N. 86 - Febbraio 2015
(CXVII)
ANCHE I LEGIONARI GIOCAVANO IN CONTROPIEDE
Perché L'ITALIA ha vinto spesso a calcio
di Carlo Ciullini
Storia romana e calcio moderno messi assieme: non un articolo
sull’harpastum
(il
gioco
con
la
palla
che
i
legionari
praticavano
nei
castra
tra
una
battaglia
e
l’altra),
ma
qualche
riga
volta
a
porre
sotto
un’unica
lente
di
ingrandimento
coorti,
legioni
e
centurioni
da
una
parte
e
schemi,
tattiche
di
gioco,
allenatori
e
calciatori
dall’altra...
Potrebbe essere interessante indagare il rapporto scientifico
e
analitico
tra
tattiche
e
strategie
del
calcio
italiano
(che
è
quello
che,
sciovinisticamente,
più
ci
preme)
e le
reciproche,
equivalenti
teorie
belliche
dei
nostri
padri,
gli
antichi
di
Roma
e
del
mondo
latino.
Catenaccio, contropiede, gara d’attesa in un caso, formazione
manipolare
o
coortale
delle
legioni,
nell’altro;
epiche
partite,
in
cui
è
rifulsa
l’abilità
tattica
dell’Italia
pallonara
qui,
battaglie
e
imprese
guerresche,
paradigmatiche
della
capacità
d’organizzazione
degli
eserciti
consolari,
là:
misters
e
generali,
pedatori
e
legionari...
Il fatto è che dopo due millenni, ben poco è cambiato nello
spirito
propositivo
dei
vari
popoli
d’Europa;
tuttavia,
c’è
ancora
chi
non
lo
ha
capito.
Arrigo Sacchi, ad esempio.
Ci ritroviamo non di rado a sbuffare, irrequieti sulla nostra
poltrona,
quanto
lo
sentiamo
pontificare,
in
tv,
sul
gioco
all’italiana
che
lui
tanto
disprezza
e
avvilisce,
esaltando
invece
l’atteggiamento
offensivo
a
oltranza
di
inglesi,
spagnoli,
tedeschi,
olandesi,
portoghesi,
francesi...
In quei momenti si agita, in noi, lo spirito di amanti della
storia
di
Roma...Forse
-ci
chiediamo-
la
storia
stessa
non
insegna
nulla?
“Caro Sacchi” gli diremmo, nel caso lo incontrassimo “si è
mai
chiesto
perché,
nonostante
i
suoi
strali,
il
calcio
italiano
è
quello
che
maggiormente
si è
coperto
di
gloria
e di
allori,
polverosi
o
freschi
che
siano?
Ha mai cercato di dare una risposta razionale e scientifica
al
perché,
sia
a
livello
di
club
che
di
nazionali,
maggiori
o
giovanili,
il
nostro
è il
calcio
più
vincente?
E per quale motivo, nonostante l’alone da medioevo calcistico
che
a
suo
dire
ci
avvolge,
allorquando
incontriamo
sul
manto
erboso
inglesi,
tedeschi,
ecc.
ecc.,
li
battiamo
più
spesso
di
quanto
si
perda?
Si tratta, egregio Sacchi, di una mera questione d’indole e
di
predisposizione
fisiologica,
di
Dna;
è
ciò,
a
esser
precisi,
che
scorreva
nel
sangue
dei
nostri
avi
e
che
permise
loro
di
dominare
per
secoli
i
padri
di
coloro
con
cui
ci
scontriamo
oggi
negli
stadi
di
tutta
Europa:
Germani,
Britanni,
Galli,
Batavi,
Ispanici,
Lusitani.
Arrigo, maestro nostro, forse lei non riesce a cogliere
appieno
una
realtà
ciclico-storica
inconfutabile:
un
tempo,
città
e
nazioni,
ciascuna
con
i
propri
simboli
e
insegne,
con
i
colori
e le
divise
militari
distintive
(non
a
caso
chiamate
“uniformi”),
si
prendevano
sui
campi
di
battaglia
a
fendenti,
infilzate
di
lancia,
frecciate
e
tiri
di
fionde...e
poi
mazzate,
colpi
di
piccarda,
raffiche
di
archibugio,
strepiti
di
cannone;
e
infine
fucilate,
pistolettate
e
mitragliate
a
falcio.
Oggi, in un clima fortunatamente pacificato (almeno nel
cuore
della
vecchia
Europa,
non
dappertutto,
ahimé)
questo
si
ripete
in
forme
non
cruente
ma
egualmente
simboliche
sui
campi
di
gioco
di
100
mt x
40,
dove
(ancora
una
volta)
colori
e
divise
contrapposti
si
rifilano
reciprocamente,
seguendo
regole
e
convenzioni
aliene
da
spargimenti
di
sangue,
altri
colpi
d’offesa:
tiri,
colpi
di
testa,
cross
dal
fondo,
tackles,
pressing,
falli
tecnici
o,
semplicemente,
cattivi...
Duemila anni fa, sfortunatamente, non si aggiravano tra le
mischie
arbitri
in
giacchetta
nera,
sventolanti
cartellini
gialli
per
ammonire,
o
rossi
per
punire
il
gioco
violento...
E come secoli addietro Romani e Britanni, o Galli, o Germani
si
affrontavano
perseguendo
le
proprie
attitudini
belliche
e le
specifiche
modalità
di
combattimento
tipica
di
ciascuna
razza,
al
giorno
d’oggi
noi,
che
ne
siamo
i
discendenti
per
“eredità
etnica”,
ne
imitiamo
in
modo
naturale
il
comportamento,
quando
in
un
prato
verde
affrontiamo
gli
avversari
a
pallone;
tuttavia,
caro
Sacchi
–
così
proseguiremmo,
in
questo
ipotetico
incontro
– il
risultato
è il
medesimo.
Come il calcio italiano (giacché calcio e non
football,
come
tutti
gli
altri
popoli,
giustamente
lo
chiamiamo,
avendolo
inventato
sulle
rive
dell’Arno,
più
di
cinque
secoli
fa...)
è il
più
carico
di
trionfi
(4
mondiali,
una
cinquantina
di
coppe
internazionali
per
club),
così
gli
italiani
di
allora
–
cioè
i
Romani,
i
Latini,
gli
Italici
–
dominarono
l’ecumene
per
un
buon
mezzo
millennio,
e
mai
nella
storia
dell’umanità
un
popolo
è
riuscito
in
tale
impresa.
Attualmente, dobbiamo riconoscerlo, tale rapporto di forza
tra
il
nostro
paese
e
quelli
più
importanti
del
continente
non
sussiste
più
(e
non
da
oggi,
ma
da
secoli),
a
causa
di
superiorità
tecnologiche
e
industriali:
Francia,
Germania,
Gran
Bretagna
pongono
l’Italia,
sulla
base
di
questi
moderni
parametri,
in
seconda
linea.
Ma il nostro confronto, preme sottolinearlo, è relativo ad
attitudini
psico-fisiche,
a
innate
peculiarità
genetiche.
A pallone non si gioca, gli uni contro gli altri, coi supporti
di
avanzate
tecnologie
quali
ciascun
paese
è in
grado
di
produrre
modernamente,
ma
si
fa
uso
di
una
sfera
di
cuoio,
di
forza
fisica
e
resistenza,
di
acume
tattico
e
perspicacia.
Oggigiorno, l’Italia probabilmente perderebbe una guerra
contro
Francia,
Germania
e
altri
paesi;
ma
nel
calcio,
contro
questi
paesi,
il “belpaese”
se
la
caverebbe
probabilmente
meglio:
non
si
tratta
infatti,
giocando
a
pallone,
di
una
situazione
di
scontri
tecnologici
tra
nazioni,
ma
di
nudo
e
crudo
Dna
di
popolo
contro
Dna.
Una battaglia genetica, dunque, da clava più che da bomba
atomica.
Come esattamente avveniva in guerra nell’antichità, nessun
puntatore
laser,
o
radar
di
ultima
generazione,
o
telemetria
ottica:
solo
forza,
capacità
di
sofferenza,
tenacia
di
mente
e di
corpo.
A calcio si gioca partendo da armi pari: poca importanza
riveste,
in
mutande
undici
contro
undici,
il
livello
di
moderno
sviluppo
di
ciascuna
delle
due
nazioni
scese
sul
manto
erboso.
A calcio il Senegal può davvero battere gli Usa, e le portaerei
non
conterebbero.
Lo ripetiamo: stiamo parlando, in queste pagine, di Dna, di
prerogative
innate,
patrimonio
naturale
di
ciascun
popolo.
E nel patrimonio atavico dei milites di Roma era ben
viva
la
capacità,
spesso
premiata
dal
successo,
di
contrattaccare
il
nemico
sfruttandone
lo
scemare
dell’impeto
iniziale.
Anche i legionari giocavano in contropiede,
esimio
Sacchi,
e
(spesso)
vincevano.
Come
una
sorta
di
gigantesche
dinamo,
le
legioni
assorbivano
e
facevano
proprie
le
forze
degli
avversari,
servendosene
poi
per
distruggerli.
L’esercito
romano
in
battaglia
era
un
enorme
elastico
dalla
grande
resistenza
e
flessibilità,
il
cui
punto
di
rottura
deve
esser
sembrato
ai
nemici
di
Roma,
il
più
delle
volte,
sempre
difficilmente
raggiungibile”.
A questo punto, per sostenere la validità delle tesi che
sottendono
il
nostro
discorso,
si
renderebbe
necessaria,
al
riguardo,
una
serie
di
exempla
(possibilmente
non
tediosa,
efficace
e
convincente:
riteniamo
che
questo
non
presenti
difficoltà
insormontabili,
anzi...
La battaglia di Zama che pose fine, nel 202 a.C. alla II
guerra
punica,
fu
“giocata”
da
Scipione
“in
contropiede”:
arretramento
del
corpo
centrale
delle
legioni,
truppe annibaliche
sollecitate
ad
avanzare,
aggiramento
repentino
delle
alae
romane
ai
lati
delle
schiere
cartaginesi
e...
gol!
Oppure potremmo ricordare il modulo calcistico del “catenaccio”
che,
puntando
a
fiaccare
l’attacco
avversario
con
una
difesa
a
oltranza,
e a
colpirlo
poi
di
rimessa,
può
essere
messo
a
confronto
con
la
formazione
a testudo,
la
quale
rivestiva
le
medesime
caratteristiche.
E ancora, nella battaglia di Alesia, narrataci nel “De
bello
gallico”
dallo
stesso
Cesare,
il
condottiero
romano
con
soli
60mila
uomini
tenne
testa,
sconfiggendoli,
a
quasi
300mila
Galli,
tra
quelli
assediati
nel
campo
di
Vercingetorige
e
quanti
giunsero
in
soccorso
dall’esterno;
i
romani
perciò,
pur
essendo
in
“inferiorità
numerica”
ebbero
la
meglio
grazie
alla
propria
disciplina,
al
ferreo
senso
di
abnegazione
e
alla
tattica
superiore.
Non ricorda, questo, tra i tanti esempi riscontrabili nella
nostrana
storia
pallonara,
quell’Italia-Norvegia
di
Usa
‘94,
quando
gli
azzurri,
già
in
difficoltà
nel
girone
per
la
partenza
ad
handicap
con
l’Irlanda,
pur
ritrovandosi
in
dieci
dopo
sette
minuti
per
l’espulsione
di
Pagliuca,
seppero
prevalere
comunque,
grazie
a
una
migliore
disposizione
tattica
volta
alla
difesa
acerrima
e al
contropiede?
Il
caso
volle,
tra
l’altro,
che
fosse
proprio
Sacchi
il C.T
seduto
sulla
panchina
azzurra
in
quell’occasione:
si
può
fare
anche
uno
strappo
alla
regola,
ogni
tanto,
e
violentare
le
proprie
convinzioni...
Ma volgiamoci al termine.
Secondo gli ultimi studi paleo-antropologici, l’altezza
media
dei
legionari
romani
era
sul
1,65/70
mt,
assolutamente
inferiore
a
quella
di
Galli,
Britanni,
Germani,
con
una
relativa
struttura
osseo-muscolare
meno
sviluppata;
per
queste
caratteristiche
di
costituzione,
quei
popoli
di
origine
celtica
e
nordica
risultavano
essere
fisicamente
più
possenti
e
vigorosi
di
chi
fosse
appartenuto
a
razze
mediterranee.
La forza tendinea, il guizzo e l’agilità delle quali, tuttavia,
livellavano
un
poco
i
parametri
fisiologici
delle
schiere,
latine
e
barbare,
impegnate
in
campo.
Il quid che faceva solitamente prevalere l’aquila
romana
era
la
sua
disciplina
bellica,
la
preparazione
scientifica
nell’arte
della
guerra
e,
sopratutto,
la
superiore
resistenza
mentale:
ciò
fece
prevalere
i
meno
dotati
dalla
natura
dal
punto
di
vista
muscolare,
ma
più
ricchi
d’ingegno,
di
prontezza
di
riflessi
e di
sagacia
guerriera.
Tacito, nel suo “Germania”, ci racconta di come i
guerrieri
di
quelle
terre
barbare
e
brumose
fossero
dotati
di
grande
vigore
fisico,
ma
anche
di
quanto,
una
volta
impegnati
in
uno
sforzo
prolungato
e
che
non
portasse
a un
successo
immediato
nello
scontro,
scemassero
ben
presto
di
forze
e
slancio.
L’importante per i loro avversari era reggerne il primo
impatto
fino
a
fiaccarne
l’impeto.
Un tale profilo si disegna, oggi, anche sui campi di gioco:
le
squadre
italiane,
passata
la
sfuriata
iniziale,
piano
piano
vengono
fuori,
puntando
sull’organizzazione
e la
ponderata
amministrazione
delle
energie.
Viva dunque il patrimonio genetico italico... In non pochi
aspetti,
possiamo
ancora
vantarcene
(per
quanto
sembri
cosa
improbabile,
di
questi
tempi).
E, in questa opera di similitudini, potremmo anche equiparare
grandi
allenatori
del
nostro
calcio
a
generali
e
condottieri
con
caratteristiche
umane
similari.
Cornelio Silla aveva in battaglia la stessa durezza e il
carisma
di
Fabio
Capello
su
una
panchina,
Gaio
Mario
il
medesimo,
paternalistico
cameratismo
di
Carletto
Ancellotti,
e
Antonio
Conte
si
sente
ancora
un
calciatore,
così
come
Giulio
Cesare
o
Ulpio
Traiano
amavano
essere
considerati
soldati
tra
soldati.
Il tema lascia davvero spazio a mille possibilità di interpretazione:
ma,
per
non
troppo
tediare,
ci
fermiamo
qui.