N. 85 - Gennaio 2015
(CXVI)
LEGIONE CONTRO FALANGE
MACCHINE DA GUERRA A CONFRONTO
di Massimo Manzo
Sono
state
le
armate
più
temute
del
mondo
antico,
tanto
da
seminare
il
terrore
ogni
volta
che
apparivano
all’orizzonte.
Avvolte
da
un
mitico
alone
di
invincibilità,
per
secoli
la
falange
macedone
e la
legione
romana
hanno
dominato
la
storia
militare,
rivoluzionando
la
dimensione
tattica
e
strategica
della
guerra
nell’antichità.
Ma
quali
furono
i
segreti
che
permisero
alla
loro
fama
di
sopravvivere
ancora
oggi?
Per
comprendere
il
successo
di
queste
micidiali
macchine
belliche
occorre
ripercorrere
le
tappe
che
hanno
portato
alla
loro
creazione,
scandite
da
brillanti
intuizioni,
incredibili
vittorie,
ma
anche
da
marce
indietro
e
cocenti
disfatte.
Dall’oplita
classico
al
falangita
macedone.
La
nascita
della
falange
macedone
è
legata
al
genio
militare
del
sovrano
Filippo
II,
che
grazie
a
essa
riuscì
a
trasformare
la
Macedonia
da
piccolo
regno
semibarbaro
a
vera
e
propria
superpotenza
militare,
al
punto
da
sottomettere
in
soli
vent’anni
la
galassia
delle
poleis
greche,
dosando
sapientemente
forza
bruta
e
finezza
diplomatica.
L’opera
di
Filippo
fu
poi
perfezionata
dal
figlio
Alessandro,
il
quale
la
portò
agli
estremi
confini
del
mondo,
facendone
la
spina
dorsale
delle
sue
immense
conquiste
asiatiche.
Diretto
antenato
dell’invenzione
del
macedone
è il
modello
di
combattimento
in
uso
presso
le
città
–
stato
greche
a
partire
dall’VIII
secolo
a.C.,
basato
sull’utilizzo
della
fanteria
oplitica
in
formazione
compatta.
Armato
di
lancia
e
del
pesante
scudo
rotondo
(oplon),
oltre
che
di
una
corta
spada
in
caso
di
combattimento
corpo
a
corpo,
l’oplita
indossa
elmo,
corazza
e
schinieri
di
bronzo.
La
forza
degli
eserciti
delle
poleis
classiche
non
sta
però
nella
furia
combattiva
del
singolo,
bensì
nel
coordinamento
di
tutti
i
fanti,
i
quali
riescono,
una
volta
serrati
i
ranghi
(di
solito
per
otto
file
di
profondità)
a
impattare
come
un
unico
blocco
il
nemico
frontalmente,
scompaginandone
le
fila.
.
Bronzetto
raffigurante
oplita
classica
Gli
scontri
tra
eserciti
greci
durante
il
periodo
classico
dovevano
curiosamente
assomigliare
alle
moderne
mischie
nelle
partite
di
rugby,
in
cui
vince
la
squadra
che
“spinge
di
più”,
spezzando
la
resistenza
dell’avversario
e
riuscendo
a
rimanere
coesa.
«Imposta
all’intero
mondo
mediterraneo
dall’ineludibile
confronto
con
la
cultura
greca,
la
falange
successivamente
si
evolve;
in
modo
diverso,
tuttavia,
in
Occidente
rispetto
all’Oriente.
I
primi
mutamenti
apparvero,
naturalmente,
all’interno
del
mondo
greco.
Dal
IV
secolo
in
poi,
infatti,
l’Ellade
fu
costretta
a
confrontarsi
con
forme
di
guerra
sempre
nuove»
conferma
il
professore
di
storia
romana
Giovanni
Brizzi
nel
suo
saggio
Il
Guerriero,
l’Oplita,
il
Legionario
–
gli
eserciti
nel
mondo
classico
(Il
Mulino).
In
effetti,
una
prima
importante
evoluzione
della
falange
classica
avviene
proprio
in
nella
prima
metà
del
IV
secolo
a
opera
dei
generali
tebani
Epaminonda
e
Pelopida,
i
quali,
introducendo
il
cosiddetto
“schieramento
obliquo”
e
variando
la
profondità
dei
ranghi
rinforzando
enormemente
l’ala
sinistra,
arrivano
a
sgominare
persino
il
famigerato
esercito
spartano
nella
celebre
battaglia
di
Leuttra
(371
a.C.).
Incudine
e
martello.
Prigioniero
a
Tebe
quando
era
ancora
un
giovanissimo
principe,
Filippo
parte
dall’esempio
dei
generali
tebani,
che
ha
osservato
in
azione
durante
la
cattività,
per
plasmare,
una
volta
salito
al
trono
di
Macedonia,
la
sua
personale
macchina
da
guerra.
Per
far
ciò
forma
un
esercito
nazionale
di
specialisti
che
addestra
intensamente
per
tutto
l’anno
(e
non
solo
per
alcuni
mesi,
come
invece
avveniva
nelle
armate
cittadine
greche).
Dal
punto
di
vista
tattico,
aumenta
ancora
di
più
la
coesione
dei
ranghi,
che
infoltisce
ulteriormente
moltiplicando
la
profondità
delle
file
e
trasformando
lo
schieramento
in
un
blocco
invalicabile.
A
differenza
degli
opliti
classici,
però,
i
falangiti
non
si
proteggono
con
pesanti
armature
(indossano
solo
un
elmo
e
gli
schinieri)
né
imbracciano
l’ingombrante
oplon,
ma
appoggiano
sulla
spalla
uno
scudo
di
appena
60
centimetri.
La
loro
arma
principale
è
invece
la
sarissa,
una
micidiale
lancia
lunga
intorno
ai
cinque
metri
(almeno
il
doppio
di
quella
tradizionale),
che
impugnano
a
due
mani.
«È
proprio
l’uso
di
questo
strumento
che
rivoluziona
l’arte
della
guerra
così
come
essa
è
stata
concepita
fino
a
ora:
più
che
dal
piccolo
scudo
rotondo,
la
miglior
difesa
è
offerta,
infatti,
proprio
dalla
picca,
il
lungo
braccio
con
cui
il
falangita
tiene
a
distanza
il
nemico.
Da
arma
di
offesa
l’asta
del
fante
si
muta
così
in
incomparabile
strumento
difensivo:
mentre
le
sarisse
del
centro
e
della
retroguardia,
levate
in
alto,
valgono
a
ridurre
di
molto
la
forza
d’impatto
delle
frecce
e di
giavellotti,
quelle
delle
prime
cinque
file
vengono
proiettate
in
avanti,
simili
agli
aculei
di
un
istrice;
e
come
gli
aculei
di
un
istrice,
alzano,
oltre
il
fronte
stesso
della
falange,
una
barriera
impenetrabile
di
punte,
su
cui
sono
destinati
a
infrangersi
tutti
gli
attacchi»
sottolinea
Brizzi.
.
Uno
dei
quadrati
della
falange
macedone
Tra
i
falangiti,
chiamati
anche
pezeteri,
esistono
reparti
speciali,
come
per
esempio
gli
ipaspisti
(portatori
di
scudo)
armati
come
i
vecchi
opliti
e
schierati
ai
fianchi
dalla
falange
con
il
compito
di
proteggerla
da
eventuali
accerchiamenti.
A
completare
l’esercito
di
Filippo,
oltre
ai
peltasti,
fanti
leggeri
e
veloci
incaricati
di
scagliare
dardi
e
giavellotti
contro
i
nemici,
c’è
poi
la
temutissima
cavalleria,
composta
dagli
hetairoi
(o
compagni
del
re,
nobili
macedoni
divisi
in
otto
squadroni
da
300
uomini)
e da
abili
cavalieri
Peoni,
Tessali
e
Traci.
Il
perfetto
coordinamento
tra
fanteria
e
cavalleria,
perfezionato
nelle
campagne
di
Alessandro
contro
gli
sterminati
eserciti
persiani,
rende
le
armate
macedoni
praticamente
imbattibili:
«l’impiego
della
falange,
nelle
mani
di
Alessandro
almeno,
deve
essere
paragonato
a
quello
di
un’incudine
piuttosto
che
di
un
martello;
e
proprio
la
resistenza
incrollabile
dei
suoi
massicci
quadrati,
capaci
di
spezzare
l’impeto
del
nemico,
permetterà
ai
cavalieri
di
sferrare
il
loro
risolutivo
colpo
di
maglio.
Se
le
fanterie
macedoni
sapranno
resistere
alla
pressione
avversaria,
a
risolvere
lo
scontro
saranno
le
forze
d’élite:
la
cavalleria
pesante
degli
hetairoi,
al
comando
dello
stesso
sovrano,
e
quella
leggera,
dopo
avere
sgominato
le
forze
montate
del
nemico
poste
di
fronte
a
loro,
ne
distruggeranno
senza
fatica
il
centro,
immobilizzato
dal
blocco
monolitico
della
falange».
I
folgoranti
trionfi
di
Filippo
a
Cheronea
(338
a.C.)
e di
Alessandro
a
Isso
e
Gaugamela
(333
e
331
a.C.)
danno
presto
prova
dell’efficacia
di
tali
schemi
tattici,
inaugurando
nuova
era
della
storia
militare
antica
dominata
dalla
falange.
.
Lo
schema
tattico
dell'incudine
e
del
martello
La
Roma
delle
origini.
Al
suo
affacciarsi
sulla
scena
della
Storia,
quando
è
ancora
una
piccola
città
–
stato
del
centro
Italia,
Roma
mutua
in
toto
il
modello
militare
greco,
armando
i
suoi
soldati
alla
stregua
degli
opliti
classici.
La
prima
riforma
organica
delle
sue
istituzioni
militari
si
deve
al
re
Servio
Tullio
(in
carica
dal
578
al
535 a.C.),
che
le
organizzò
legandole
al
nuovo
ordinamento
sociale
da
lui
ideato,
rigidamente
strutturato
in
base
al
censo.
La
popolazione
fu
così
divisa
in
classi,
a
loro
volta
ripartite
in
centurie
(ovvero
unità
di
cento
uomini).
Ogni
classe
doveva
fornire
un
certo
numero
di
centurie,
dunque
di
armati,
alla
res
publica,
contribuendo
alla
difesa
dello
stato.
Il
principio
era semplice: i cittadini
con
maggiori
disponibilità
economiche,
e
quindi
in
grado
di
pagarsi
l’armamento,
formavano
l’ossatura
dell’esercito
romano.
La
prima
classe
forniva
infatti
ben
80
centurie,
la
seconda,
la
terza
e la
quarta
20,
la
quinta
30,
mentre
il
ricco
ceto
degli
equites
forniva
18
centurie
di
cavalieri.
La
prima
linea
è
formata
da
cittadini
della
prima
classe,
armati
di
lancia,
spada,
scudo
rotondo
e
vestiti
di
pesanti
armature,
elmo
e
schinieri;
i
componenti
della
seconda
sono
forniti
di
un
armamento
quasi
uguale,
ma
essendo
sprovvisti
di
corazza
hanno
sostituito
allo
scudo
rotondo
uno
scudo
oblungo,
che
gli
dà
maggiore
protezione
(così
come
gli
uomini
della
terza,
che
però
fanno
a
meno
anche
degli
schinieri);
le
ultime
due
classi
hanno
invece
solo
armi
da
lancio
(giavellotti,
fionde
o
semplicemente
sassi).
È
questa,
in
sintesi,
la
legione
delle
origini,
per
mezzo
della
quale
gli
agguerriti
abitanti
dell’Urbe
cominciano
la
loro
avventura
espansionistica
nella
penisola
italiana.
Il
cammino
della
legione.
Nonostante
all’inizio
la
legione
assomigli
molto
alla
falange
greca
classica,
nel
corso
del
tempo
essa
si
evolve
in
maniera
totalmente
opposta
rispetto
a
quest’ultima,
privilegiando
una
formazione
di
gran
lunga
più
flessibile
di
quella
oplitica.
Si
tratta
di
una
scelta
dettata
dalle
circostanze,
che
portano
i
Romani
a
scontrarsi
con
popolazioni
che
evitano
di
dar
battaglia
in
campo
aperto,
attuando
nei
loro
confronti
insidiose
azioni
di
guerriglia.
Ed è
proprio
per
fronteggiare
al
meglio
le
fatali
imboscate
dei
Sanniti,
antico
popolo
stanziato
tra
il
Molise,
l’Abruzzo
e la
Campania,
che
la
legione
comincia
a
strutturarsi
in
manipoli,
unità
agili
e
rapide,
in
grado
di
combattere
efficacemente
anche
in
terreni
impervi.
La
legione
manipolare
di
cui
ci
parla
lo
storico
Polibio
nel
III
secolo
a.C.
si
aggira
intorno
ai
4000
uomini,
suddivisi
a
scaglioni
in
base
all’esperienza
e
all’armamento.
I
più
giovani
sono
i
velites,
usati
come
schermagliatori
all’inizio
della
battaglia
e
armati
alla
leggera;
seguono
gli
hastati,
i
principes
e
infine
i
triarii.
Rispetto
ai
tempi
di
Servio
Tullio,
ora
l’armamento
è
cambiato:
gli
hastati
e i
principes,
infatti,
non
usano
più
la
lancia
ma
il
pilum,
un
pesante
giavellotto
ideato
in
modo
da
non
poter
essere
riutilizzato
dal
nemico
una
volta
lanciato.
Dopo
aver
scagliato
i
pila
i
legionari
passano
direttamente
al
corpo
a
corpo
impugnando
il
gladium,
una
corta
spada
a
doppio
taglio
di
origine
iberica,
e
proteggendosi
con
lo
scutum
dalla
forma
allungata,
il
quale
ha
ormai
interamente
sostituito
lo
scudo
rotondo
delle
origini.
I
triarii,
invece,
agguerriti
veterani
chiamati
a
intervenire
quando
lo
scontro
sembra
volgere
al
peggio,
continuano
ad
avere
la
lancia
e a
schierarsi
in
formazione
compatta.
«Articolata
in
profondità
su
tre
linee
successive
–
hastati,
principes
e
triarii
– la
fanteria
pesante
legionaria
è
divisa
in
trenta
manipoli,
dieci
per
ogni
scaglione.
A
loro
volta,
questi
reparti
sono
disposti
in
quincunce,
a
scacchiera,
così
che
le
unità
della
prima
fila
siano
separate
l’un
l’altra
da
uno
spazio
pari
a
quello
occupato
dal
fronte
dei
manipoli
stessi;
mentre
quelle
degli
scaglioni
successivi
si
dispongono
in
corrispondenza
dei
varchi
lasciati
nelle
linee
che
li
precedono.
La
funzione
degli
hastati
e
dei
principes
è
marcatamente
offensiva,
e un
simile
accorgimento
permette
loro
di
alternarsi
in
prima
linea
o a
sostenersi
a
vicenda
durante
l’attacco,
colmando
i
vuoti
delle
file
che
li
precedono».
Se
le
loro
cariche
falliscono
entrano
in
gioco
i
triarii
in
funzione
difensiva,
per
permettere
al
resto
dello
schieramento
di
riorganizzarsi
e
ritornare
all’attacco.
Le
intuizioni
scipioniche.
Durante
tutto
il
periodo
repubblicano
Roma
sfida
nemici
di
ogni
tipo,
affermandosi
come
la
principale
potenza
del
mondo
mediterraneo.
Ma è
il
confronto
con
Cartagine
e
con
il
genio
di
Annibale
a
segnare
il
vero
punto
di
svolta
politico
e
militare
di
questo
processo
egemonico.
A
salvare
l’Urbe
dalla
furia
del
condottiero
punico
è un
giovane
Scipione,
passato
non
a
caso
alla
Storia
con
il
soprannome
di
“Africano”.
È
lui
che
rivoluziona
l’approccio
tattico
tradizionale,
proprio
osservando
le
manovre
con
cui
Annibale
ha
sgominato
i
Romani
sul
lago
Trasimeno
(217
a.C.)
a
Canne
(215
a.C.).
Le
innovazioni
scipioniche,
oltre
a
potenziare
l’addestramento
della
truppa
e a
migliorare
la
qualità
dei
comandanti,
sfruttano
al
massimo
la
cavalleria,
rendendola
fondamentale
in
battaglia.
Nondimeno,
Scipione
abbandonò
l’ultimo
residuo
di
formazione
chiusa
adottato
dai
triarii
rendendoli,
insieme
ai
principes,
la
chiave
per
avvolgere
il
nemico
in
una
morsa
mortale.
«Scipione
aveva
compreso,
come
per
la
loro
stessa
natura,
le
legioni
costituissero
lo
strumento
più
adatto
a
eseguire
sul
campo
la
manovra
avvolgente,
purché
si
insegnasse
alla
fanteria
di
linea
romana
che,
al
momento
giusto,
si
poteva
combinare
il
ripiegamento
di
uno
dei
loro
scaglioni
con
l’avanzamento
improvviso
sui
lati
degli
altri
due,
incolonnati
e
operanti
non
più
per
singoli
reparti,
ma
per
contingenti
interi.
Principes
e
triarii
non
erano
più
un’appendice
della
prima
linea,
ma
erano
organizzate
come
unità
tattiche
indipendenti,
capaci
di
agire
con
tutte
o
una
parte
soltanto
delle
forze
riunite»,
precisa
ancora
Brizzi
nel
suo
saggio.
.
Legionari
romani
repubblicani
(bassorilievo
del
II
secolo
a.C.)
Svanito
il
pericolo
cartaginese
le
legioni
romane
non
incontreranno
mai
più
rivali
all’altezza,
ma
al
contrario
continueranno
per
secoli
a
far
leva
sui
loro
punti
di
forza,
come
la
mobilità,
la
ferrea
disciplina
dei
soldati
e
l’utilizzo
di
avanzatissime
macchine
da
guerra
per
vincere
qualsiasi
resistenza,
pur
subendo
ulteriori
cambiamenti
per
tutta
l’epoca
imperiale.
Legione
vs
falange,
un
confronto
possibile?
Per
gli
storici
antichi
e
moderni
è
difficile
non
cedere
alla
tentazione
di
giudicare
quale,
tra
falange
macedone
e
legione
romana,
sia
stata
la
macchina
da
guerra
“superiore”.
Anche
se
esse
si
scontrarono
più
volte
dalla
fine
del
III
secolo
a.C.,
a
detta
di
molti
un
giudizio
del
genere
ha
poco
senso,
dato
che
si
tratta
di
formazioni
tattiche
le
quali
conobbero
evoluzioni
(e
involuzioni)
continue,
oltre
a
essersi
sviluppate
per
esigenze
diverse.
La
prima
volta
che
le
legioni
affrontarono
in
battaglia
la
falange,
guidata
dal
re
dell’Epiro
Pirro,
furono
sconfitte,
anche
se
inflissero
al
nemico
tali
perdite
da
fagli
perdere
la
guerra.
Ma
in
quel
caso
si
trattava
di
una
legione
che
ancora
non
aveva
conosciuto
le
riforme
scipioniche.
Al
contrario,
nelle
battaglie
di
Cinoscefale
(197
a.C.)
e
Pidna
(168
a.C.),
durante
le
guerre
macedoniche,
la
legione
prevalse
facilmente
sulla
falange
approfittando
della
propria
mobilità,
immensamente
maggiore.
In
questi
scontri,
però,
lo
schieramento
macedone
non
era
più
quello
dei
tempi
d’oro
di
Filippo
e
Alessandro.
La
falange
ellenistica
aveva
infatti
compiuto
una
notevole
marcia
indietro
dal
punto
di
vista
tattico,
eliminando
quasi
totalmente
il
peso
della
cavalleria
(che
invece
era
fondamentale
in
precedenza),
allungando
in
modo
ancora
più
consistente
la
sarissa
e
moltiplicando
eccessivamente
la
profondità
delle
file.
Insomma,
quel
minimo
di
mobilità
che
Alessandro
le
aveva
donato
fu
completamente
dimenticato
dai
suoi
successori.
Già
limitata
per
sua
natura
a
combattere
su
terreni
pianeggianti
al
fine
di
rimanere
coesa,
la
falange
dei
regni
ellenistici
ha
dunque
perso
la
capacità
di
effettuare
la
manovra
avvolgente
e
impatta
i
nemici
solo
frontalmente.
Dall’altro
lato,
la
flessibilità
è il
vero
punto
di
forza
della
legione.
Essa
può
combattere
su
qualunque
terreno
e
adattarsi
molto
meglio
alle
imprevedibili
circostanze
di
qualsiasi
guerra.
Possiamo
solo
immaginare
come
sarebbe
andata
se
fosse
stato
Alessandro
a
sfidarla,
ma
una
cosa
è
certa:
nessuna
istituzione
umana
è
eterna.
E
anche
la
legione
conoscerà,
dopo
i
secoli
di
gloria,
la
via
del
declino.