[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 159 / MARZO 2021 (CXC)


ambiente

SUI LEGUMI ITALIANI: VARIETÀ locali e CURIOSITÀ

TRA CECI, FAGIOLI E LENTICCHIE

di Angela R. Piergiovanni

 

Da alcuni anni è sempre più frequente trovare nei supermercati, accanto ai più che noti parmigiano reggiano o prosciutto di Parma, prodotti locali di varie classi merceologiche. Così è ora possibile acquistare i fagioli di Lamon e quelli di Sarconi, la fava di Carpino e quella di Leonforte, la farina di Saragolla lucana e quella di Timilia, il farro della Garfagnana, il peperone di Senise e la cipolla rossa di Tropea, il pistacchio di Bronte e via dicendo.

 

In genere chi compra questi prodotti è un consumatore particolarmente attento a ciò che acquista, ma raramente conosce storia e tradizioni di queste antiche varietà locali specie quando provengono da altre regioni. Le antiche varietà di specie vegetali sono frutto della selezione operata empiricamente nel tempo dai contadini. Coltivate per svariati decenni a volte anche oltre un secolo, contribuivano al sostentamento delle comunità rurali di ben definiti areali o tramite il consumo diretto o come merce di scambio per acquistare beni non prodotti in loco.

 

È grazie a pochi ostinati contadini che hanno continuato a coltivarle, anche quando sono state ampiamente sostituite dalle moderne varietà, che molte sono sopravvissute sino ai giorni nostri guadagnandosi piccoli spazi come prodotti di nicchia. In realtà, dietro ciascuna di queste varietà locali ci sono storie reali o leggende, proverbi, piatti tipici e usanze anche curiose.

 

Un variegato complesso di sapere popolare, in genere tramandato oralmente, che quasi mai varca i confini della comunità che da tempo apprezza e custodisce ciascuna varietà. Proviamo a conoscerne qualcuna.

 

Il fagiolo gialèt

 

La coltivazione in Val Belluna (Veneto) di questo fagiolo è documentata con certezza sin dall’inizio del 1900. In realtà, la coltivazione dei fagioli in questa parte d’Italia è ben più antica. Infatti, varie fonti storiche collocano proprio nel bellunese l’inizio della coltivazione del fagiolo in Italia fissandola intorno al 1530 per iniziativa dell’umanista Giovanni Pierio Valeriano, che era originario di queste terre.

 

Un testo del ‘700, che descrive le coltivazioni presenti nel Distretto di Feltre, fa cenno alla presenza di coltivazioni di fagioli nella zona ma non fornisce dettagli sulle varietà coltivate. Il volume del Catasto Agrario relativo alla provincia di Belluno, redatto nel 1929 a seguito del censimento nazionale, quantifica in riporta quasi 8.000 ettari la superfice dedicata alla coltivazione del fagiolo.

 

Tornando ai nostri giorni il gialèt, detto anche fasol biso o solferino, condivide il territorio di coltivazione con altri fagioli sia più noti, come quelli di Lamon, che decisamente meno conosciuti come il Bala rossa o il Mame d’Alpago.

 

Come si può intuire dal nome, tratto distintivo del gialèt è il colore giallo del seme. Fagioli di colore giallo sono coltivati anche in altre zone ad esempio in Carnia (Friuli) dove sono denominati Cesarin e in Toscana dove è coltivato il fagiolo Zolfino. Sebbene l’aspetto del seme e soprattutto il colore sia simile si tratta di varietà con alcune differenze genetiche.

 

Tra tutti i fagioli coltivati in Val Belluna il gialèt è sempre stato considerato il più pregiato per il sapore particolarmente delicato caratteristica che lo rendeva molto apprezzato dalle classi più agiate. Tra fine ’800 e primi del ‘900 i commercianti veneti ne facevano incetta poiché era molto richiesto dal Vaticano, che assorbiva gran parte del raccolto, motivo per cui era anche conosciuto con l’appellativo di “fagiolo del Papa”.

 

A livello locale i contadini si limitavano a coltivarlo con grande cura poiché il raccolto non commercializzato al di fuori della zona di coltivazione, sarebbe stato sicuramente acquistato dai ceti più agiati. Il gialèt era quindi tenuto in gran conto, una varietà sicuramente da coltivare, ma non da consumare poiché la sua vendita garantiva un introito importante nell’economia familiare.

 

La lenticchia di Altamura

 

Nel nostro paese le leguminose non vengono in genere considerate produzioni agricole capaci di generare un indotto economicamente rilevante. In realtà c’è stato un periodo in cui questo assunto è stato smentito. A partire dagli anni Trenta del Novecento la coltivazione della lenticchia ha rappresentato nella zona murgiana a cavallo tra Puglia e Basilicata una fiorente attività, raggiungendo una rilevanza economica di tutto rispetto.

 

La coltivazione di una varietà locale a seme molto grande iniziata in sordina grazie all’intraprendenza del dr. Stasolla si diffuse su un ampio territorio diventando un volano per l’economia agricola di un vasto comprensorio. Questa lenticchia infatti, era molto apprezzata dai consumatori non solo italiani ma anche stranieri.

 

Nella prima metà del ‘900 la lenticchia di Altamura, si divideva il mercato con quella di Villalba (CL), anch’essa un tipo a seme grande, ed era esportata in nord America e persino in Australia. Il cuore dell’attività di commercializzazione era ad Altamura, da qui il nome con cui questa varietà è ancora oggi conosciuta. Nella città pugliese vi era persino un borsino per la quotazione delle partite di seme e manodopera locale trovava impiego non solo nella coltivazione, ma anche nella lavorazione del raccolto dalla pulitura alla vagliatura e confezionamento della granella. Alcune delle attrezzature originali sono ancora esistenti sebbene in stato di abbandono.

 

La rilevanza di questa filiera locale legata alla lenticchia ebbe il suo riconoscimento nel 1951, anno in cui l’allora Presidente della Repubblica Luigi Einaudi fece visita alle strutture agricole e commerciali di Altamura riconoscendo l’intraprendenza e operosità della popolazione locale.

 

Purtroppo, nel dopoguerra l’economia italiana stava rapidamente cambiando ridimensionando il ruolo della agricoltura a favore dell’industrializzazione del paese. Inizio così, come per tante altre varietà locali, il declino della lenticchia di Altamura soppiantata in pochi anni anche dalla concorrenza di lenticchie provenienti da altri paesi e caratterizzate da un prezzo inferiore e dalla resistenza al tonchio.

 

Questo parassita attaccava i semi altamurani nella fase di stoccaggio provocando perdite anche consistenti del raccolto. Così Altamura, la città delle “Tre elle”, lino-lana-lenticchia, prodotti su cui si era basata l’economia della città per un lungo periodo, ha cambiato pelle ed oggi è sicuramente più nota per il suo tipico pane di grano duro.

 

Il cece nero di Cassano delle Murge

 

Una curiosa consuetudine è stata per lungo temo legata al cece nero, un altro legume tradizionalmente coltivato nel territorio murgiano nel quale rappresentava un tipico componente della alimentazione. Fino agli anni Sessanta del secolo scorso era usanza, tra gli abitanti di Cassano delle Murge, offrire alle donne come primo pasto dopo il parto il brodo di cottura dei ceci neri. Si trattava di un liquido nerastro molto denso che era ritenuto indispensabile per poter recuperare le forze consentendo alla puerpera di riprendere velocemente le proprie incombenze casalinghe.

 

La consuetudine prevedeva anche la consegna di una gallina come pagamento del battesimo del nascituro al sacerdote che officiava tale rito. La disparità di trattamento tra queste due figure è evidente, ma non deve poi stupire più di tanto. In tutte le culture ed in tutti i tempi è possibile ritrovare esempi di cibi ritenuti portatori di particolari proprietà da quelle afrodisiache a quelle terapeutiche. Credenze in genere tramandate oralmente di generazione in generazione all’interno di comunità più o meno vasta, ma prive di qualunque riscontro oggettivo.

 

Un esempio che oggi non può che farci sorridere è quello del cacao la cui bevanda nell’Europa del XVI-XVII secolo era ritenuta inadatta al consumo da parte delle donne e tra gli uomini era riservata solo alle fasce sociali più elevate.

 

Il fagiolo del Purgatorio di Gradoli

 

Nel contesto rurale del passato le leguminose erano una insostituibile fonte di proteine di buona qualità soprattutto per le classi meno abbienti che non potevano permettersi un regolare consumo di carne. In molte comunità questa rilevanza nel quotidiano ha portato a legarle a eventi religiosi non solo attraverso modi di dire e proverbi come quelli che associavano importanti fasi del lavoro dei campi, come la semina delle varie specie, con le festività religiose localmente più sentite e celebrate, ma inserendole a pieno titolo nelle celebrazioni stesse.

 

Gli esempi sono numerosi, uno di essi è il banchetto rituale che dal ‘600 si svolge a Gradoli, nel viterbese. In questa cittadina la confraternita denominata “Fratellanza del Purgatorio” organizza in occasione delle Ceneri un banchetto detto “pranzo del Purgatorio”, in passato riservato ai poveri della comunità perché almeno per un giorno fossero al centro dell’attenzione. Oggi il rituale è rimasto, ma il banchetto è aperto a tutta la cittadinanza e ne rappresenta un evento identitario.

 

Una delle immancabili portate è preparata con una varietà locale di fagiolo denominato appunto “fagiolo di Gradoli o del Purgatorio” che, poiché si tratta di un pranzo di magro, viene consumato lesso condito solo con olio sale e pepe. Si tratta di un fagiolo molto piccolo (100 semi pesano meno di 20 grammi), di colore bianco, dal tegumento sottile coltivato principalmente nell’agro di Gradoli e di alcuni comuni limitrofi.

 

La coltivazione di questa varietà locale si ricollega alle tradizionali colture dell’alto viterbese sui cui terreni di origine vulcanica sono da lungo tempo diffusamente coltivate varie leguminose. Una precisazione è d’obbligo per quanto riguarda la presenza di piatti a base di legumi in banchetti rituali poiché quello di Gradoli non è un caso isolato. Ad esempio, nei comuni della Grecià salentina (Puglia) si celebrano annualmente le cosiddette “Tavole di S. Giuseppe”, banchetti rituali in cui non può mancare una portata detta “massa ciceri” preparata con ceci e pasta fatta in casa.

 

Il fagiolo a formella

 

Che i fagioli sono arrivati nel vecchio continente dalle Americhe dopo la loro scoperta è ben noto, forse meno noto è che la quasi totalità di quelli coltivati in Italia, pur nella grande variabilità morfologica del seme tipica delle varietà locali, appartengono a un’unica specie il fagiolo comune (Phaseolus vulgaris L.).

 

Nel continente americano in realtà non è stata domesticata solo questa specie, ma anche altre che però non hanno avuto una grande diffusione nel nostro paese e in genere in Europa. Fatta eccezione per il fagiolo di Spagna (Phaseolus coccineus L.) apprezzato al suo arrivo dal Nuovo Mondo più come pianta ornamentale che da seme.

 

Solo il fagiolo comune si diffuse con grande rapidità. Le cause sono molteplici dalla sua notevole somiglianza col fagiolino dall’occhio, coltivato sin dai tempi dei romani, alla adattabilità dei fagioli americani alle diverse condizioni ambientali rispetto a quelle degli ambienti di provenienza. Come spesso accade, esiste però l’eccezione del “fagiolo a formella”. Questa varietà locale appartiene a una terza specie il fagiolo di Lima (Phaseolus lunatus L.) esempio raro se non unico di coltivazione di questa specie in Europa.

 

L’areale tradizionale di coltivazione è compreso tra Nola e Acerra, in Campania, il seme di colore bianco, è schiacciato e di forma quasi trapezoidale. Proprio la sua similarità con dei bottoni di antica foggia è all’origine del nome formella, un termine del vernacolo locale che indicava appunto un particolare tipo di bottone. Sono diversi i piatti tipici preparati con questo fagiolo consumato sia allo stato ceroso che secco.

 

La lenticchia di Ventotene

 

Questa antica varietà è quasi introvabile a meno che non si decida di andare ad acquistarla direttamente nell’isola di produzione. Ventotene è una delle isole dell’arcipelago pontino abitata con alterne vicende sin dai tempi antichi. L’isola è ricca di vestigia dell’epoca romana e qui vi fu confinata per vari anni Giulia la figlia dell’imperatore Augusto.

 

Stabilmente abitata dal 1768 a seguito della decisione di re Ferdinando IV di Borbone che incentivò il trasferimento a Ventotene di nuclei familiari di contadini provenienti dalle zone colpite dall’eruzione del Vesuvio di quegli anni. Tra le colture introdotte sull’isola durante questa fase di ripopolamento vi fu una varietà di lenticchia a taglia molto bassa che ben tollerava i forti venti che abitualmente soffiano sull’isola.

 

Per la comunità di Ventotene i prodotti agricoli dell’isola erano un bene primario da difendere con decisione e la produzione di lenticchie non faceva eccezione. Fino agli anni ’60 del secolo scorso i contadini utilizzavano un fondo comune per finanziare la caccia ai passeri che danneggiavano pesantemente il raccolto. Per ogni volatile catturato venivano versate da 5 a 10 lire. I ragazzi erano particolarmente attivi in questa caccia praticata con trappole artigianali e laccioli. I bimbi più piccoli invece, contribuivano alla difesa del raccolto di lenticchie ed altri legumi con un metodo meno cruento ovvero scacciando gli uccelli recitando una filastrocca: «Uccello ladruncolo hai mangiato tutti i piselli, vattene verso il mare, là ci trovi l’orzo e il grano. Sciò, sciò» (“Auciello mariuncello te mangiat tutti i pisielli, và vattenne abbascio a mare la ce truovi l’uorgio e ò grano. Scioì, scioì”).

 

Come è evidente da questi pochi esempi ogni varietà locale è accompagnata da una sua storia che affonda le radici in un contesto rurale ormai scomparso. Prendere coscienza dell’importanza della tutela di queste come di tutte le varietà locali, in genere ad alto rischio di estinzione, vuol dire non solo tutelare la biodiversità vegetale, di cui il nostro paese è particolarmente ricco, ma anche un insieme di sapere e tradizioni popolari.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

F. Birri e C. Coco, Cade a fagiolo, Marsilio Editore, Firenze 2000. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]