare tipo di bottone. Sono
diversi i piatti tipici preparati con
questo fagiolo consumato sia allo stato
ceroso che secco.
La
lenticchia di Ventotene
Questa antica varietà è quasi
introvabile a meno che non si decida di
andare ad acquistarla direttamente
nell’isola di produzione. Ventotene è
una delle isole dell’arcipelago pontino
abitata con alterne vicende sin dai
tempi antichi. L’isola è ricca di
vestigia dell’epoca romana e qui vi fu
confinata per vari anni Giulia la figlia
dell’imperatore Augusto.
Stabilmente abitata dal 1768 a seguito
della decisione di re Ferdinando IV di
Borbone che incentivò il trasferimento a
Ventotene di nuclei familiari di
contadini provenienti dalle zone colpite
dall’eruzione del Vesuvio di quegli
anni. Tra le colture introdotte
sull’isola durante questa fase di
ripopolamento vi fu una varietà di
lenticchia a taglia molto bassa che ben
tollerava i forti venti che abitualmente
soffiano sull’isola.
Per la comunità di Ventotene i prodotti
agricoli dell’isola erano un bene
primario da difendere con decisione e la
produzione di lenticchie non faceva
eccezione. Fino agli anni ’60 del secolo
scorso i contadini utilizzavano un fondo
comune per finanziare la caccia ai
passeri che danneggiavano pesantemente
il raccolto. Per ogni volatile catturato
venivano versate da 5 a 10 lire. I
ragazzi erano particolarmente attivi in
questa caccia praticata con trappole
artigianali e laccioli. I bimbi più
piccoli invece, contribuivano alla
difesa del raccolto di lenticchie ed
altri legumi con un metodo meno cruento
ovvero scacciando gli uccelli recitando
una filastrocca: «Uccello ladruncolo
hai mangiato tutti i piselli, vattene
verso il mare, là ci trovi l’orzo e il
grano. Sciò, sciò» (“Auciello
mariuncello te mangiat tutti i pisielli,
và vattenne abbascio a mare la ce truovi
l’uorgio e ò grano. Scioì, scioì”).
Come è evidente da questi pochi esempi
ogni varietà locale è accompagnata da
una sua storia che affonda le radici in
un contesto rurale ormai scomparso.
Prendere coscienza dell’importanza della
tutela di queste come di tutte le
varietà locali, in genere ad alto
rischio di estinzione, vuol dire non
solo tutelare la biodiversità vegetale,
di cui il nostro paese è particolarmente
ricco, ma anche un insieme di sapere e
tradizioni popolari.
Riferimenti bibliografici:
F. Birri
e C. Coco, Cade a fagiolo,
Marsilio Editore, Firenze 2000. |