N. 72 - Dicembre 2013
(CIII)
LA VEROSIMIGLIANZA DEL MITO ARTURIANO
ARTù NELLA MEMORIA STORICA INGLESE
di Gabriele Passabì
La
leggenda
di
Re
Artù
non
appartiene
soltanto
al
passato
inglese
ma
al
mondo
occidentale.
Eppure,
la
sua
figura
storica
resta
un
mistero
tanto
elusivo
quanto
intangibile.
Numerosi
studi
hanno
cercato
di
penetrare
la
storicità
di
Artù
cercando
di
chiarificare
i
punti
più
oscuri.
Si
tratta
però
di
un
compito
assai
arduo
per
il
fatto
che
la
figura
di
Artù
non
può
essere
semplificata
ad
una
“appendice
leggendaria”
della
memoria
inglese.
Egli
infatti
appartiene
alla
Gran
Bretagna
e ai
suoi
abitanti,
è
l’incarnazione
dell’ideale
britannico.
Ovviamente,
l’individuazione
di
Artù
come
simbolo
di
un
intero
popolo
è il
risultato
di
un
lungo
processo
che
non
si è
determinato
esclusivamente
in
termini
politici
o
letterari.
Artù
infatti
è il
protagonista,
in
senso
ampio,
di
un
pervasivo
sviluppo
sociale
e
culturale
che
l’ha
portato
a
essere
considerato
un
membro
fondativo
del
passato
collettivo
inglese.
Ma
cosa
significa
veramente
ciò?
Come
scrivere
lo
storico
inglese
Cubitt,
il
costruire
un
passato
collettivo
implica
necessariamente
la
necessità
di
elaborare
un
preciso
momento
del
passato
che
sia
tanto
importante
da
costituire
una
sorta
di
connessione
privilegiata
che
lo
metta
in
relazione
con
il
presente
e,
soprattutto,
con
il
futuro
(Cubitt,
2007,
p.
200).
E’
esattamente
per
mezzo
di
questa
connessione
che
Artù
è
divenuto
una
parte
fondamentale
del
passato
non
solo
letterario
e
“narrativo”
della
Gran
Bretagna
ma
anche
di
quello
sociale.
Ha
lasciato
un
segno
talmente
profondo
nell’identità
britannica
da
modellare
anche
la
memoria
storica
di
questo
popolo.
L’importanza
letteraria
del
fenomeno
arturiano
e il
suo
uso
per
fini
politici
non
sono
abbastanza
probanti
da
spiegare
efficacemente
il
suo
complesso
significato
culturale
e il
suo
ruolo
cruciale
nel
costituire
una
memoria
sociale
condivisa
e
riconosciuta.
Infatti,
i
passati
collettivi
sono
costruzioni
immaginative
fluide,
si
tratta
di
esperienze
spesso
vaghe
e
“impressioniste”,
più
allusive
che
precisamente
costruite
nel
loro
impianto.
Per
questo
motivo,
rispondere
alla
domanda
sul
perché
Artù
è
divenuto
parte
della
memoria
storica
inglese
è
una
questione
che
per
trovare
risposta
ci
spinge
a
scavare
in
profondità
nel
passato
collettivo
fino
a
toccare
proprio
le
sue
fondamenta
e
richiede
di
guardare
al
sovrano
mitico
come
una
chiave
di
interpretazione.
Per
questo
motivo
Artù
deve
essere
considerato
un
“eroe
verosimile”
nel
senso
semiotico
del
termine.
Il
“verosimile”
è
infatti
un
concetto
semiotico
intra-culturale
che
descrive
l’atteggiamento
adottato
da
una
cultura
verso
i
segni
e i
simboli
appartenenti
alla
sua
struttura.
Si
tratta
di
un
concetto
che
serve
da
criterio
di
riferimento
per
analizzare
i
significati
figurativi
che
si
nascondono
dietro
le
narrazioni.
Di
conseguenza
un
resoconto
verosimile
,
contestualizzato
in
una
società,
non
implica
solamente
una
corretta
interpretazione
della
sua
realtà
socio-culturale,
ma
si
tratta
anche
di
un
simulacro
costruito
con
il
preciso
scopo
di
far
apparire
un
determinato
elemento
come
autentico
(
Gremas,
Courtès,
2007,
p.380).
Come
direbbe
Platone
quindi,
è
proprio
attraverso
un
“mito
verosilime”
(eikos
muthos)
che
un
ideale
riconosciuto
come
credenza,
diviene
comprensibile
per
i
membri
di
quella
stessa
società
e li
persuade
della
sua
autenticità.
Perciò,
la
figura
di
Artù
non
dovrebbe
essere
interpretata
meramente
come
una
figura
letteraria,
usata
nel
corso
del
tempo
per
scopi
politici
ma
deve
essere
compresa
soprattutto
nel
suo
ruolo
sociale,
cioè
come
simbolo
ultimo
della
costruzione
della
memoria
e
del
passato
dell’Inghilterra.
L’obiettivo
di
questo
saggio
è
infatti
quello
di
analizzare
la
figura
di
Artù,
identificare
le
ragioni
per
le
quali
è
divenuto
fondamentale
nel
processo
di
costruzione
della
memoria
storica
inglese
tra
il
XII
e il
XV
secolo.
Dal
mitico
eroe
protagonista
di
una
produzione
letteraria
quasi
infinita,
al
ruolo
politicizzato
del
sovrano
giusto
e
saggio
o
del
sacro
re
guardiano
della
reliquia
più
sacra
della
Cristianità,
tutti
questi
aspetti
sono
infatti
tratti
dello
stesso
dipinto:
anche
se
osservati
separatamente,
sono
comunque
parti
un
unico
complesso
che
si
palesa
solo
se
percepito
da
una
prospettiva
culturale.
In
questo
modo
è
possibile
quindi
comprendere
l’effettiva
portata
dell’influenza
arturiana
nella
costruzione
del
passato
collettivo
e
della
memoria
sociale
del
popolo
inglese.
Artù
ha
sempre
costituito
una
parte
importante
del
folklore
britannico
ma è
soprattutto
attraverso
la
sua
trasposizione
letteraria
che
ha
ottenuto
la
più
ampia
diffusione.
La
storia
di
re
Artù
fu
narrata
esattamente
come
i
sovrani
inglesi
volevano
sentirla,
creando
un
legame
nella
successione
dinastica
tra
il
potere
regio
e la
mitica
civiltà
di
Troia.
Nel
corso
del
tempo
anche
la
figura
letteraria
di
Artù
subì
profondi
cambiamenti
dimostrando
di
essere
sempre
capace
di
adattarsi
alle
nuove
richieste
del
contesto
sociale.
Il
racconto
tradizionale
della
storia
di
Artù
è
stato
scritto
da
Goffredo
di
Monmouth:
la
Historia
Regum
Britanniae.
L’anno
di
pubblicazione
di
quest’opera
(1136)
ha
rappresentato
un
vero
e
proprio
spartiacque
per
gli
studi
arturiani.
Si
tratta
infatti
del
primo
compendio
sistematizzato
di
tutte
le
storie
che
avevano
come
protagonista
Artù,
comprese
quelle
che
provenivano
dalla
tradizione
orale
risalente
ai
bardi
gallesi
(Blake,
Lloyd,
2005,
p.
31).
Ma
chi
era
in
realtà
l’Artù
della
Historia?
Le
sue
origini
sono
molto
remote.
Il
suo
antenato
più
antico
era
Bruto,
un
veterano
della
guerra
di
Troia
che
aveva
fondato,
come
un
novello
Enea,
una
colonia
sul
Tamigi
che
aveva
chiamato
Nova
Troia,
nome
in
seguito
corrotto
in
Trinovantum.
Questo
insediamento
costituì
il
nucleo
primario
del
regno
britannico
che
in
seguito
passò
al
figlio
di
Bruto
Uther
Pendragon
il
quale
lasciò
infine
il
titolo
a
suo
figlio
Artù.
Quest’ultimo
fu
un
re
saggio
e
illuminato,
pronto
a
proteggere
la
libertà
del
suo
popolo
fino
alla
morte.
Infatti,
egli
combatté
numerose
battaglie
contro
gli
invasori
Sassoni
che
vennero
definitivamente
sconfitti
dopo
la
battaglia
di
Monte
Badon.
Artù
realizzò
inoltre
una
sorta
di
“vendetta
culturale”.
Egli
infatti
combattè
anche
contro
i
romani
che
erano
stati
sempre
i
governatori
tirannici
di
Britannia
sconfiggendo
a
Suassy
l’armata
di
Massimiano.
Sull’onda
del
successo
dopo
la
battaglia
propose
anche
una
marcia
contro
Roma
stessa,
impresa
che
fu
costretto
ad
interrompere
a
causa
dell’usurpazione
di
Mordred.
Goffredo
di
Monmouth
con
il
suo
lavoro
installò
un
ponte
con
un
mondo
antico
e
meraviglioso,
impregnato
dei
valori
eroici
e
imprese
straordinarie
ma
che
strutturalmente
rifuggiva
la
precisione
storica.
Infatti,
nel
corso
della
Historia
sono
menzionate
solo
tre
date
che,
come
sostiene
Barron,
sembrano
essere
il
risultato
di
una
scelta
intenzionale
di
inesattezza
cronologica
da
parte
dell’autore
(Barron,
2001,
p.
15).
L’obiettivo
dell’opera
infatti
non
è
l’accuratezza
storica.
Goffredo
voleva
piuttosto
scrivere
un’opera
che
potesse
incontrare
i
gusti
e i
favori
della
nobiltà
del
tempo.
Egli
infatti,
pur
non
essendo
direttamente
associato
in
nessun
modo
con
la
corte,
ne
cercava
il
consenso
e le
grazie.
Non
è
una
coincidenza
infatti
la
scelta
di
dedicare
il
suo
lavoro
a re
Stefano
e
Roberto
di
Gloucester.
Infatti
l’opera
di
Goffredo
provvedeva
ai
patroni
normanni
la
legittimazione
della
conquista
ponendola
in
una
prospettiva
di
prefigurazione
storica;
Bruto
viene
dipinto
come
l’invasore
portatore
di
una
cultura
superiore
mentre
i
sassoni
vengono
presentati
come
nemici
perfidi
e
brutali
incapaci
di
governare.
Allo
stesso
tempo
la
Historia
offriva
alla
componente
autoctona
del
regno
un
riscatto
della
loro
recente
umiliazione
(proprio
la
conquista).
Per
mezzo
di
una
identificazione
immaginata
della
loro
identità
con
una
tradizione
più
antica
e
più
autorevole
rispetto
a
quella
tradizionale,
gli
anglosassoni
hanno
di
fatto
spostato
l’asse
della
percezione
identitaria
dall’autocoscienza
di
popolo
all’appartenenza
alla
terra
britannica.
E’
in
quest’ultimo
aspetto
che
si
rende
evidente
il
ruolo
sociale
assunto
da
re
Artù
per
la
società
inglese
del
XII
secolo.
In
questo
modo
infatti
il
Re
divenne
simbolo
della
redenzione
degli
inglesi
che
poterono
smettere
di
pensare
se
stessi
come
prosecutori
dei
sassoni
sconfitti
e
cominciarono
a
considerarsi
gli
eredi
di
un
popolo
fiero
che
trovava
un
punto
di
riferimento
e
una
prova
della
loro
identità
nella
figura
di
re
Artù.
Con
il
Roman
de
Brut
di
Robert
Wace
si è
osservata
una
riappropriazione
letteraria
della
Historia
(Barron,
2001,
p.
18).
Si
trattava
infatti
di
una
più
ricca
traduzione
dell’opera
di
Goffredo
di
Monmouth
che
ottenne
un
grande
successo
su
entrambi
i
lati
del
Canale.
Tuttavia,
diversamente
dalla
Historia,
l’opera
di
Robert
Wace
aveva
un
dichiarato
intento
encomiastico.
L’autore
infatti
era
molto
vicino
al
mondo
dell’aristocrazia:
era
un
chierico
normanno
legato
a
Eleonora
d’Aquitania
e ad
Enrico
II.
Il
poema,
composto
nel
1155,
appena
un
anno
dopo
l’incoronazione
di
Enrico,
era
dedicato
ad
Eleonora
che
da
poco
era
divenuta
regina
d’Inghilterra.
Alla
luce
di
ciò
Artù
divenne
un
prezioso
anello
della
catena
che
legava
i
monarchi
inglesi
con
la
stirpe
di
Enea
(nel
poema
infatti
Bruto
viene
addirittura
presentato
come
il
nipote
del
mitico
fondatore
di
Roma).
Paradossalmente
Wace
stesso
era
scettico
nei
confronti
delle
leggende
intorno
ad
Artù;
egli
non
metteva
tanto
in
dubbio
l’esistenza
del
mitico
sovrano,
piuttosto
suggeriva
la
possibilità
di
una
esagerazione
dei
suoi
successi
da
parte
delle
successive
generazioni
di
bardi
e
cantastorie,
soprattutto
da
parte
di
quelli
che
appartenevano
alla
tradizione
francese
(Barron,
2001,
p.
20).
Eppure,
contrariamente
ai
trovatori
francesi,
Wace
dipinse
Artù
con
i
medesimi
tratti
che
emergono
nella
Historia,
cioè
quelli
di
un
re-guerriero
dalle
spiccate
doti
militari.
Per
questo
motivo
l’opera
di
Wace
risulta
essere
una
sorta
di
“trade
union”
tra
due
universi
letterari,
quello
inglese
e
quello
francese,
ma
soprattutto
è
una
significativa
testimonianza
di
come
la
figura
di
Artù,
indipendentemente
dagli
intenti
puramente
encomiastici,
fosse
parte
integrante
del
panorama
culturale
contemporaneo.
In
Artù
dunque
si
rifletteva
la
figura
dell’
“eroe
verosimile”
al
quale
il
popolo
inglese
faceva
risalire
la
sua
memoria
e la
sua
identità.
Un
cambiamento
nel
pubblico
fruitore
della
letteratura,
è
sempre
specchio
dei
cambiamenti
culturali
che
una
società
va
attraversando.
Artù
può
essere
considerato
in
un
certo
senso
una
cartina
al
tornasole
del
clima
culturale
della
società
inglese,
per
questo
motivo
un
cambiamento
nella
sua
rappresentazione
letteraria
implica
al
tempo
stesso
un
cambiamento
significativo
tra
i
lettori.
Nel
poema
di
Layamon
(1190
circa)
si è
osservata
infatti
una
maggiore
enfatizzazione
degli
aspetti
fantastici
che
circondavano
il
mito
arturiano,
come
per
esempio
i
numerosi
riferimenti
a
incantesimi
e
armi
magiche
come
la
mitica
spada
Excalibur.
L’elemento
magico
è
una
caratteristica
tipica
delle
leggende
arturiane
e,
quindi,
delle
loro
riproposizioni
letterarie.
Mentre
però
nelle
opere
di
Goffredo
e
Wace
questo
aspetto
era
limitato
a
determinate
circostanze
delle
quali
Artù
era
protagonista,
nel
poema
di
Layamon
l’atmosfera
soprannaturale
risulta
prevalente.
Artù
stesso
appare
“fantastico”,
possessore
di
poteri
magici;
inoltre
viene
attribuita
maggiore
importanza
agli
aspetti
leggendari
legati
al
mito
arturiano
come
l’immortalità
del
sovrano
leggendario
e la
profezia
del
suo
ritorno
per
governare
in
pace
tutta
l’Inghilterra
(Barron,
2001,
p.
32).
In
seguito
l’uso
politico
del
mito
arturiano
si è
incrementato
sempre
di
più
soprattutto
grazie
alla
connessione,
già
stabilita
dalla
Historia,
tra
Artù
e il
mondo
classico.
Si
può
notare
infatti
come
si
sia
intensificato
l’impulso
che
spingeva
la
società
inglese
a
produrre
opere
di
finzione
e
storie
mitiche
che
connettevano
la
sua
origine,
con
l’antichità
classica,
generando
un’affiliazione
tra
l’Inghilterra
e
Troia.
Da
questo
punto
di
vista
Artù
non
viene
enfatizzato
nel
suo
ruolo
di
re-guerriero
ma
in
quello
di
sovrano
illuminato
che
incarna
le
virtù
cavalleresche,
il
leader
della
Tavola
Rotonda.
Questa
tendenza
si
era
già
cominciata
a
manifestare
con
il
Brut
di
Wace
ma
raggiunse
il
suo
culmine
con
i
testi
arturiani
successive.
È il
caso
ad
esempio
di
un
altro
Brut,
opera
in
prosa
composta
intorno
al
XIII
secolo,
o
dell’opera
di
Roberto
di
Gloucester
(XVI
secolo).
Questi
tardi
racconti
delle
storie
di
re
Artù
non
sono
caratterizzati,
come
i
precedenti,
da
una
autentica
sospensione
dell’incredulità.
Infatti
si
può
evincere
soltanto
l’uso
politico
e,
soprattutto,
psicologico
della
figura
di
Artù
come
elemento
di
adesione
e
legittimazione:
il
Re
infatti
era
divenuto
la
figura
esemplare
per
la
promozione
della
Corona.
Queste
opere
si
limitarono
quindi
a
politicizzare
ancora
più
marcatamente
Artù,
mancarono
però
di
una
partecipazione
di
credibilità
autentica
a
differenza
delle
versioni
precedenti;
sembravano
piuttosto
il
risultato
di
una
adesione
manieristica
a
tecniche
rappresentative
ormai
svuotate
del
loro
significato
sociale
ma
che
comunque
raggiungevano
il
consenso
politico.
Artù
divenne
decisivo
nella
formazione
della
memoria
storica
inglese
soprattutto
per
l’uso
politico
che
ne
hanno
fatto
i
sovrani
inglesi.
La
convinzione
dei
re
di
trovare
legittimazione
per
la
loro
sovranità
ha
reso
Artù
un
costante
strumento
di
propaganda
politica.
L’arturianismo
infatti,
se
così
si
può
dire,
era
divenuta
una
caratteristica
importante
della
rete
di
legami
feudali
e
dinastici
non
soltanto
in
Inghilterra,
ma
si
stendeva
sull’Europa
nord-occidentale
coprendo
tutta
la
Cristianità
(Vale,
2001,
p.
84).
L’impiego
della
figura
di
Artù
da
parte
della
Corona
ne
arricchì
marcatamente
il
mito
di
significati
identitari
poiché
perfettamente
si
adattava
alle
necessità
di
legittimazione
dell’autorità
regia.
Per
questo
motivo
il
mito
arturiano
deve
essere
interpretato
come
uno
strumento
di
legittimazione
“creduto”
sia
dai
re
che
dai
loro
sudditi.
Uno
dei
sovrani
inglesi
che
mostrò
grande
ammirazione
verso
il
mito
arturiano
fu
Enrico
II.
Egli
era
molto
sensibile
alla
figura
di
Artù,
fu
infatti
tra
i
principali
promotori
della
ricerca
della
tomba
del
sovrano
identificata
infine
a
Glastonbury
nel
Somerset.
Il
momento
principale
della
storicizzazione
e,
soprattutto,
della
anglicizzazione
del
mito
arturiano
fu
l’esumazione
dei
resti
presunti
dei
corpi
di
Artù
e
Ginevra
presso
l’abbazia
di
Glastonbury
nel
1191.
Questa
strabiliante
scoperta
ebbe
un
forte
significato
sociale
oltre
che
politico;
significava
infatti
assegnare
un’identità
inglese
ad
Artù
il
quale
era
sempre
stato
reclamato
dai
gallesi
con
riferimento
ai
poemi
dei
loro
bardi.
La
prova
che
legava
Glastonbury
ad
Artù
era
la
Vita
Gildae
di
Caradog
di
Llancarvan.
Secondo
quest’opera
infatti
la
città
di
Glastonbury
può
essere
associata
nelle
sue
radici
etimologiche
sia
alla
sovrannaturale
Isola
di
Vetro,
sia
all’Isola
delle
Mele
dove,
anche
secondo
la
Goffredo
di
Monmouth,
Artù
si
era
recato
per
guarire
le
sue
ferite
(Carley,
2001,
p.
48).
Questa
notorietà
però
è il
risultato
di
una
precisa
operazione
di
costruzione
d’immagine.
L’abbazia
era
stata
quasi
distrutta
da
un
incendio
nel
1181
e in
seguito
a
quel
drammatico
evento
aveva
attraversato
un
periodo
di
crisi
finanziaria,
perciò
i
monaci
cercarono
di
ricostruire
il
prestigio
del
loro
capitolo
associandolo
alle
leggende
arturiane
viste
le
assonanze
etimologiche
tra
Glastonbury
e
alcuni
siti
narrati
nei
testi.
E’
proprio
in
conseguenza
di
tale
precisa
operazione
che
Enrico
II
concesse
i
fondi
necessari
alla
costruzione
di
una
nuova
abbazia
e
promosse
gli
scavi
della
tomba.
Al
tempo
stesso
c’era
anche
un’altra
ragione
che
destava
l’interesse
del
sovrano
inglese.
Enrico
II
per
lungo
tempo
era
stato
impegnato
nel
sedare
le
rivolte
gallesi
che
terminarono
definitivamente
nel
1165
quando
finalmente
gli
indomiti
gallesi
lo
riconobbero
come
legittimo
sovrano.
Per
questo
motivo
volle
confermare
il
suo
diritto
alla
corona
inglese
dimostrando
ai
gallesi
così
come
a
tutti
coloro
che
dubitavano
della
legittimità
del
suo
potere
che
il
mitico
re
Artù
era
morto
ed
era
stato
sepolto
in
territorio
inglese.
Enrico
quindi
aveva
uno
scopo
preciso
in
mente:
quello
di
fornire
stabilità
e
autorità
alla
nuova
dinastia
Angioina,
costantemente
minacciata
dai
capetingi
francesi
oltre
il
Canale.
Egli
combinò
addirittura
il
matrimonio
tra
suo
figlio
Goffredo
e la
figlia
del
duca
di
Britannia,
territorio
che,
secondo
la
tradizione,
era
stato
governato
proprio
da
Artù
(Blake,
Lloyd,
2005,
p.
195).
Il
leggendario
sovrano
quindi
appariva
perfetto
per
tali
necessità
di
legittimazione,
era
una
figura
che
ogni
britanno
era
in
grado
di
riconoscere.
Da
una
parte
Artù
concedeva
quindi
autorità
indiretta
al
sovrano,
dall’altra
rafforzava
la
percezione
di
identità
del
popolo
inglese
in
relazione
alla
ricezione
di
quel
passato
mitico
che
lo
stesso
Artù
sintetizzava.
Eppure,
il
sovrano
che
più
di
tutti
cercò
di
amplificare
la
mitologia
arturiana
fu
Edoardo
I.
La
tradizionale
visione
storiografica
del
rapporto
tra
Edoardo
e
Artù
ha
evidenziato
esclusivamente
come
tale
relazione
fosse
dettata
da
un
certo
opportunismo
politico.
Questo
è
certamente
vero,
Edoardo
era
il
re
che
sconfisse
i
gallesi
nel
1277
costringendo
re
Llywelyn
a
prestargli
omaggio
annettendo
infine
il
Galles
nel
1284
a
seguito
dello
Statuto
di
Rhuddlan.
Inoltre
era
stato
protagonista
e
principale
promotore
di
una
lunga
serie
di
campagne
contro
il
regno
di
Scozia.
Per
questo
motivo
Edoardo
sfruttò
Artù
come
mezzo
di
propaganda
per
costruire
la
sua
autorità
e
giustificare
il
suo
dominio
su
Galles
e
Scozia.
Scrisse
una
lettera
a
Bonifacio
VIII
con
la
quale
reclamava
i
suoi
diritti
sul
reame
scozzese
basandosi
sulla
sua
prestigiosa
genealogia
che,
non
a
caso,
aveva
fatto
iniziare
dal
troiano
Bruto
e,
di
conseguenza,
includeva
Artù,
re
dei
britanni.
Oltre
i
vantaggi
politici,
nell’azione
di
Edoardo
era
presente
anche
una
genuina
appropriazione
della
mitologia
arturiana
con
la
consapevolezza
che
questa
era
parte
integrante
del
passato
collettivo
inglese.
Edoardo
associava
esplicitamente
se
stesso
con
Artù,
dichiarandosi
suo
diretto
successore
in
modo
tale
da
perpetuarne
il
mito.
Infatti
promosse
non
solo
un
secondo
scavo
a
Glastonbury
ma
organizzò
anche
numerose
assemblee
cavalleresche
che
imitavano
la
Tavola
Rotonda
durante
le
quali
ai
partecipanti
venivano
attribuiti
nomi
ispirati
ai
cicli
arturiani;
un
esempio
è
proprio
quella
che
Edoardo
tenne
a
Nevyn
nel
1284
(Loomis,
1953,
p.
117).
Il
leggendario
re
quindi
veniva
percepito
come
una
figura
“plausibile”
che
non
soltanto
rappresentava
una
pietra
angolare
della
costruzione
identitaria
inglese
ma
che
permetteva
anche
una
identificazione
psicologica
ai
re
inglesi
stessi.
Nonostante
l’entusiasmo
per
Artù
non
fosse
sempre
costante
tra
i
successivi
re
inglesi,
la
sua
figura
restò
sempre
un
modello
di
comportamento
regale.
Per
esempio
Edoardo
III
propose
una
rifondazione
della
Tavola
Rotonda
arturiana
nel
1344
e fu
un
appassionato
promotore
di
tornei
che
erano
opportunità
per
fare
sfoggio
di
virtù
cavalleresche.
Il
re
in
persona
amava
ostentare
tali
doti,
giunse
addirittura
a
partecipare
in
incognito
al
torneo
che
si
tenne
a
Dunstable
nel
1334
(Vale,
2001,
p.
19).
Inoltre
si
fece
anche
partono
dell’abbazia
di
Glastonbury
visitandola
con
sua
moglie
nel
1331.
Tutte
queste
attività
quindi
non
fecero
altro
che
amplificare
sensibilmente
la
dimensione
simbolica
del
mito
arturiano
e il
suo
ruolo
di
punto
di
riferimento
culturale
per
il
popolo
inglese.
Però
il
significato
attribuito
ad
Artù
era
cambiato.
Ora
il
mitico
sovrano
rappresentava
il
principio
guida
di
valori
eroici,
la
sintesi
delle
virtù
cavalleresche
eera
celebrato
come
il
leader
illuminato
di
una
corte
di
leali
cavalieri.
Era
venuto
meno
dunque
il
riflesso
del
re-guerriero
descritto
nella
Historia
e
nel
Brut
di
Wace
per
far
posto
a
quello
del
sovrano
che
presiedeva
la
Tavola
Rotonda
come
raccontavano
i
romanzi
francesi.
Questa
prospettiva
del
mito
arturiano
caratterizzò
anche
il
tardo
XIV
secolo
che
lo
vedeva
ormai
come
un
elemento
funzionale
alla
finzione
allegorica
che
veniva
ancora
utilizzata
per
reclamare
il
diritto
al
trono.
Enrico
IV
ad
esempio
sfruttò
ancora
una
volta
la
leggenda
arturiana
per
sostenere
il
suo
diritto
alla
corona.
Successivamente,
alla
fine
della
Guerra
delle
Rose,
Enrico
VII
diede”
a
suo
figlio
il
nome
Arthur
non
solo
per
seppellire
definitivamente
le
rivalità
tra
York
e
Lancaster
ma
anche
per
promettere
simbolicamente
all’Inghilterra
un
nuovo
regno
di
pace
“arturiana”.
L’attenzione
dei
re
inglesi
verso
Artù
è
particolarmente
significativa
per
comprendere
l’influenza
del
mito
arturiano
nella
società
inglese.
Egli
infatti
ha
rappresentato
un
mito
che
non
è
stato
immediatamente
parte
della
cultura
inglese
ma
che
è
stato
in
seguito
anglicizzato
per
venire
incontro
alle
necessità
di
costruzione
identitaria
e
legittimazione
di
un
popolo.
È
possibile
quindi
notare
un
graduale
ma
costante
shift
nella
percezione
del
mito
arturiano:
inizialmente
prevalse
la
figura
del
re-guerriero
che
emancipò
l’Inghilterra
e
sconfisse
i
suoi
nemici,
in
seguito
Artù
venne
definito
come
un
sovrano
illuminato
dagli
straordinari
poteri
e
dalle
incrollabili
virtù,
il
primum
inter
pares
in
un
gruppo
di
leali
cavalieri.
Questo
è
avvenuto
a
causa
dei
cambiamenti
degli
scopi
politici
e
delle
necessità
che
la
società
inglese
andava
sviluppando.
Al
tempo
stesso
è
rimasto
sostanzialmente
invariato
l’approccio
della
società
inglese
verso
il
suo
passato
collettivo.
Si è
trattato
infatti
di
una
costruzione
creativa
che
partendo
da
un
elemento
leggendario
dai
contorni
vaghi,
è
giunto
ad
elaborarlo
in
relazione
alle
necessità
della
società
stessa
seguendo
lo
schema
della
“creazione
verosimile”.
Artù
non
era
famoso
solo
tra
i
re,
i
nobili
e i
cavalieri
che
si
ispirarono
a
lui
nella
elaborazione
di
un
codice
cavalleresco.
Egli
era
parte
della
conoscenza
di
tutti
gli
strati
della
società
inglese.
Proprio
per
questa
trasversalità
il
mitico
sovrano
venne
inglobato
anche
nella
dimensione
sacra
come
se
fosse
una
reliquia
naturalmente
appartenente
alla
Chiesa.
Di
conseguenza
si
accrebbe
anche
l’autorevolezza
e il
fascino
che
emanava
su
una
società,
come
quella
dell’Inghilterra
medievale,
così
permeata
dalla
religione.
Alcuni
elementi
della
chiesa
inglese
si
appropriarono
della
mitologia
arturiana
per
assecondare
le
loro
necessità.
Tra
i
più
chiari
esempi
è
proprio
quello
rappresentato
dall’abbazia
di
Glastonbury.
Come
abbiamo
detto
precedentemente,
un
incendio
distrusse
l’abbazia
e i
costi
della
ricostruzione
erano
veramente
proibitivi.
Di
solito
le
comunità
monastiche
rispondevano
ai
periodi
di
crisi
finanziaria
con
l’applicazione
di
operazioni
propagandistiche
che
potessero
attrarre
pellegrini,
soprattutto
attraverso
la
redazione
di
opere
scritte.
I
governatori
normanni
infatti
incentivavano
questi
testi
che
di
solito
avevano
il
compito
di
testimoniare
l’autorevolezza
e la
storia
del
monastero
costruendone
opportunamente
il
passato
(Gransden,
1976,
p.
339).
Ciò
di
cui
i
monaci
di
Glastonbury
avevano
bisogno
dopo
l’incendio
era
infatti
un
patrono
eccezionale,
una
figura
che
potesse
esemplificare
l’identità
dell’abbazia
e al
tempo
stesso
attrarre
pellegrini.
I
modelli
letterari
di
riferimento
erano
da
un
lato
l’agiografia
e
dall’altro
la
letteratura
romanza.
Sfortunatamente,
i
monaci
di
Glastonbury
non
eccellevano
per
il
loro
talento
letterario
per
cui
furono
costretti
ad
abbandonare
il
tentativo
di
scrivere
agiografie
e si
rivolsero
ad
opere
già
scritte
per
sopperire
a
questa
loro
mancanza.
Tra
gli
altri,
anche
William
di
Malmesbury
venne
usato
come
un
vero
e
proprio
propagandista
per
la
ricostruzione
del
passato
di
Glastonbury
(Gransden,
1976,
p.
340).
Non
trovando
figure
di
santi
che
potessero
legittimamente
amplificare
l’autorità
dell’abbazia,
i
monaci
si
rivolsero
verso
la
letteratura
romanza
e
trovarono
nel
mito
arturiano
esattamente
quello
che
cercavano.
Secondo
Gransden
infatti,
l’esumazione
del
1191
fu
totalmente
fittizia:
i
monaci
seppellirono
deliberatamente
due
scheletri
e
inscenarono
la
scoperta
che,
in
effetti,
apparve
troppo
“opportuna”,
viste
le
difficoltà
finanziarie
dell’abbazia.
Ciononostante,
a
prescindere
dalla
genuinità
del
ritrovamento,
è
interessante
chiedersi
perché
scelsero
Artù
come
patrono
del
monastero.
Essenzialmente
i
monaci
di
Glastonbury
intendevano
cristianizzare
il
mito
arturiano.
Questo
evento
illustra
ancora
una
volta
l’autorità
della
figura
di
Artù
nella
società
inglese:
era
così
forte
e
radicata
nel
folklore
della
comunità
che
divenne
persino
uno
strumento
di
auto-identificazione
per
una
istituzione
religiosa.
Infatti
è
partendo
da
questa
assunzione
che,
nella
cornice
di
questo
passato
ristrutturato,
si
venne
a
creare
un
collegamento
tra
Artù
e la
più
sacra
delle
reliquie
cristiane:
il
santo
Graal
(Logorio,
1971,
pp.
209-231).
In
questo
modo
due
figure
dallo
straordinario
potere
evocativo
vennero
unite
insieme:
re
Artù
e
Giuseppe
d’Arimatea,
il
tradizionale
guardiano
della
reliquia
che
custodiva
il
sangue
di
Cristo.
I
monaci
di
Glastonbury
affermarono
che
San
Giuseppe
era
stato
il
fondatore
dell’abbazia
e
questo
quindi
lo
poneva
come
una
sorta
di
predecessore
di
Artù
(Logorio,
1971,
p.
231).
San
Giuseppe
divenne
quindi
il
simbolo
del
cristianesimo
inglese
e
l’abbazia
di
Glastonbury
ottenne
un
tale
prestigio
che
l’abate
Chinnack
sostenne
la
necessità
di
affermare
il
primato
del
santo
sia
tra
gli
inglesi
al
sinodo
nazionale,
sia
presso
sedi
internazionali
come
il
concilio
di
Pisa
(1409)
e
quello
di
Siena
(1424).
Si
realizzò
quindi
una
definitiva
sacralizzazione
del
mito
arturiano
che,
nonostante
fosse
stata
avanzata
per
ragioni
molto
contingenti,
lasciò
un
segno
profondo
nella
mentalità
comune.
Per
mezzo
dei
processi
di
costruzione
della
leggenda
si
venne
a
creare
un’associazione
di
idee
tra
il
Re e
il
Santo:
entrambi
assunsero
significato
come
simboli
della
fede
cristiana
in
Inghilterra
e
divennero
profondamente
influenti
per
l’auto-identificazione
dei
caratteri
fondamentali
della
società.
Il
passato
collettivo
di
una
società
è un
mondo
nel
quale
i
confini
tra
verità
storica
e
leggenda
sono
molto
vaghi.
Per
questo
motivo,
i
membri
della
comunità
vi
si
accostano
come
ad
una
dimensione
flessibile
a
molteplici
esigenze,
sia
quelle
pragmatiche
che
quelle
più
astratte
e
complesse
come
la
comprensione
del
presente
e il
controllo
del
futuro.
Come
scrive
Cubitt,
la
consapevolezza
del
passato
è
comunicata
di
generazione
in
generazione
non
solo
attraverso
la
trasmissione
di
particolari
testi
o
immagini,
ma
anche
attraverso
la
ripetizione
e la
riproduzione
di
particolari
modi
di
organizzare
informazioni
(Cubitt,
2007,
p.
205).
A
rtù
è
stato
uno
dei
dati
sociali
più
importanti,
ha
segnato
profondamente
il
passato
collettivo
britannico.
Infatti
è
divenuto
parte
della
memoria
storica
inglese
non
solo
perché
è
stato
il
protagonista
di
un
fenomeno
letterario
che
si
diffuse
anche
oltre
le
isole
britanniche,
ma
anche
perché
finì
per
essere
il
punto
di
riferimento
di
ogni
pretesa
al
trono
da
parte
dei
sovrani
inglesi.
Inoltre,
il
mitico
re
fu
soggetto
ad
una
cristianizzazione
e
venne
quindi
assimilato
dalla
Chiesa
e
reso
accetto
ancora
più
entusiasticamente
dai
membri
della
società
inglese.
Fuori
da
un’ottica
evenemenziale
tutti
questi
processi
ebbero
luogo
simultaneamente,
erano
legati
l’uno
all’altro
da
un
rapporto
di
consequenzialità.
Allo
stesso
tempo
essi
contribuirono
alla
costruzione
di
una
identità
di
popolo
poiché
influirono,
più
o
meno
direttamente,
sulle
principali
attività
della
gestione
comunitaria
(sovranità,
Chiesa,
cultura,
politica
estera
ecc.).
Alla
luce
di
ciò
è
necessario
interpretare
Artù
come
“eroe
verosimile”
per
comprenderne
la
profondità
d’influenza.
Può
essere
considerato
infatti
il
prodotto
figurativo
usato
più
o
meno
consapevolmente
da
una
società
per
spiegare
se
stessa.
Il
mito
arturiano
infatti
si è
adattato
ai
cambiamenti
culturali
della
comunità,
costruendo
progressivamente
una
parte
significativa
della
memoria
collettiva.
In
conclusione
rappresenta
la
proiezione
di
una
“verità
plausibile”
che
era
percepita
come
vera,
per
questo
motivo
non
veramente
importante
se
fosse
stato
veramente
Storia.
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