N. 59 - Novembre 2012
(XC)
sulla Legge Agraria di Tiberio Gracco
La Versione di Appiano
di Daniele Pangaro
Lo
Stato
Romano,
come
ci
riporta
il
libro
I
delle
Guerre
Civili
di
Appiano,
non
appena
effettuava
la
conquista
militare
di
un
determinato
territorio
lo
suddivideva,
e ne
rendeva
una
parte
Ager
Publicus:
questo
terreno
dello
Stato,
e
quindi
dei
cives
Romani,
veniva
dato
agli
abitanti
delle
nuove
realtà
coloniali
che
si
potevano
creare
a
ridosso
delle
nuove
conquiste
oppure
o
anche
a
chi
si
insediava
in
città
già
esistenti.
La
Repubblica
romana
era
solita
riconoscere
due
tipi
di
giurisdizione
alle
colonie:
erano
propriamente
dette
coloniae
Latinae
(colonie
di
diritto
Latino)
e
coloniae
civium
Romanorum
(colonie
di
diritto
Romano).
Queste
due
realtà
giuridiche
avevano
scopi
comuni
in
origine,
ma
diritti
ed
assegnazioni
di
terra
estremamente
diverse:
se
concordiamo
con
l’ipotesi
che
queste
servissero
all’assolvimento
di
compiti
difensivi
di
territori
e
coste,
si
dovrà
però
notare
che
queste
erano
partecipi
dell’attività
dello
Stato
in
maniera
differente,
ed
usufruivano
dell’Ager
in
parti
non
eguali.
Le
colonie
di
diritto
Latino
godevano
di
parziali
diritti,
ed
avevano
un
quantitativo
di
terra
più
o
meno
uguale
per
tutti
gli
insediamenti
dello
stesso
tipo
giurisdizionale:
giusto
per
citare
qualche
cifra
diciamo
che
a
Thurii,
colonia
Calabrese
dedotta
nel
194
a.C.,
i
3000
pedites
ed i
300
equites
ebbero
come
dotazione
circa
20
iugeri
i
primi,
40
iugeri
i
secondi;
nell’altra
colonia
calabrese
di
Vibo,
dedotta
circa
un
anno
dopo,
i
3700
pedites
e i
300
equites,
ricevettero
rispettivamente
15
iugeri
e 30
iugeri.
Numeri
importanti,
e di
sicuro
maggiori
rispetto
a
quelli
dati
in
dotazione
ai
coloni
Romani,
in
genere
2
iugeri:
ai
non
addetti
ai
lavori
sembrerebbe
che
lo
Stato
romano
favorisse
la
nascita
di
colonie
Latine
e
sfavorire
invece
quelle
di
diritto
Romano,
scoraggiando
quest’ultimo
con
la
magra
dotazione
dei
2
iugeri.
In
realtà,
il
fatto
stesso
di
essere
cittadini
Romani
dava
diritto
di
accesso
a
tutto
l’Ager
Publicus,
potendo
quindi
sfruttare
l’immenso
territorio
frutto
della
conquista.
D’altro
canto,
Roma
non
poteva
occuparsi
di
approvvigionare
le
colonie
Latine,
che
anzi
dovevano
diventare
esse
stesse
fonte
di
reddito
per
lo
Stato
e di
truppe
per
le
legioni:
si
dovevano
creare
le
condizioni
per
la
creazione
di
stati
formalmente
autonomi,
favorendo
lo
sviluppo
in
loco
di
grandi
realtà
economiche
molto
redditizie,
laddove
nelle
colonie
Romane
vi
era
il
modello
agrario-sociale
della
piccola
azienda
unifamiliare.
La
deduzione
delle
colonie,
sia
Romane
che
Latine,
doveva
seguire
un
iter
preciso
e
prestabilito,
occorrevano
cioè
le
giuste
formule
giuridiche
recitate
dagli
attori
giuridici
preposti:
in
origine
ogni
nuova
colonia
veniva
avallata
con
un
senatoconsulto;
se
consideriamo
il
fatto
che
con
tale
termine
indichiamo
quella
delibera
fatta
dal
Senato
in
un
momento
di
emergenza,
con
cui
dava
ordine
perentorio
ai
Consoli
di
eseguire
gli
ordini
della
Repubblica
a
qualsiasi
costo,
e se
prendiamo
in
esempio
quello
contro
i
Baccanali
e
quello
ultimum
che
portò
Mario
ad
intervenire
contro
i
suoi
tirapiedi
Glaucia
e
Saturnino,
si
ha
l’impressione
che
il
fondare
colonie
fosse,
almeno
nei
primi
momenti,
una
procedura
straordinaria,
forzata
e
mal
voluta
dall’élite
Romana.
Il
decreto
stabiliva
la
natura
giuridica
della
colonia
(Romana
o
Latina)
e il
numero
dei
coloni
che
vi
si
dovevano
recare;
in
seguito
i
comizi
tributi
eleggevano
tre
commissari
incaricati
della
deduzione
coloniale.
Questi
Triumviri
coloniae
deducendae
agroque
dividundo
si
occupavano
di
pianificare
l’impianto
urbano,
di
stabilire
i
confini
della
colonia,
di
preparare
la
costituzione
della
nuova
comunità
e
infine
reclutavano
i
coloni.
La
costituzione
ne
definiva
la
religiosità,
l’ambito
delle
cerimonie,
ne
assicurava
la
legge,
l’ordine
e
l’amministrazione
della
giustizia,
oltre
che
specificare
i
magistrati
locali
e la
loro
modalità
di
elezione.
Ma
prima
di
ciò,
i
triumviri
dovevano
suddividere
il
territorio
destinato
ai
nuovi
coloni.
Da
questa
suddivisione
venivano
escluse
le
terre
viritane,
l’Ager
Compascuus,
le
Occupatorus,
l’Ager
Publicus
Stipendiorus
datus
adsignandus
(lasciato
al
medesimo
titolo
agli
antichi
proprietari),
l’Ager
Publicus
a
Censoribus
locatus
e
l’Ager
Quaestorius.
Il
territorio
veniva
diviso
secondo
un
reticolato
di
quadrati,
che
misuravano
circa
20
actus
(710
metri)
per
ogni
lato,
coprendo
una
superficie
totale
di
200
iugeri:
questi
quadrati
presero
il
nome
di
centurie,
da
cui
la
definizione
di
centuriazione
del
territorio.
Si
prendeva
come
punto
di
riferimento
l’Est,
un
elemento
naturale,
e si
tracciava
una
linea
verso
Ovest:
questa
prendeva
nome
di
Decumanus
Maximus;
perpendicolarmente
si
tracciava
una
seconda
linea,
il
Kardo
Maximus,
della
stessa
lunghezza
(asse
Nord-Sud).
Di
norma,
il
Decumanus
Maximus
corrispondeva
alla
strada
principale,
ed
era
più
largo
rispetto
al
Kardo
Maximus,
considerato
come
strada
di
livello
inferiore.
In
seguito,
si
tracciavano
altri
Decumani
ed
altri
Kardines
paralleli
a
quelli
principali,
in
modo
da
formare
un
reticolato
di
quadrati
(la
centuriazione).
Volendo
rifarci
alle
fonti,
Varrone
nel
De
Re
Rustica
ci
dà
informazioni
preziosissime
a
riguardo
dei
sistemi
di
misurazione
Romane:
l’unità
fondamentale
era
il
giogo,
che
in
Campania
era
definito
“verso”,
mentre
presso
i
Romani
e
nel
Lazio
era
chiamato
“iugera”;
1
giogo
(o
iugera)
era
l’estensione
di
terreno
che
una
coppia
di
buoi
poteva
arare
in
un
giorno.
Uno
iugera
corrispondeva
a 2
actus
quadrati:
1
actus
era
uguale
a
120
piedi
in
lunghezza
e
larghezza;
2
iugeri
formavano
un
heredium,
un
estensione
di
terra
che
si
vuole
sia
stato
per
la
prima
volta
distribuito
da
Romolo;
100
heredia
costituivano
una
centuria,
che
era
un’area
di
forma
quadrata
con
lato
di
2400
piedi.
Le
centurie
erano
disposte
in
modo
che
ce
ne
siano
2
per
ogni
lato,
formando
il
saltus.
L’affidamento
ai
coloni
veniva
definito
tramite
un
sorteggio
tra
gli
aventi
diritto,
e
perciò
il
nome
sors
degli
appezzamenti
di
terreno
dati
a
questi.
Non
sempre
il
Decumanus
Maximus
era
orientato
nella
direzione
Est-Ovest,
ma
poteva
essere
anche
Nord-Sud:
in
questo
caso
si
dirà
che
la
centuriazione
sarà
rivolta
verso
Sud,
quindi
in
Meridiem.
Questo
orientamento
fu
eseguito
a
Cosenza,
dove
si è
riscontrata
una
centuriazione
rettangolare
di
200
iugera
sulla
sinistra
del
fiume
Crati
orientata,
appunto,
in
Meridiem,
ovvero
verso
Sud.
Le
colonie
avevano
molteplici
scopi:
avamposto
di
difesa
delle
coste
e di
controllo
interno
del
territorio,
ma
potevano
essere
un’eventuale
testa
di
ponte
per
un
futuro
avanzamento
nella
conquista
in
un
determinato
scenario
ostile,
come
anche
semplice
sfogo
demografico
di
una
popolazione
in
esubero.
L’attività
coloniaria
fu,
come
ci
dice
Velleio
Patercolo,
particolarmente
attiva
a
partire
dal
383
a.C.,
diffondendo
la
colonizzazione
nelle
regioni
limitrofe
del
Lazio,
per
poi
arrestarsi
nel
periodo
di
tempo
tra
il
218
ed
il
203
a.C.,
arco
di
tempo
in
cui
Annibale
restò
in
Italia;
l’attività
coloniale
riprese,
almeno
in
apparenza,
nel
197
a.C.,
con
la
fondazione
delle
coloniae
maritimae
lungo
l’Italia
meridionale
tirrenica,
continuando
poi
negli
anni
del
secondo
Tribunato
di
Caio
Gracco
con
le
colonie
di
Scolacium
Minervorum,
Tarentium
Neptunia
e
Cartagine,
prima
colonia
extra-italica,
consacrata
a
Giunone
(Carthago
Iunionia).
Nell’età
dei
Gracchi,
a
differenza
di
quanto
fossero
stati
negli
anni
precedenti,
le
colonie
si
distinsero
per
il
ruolo
economico
e
sociale
che
andavano
rivestendo,
ovvero
si
rivelarono
un
mezzo
potente
per
risollevare
le
condizioni
agricole
nella
penisola
italiana,
oltre
che
provvedere
al
bisogno
delle
masse
di
veterani.
Tiberio
Gracco
e la
sua
“vecchia”
legge
Nel
primo
dei
cinque
libri
delle
Guerre
Civili,
il
tredicesimo
dei
ventiquattro
che
compongono
la
Rwmaica’
(Romaikà)
di
Appiano
ci
viene
mostrata,
sullo
sfondo
di
una
tensione
via
via
crescendo
tra
alcuni
personaggi,
i
più
illuminati
del
tempo,
e i
rappresentanti
dello
Stato,
tanto
gelosi
del
proprio
potere
quanto
impauriti
nel
perderlo:
questa
situazione
sfocerà
in
contrasti
dapprima
sul
piano
politico-legale
ma
successivamente
in
ripetuti
massacri,
conseguente
poi
ad
una
situazione
terriera
difficile,
che
schiacciava
il
cives
o
l’italico
proprietari
di
piccoli
appezzamenti
di
terra,
mentre
ingrassava
il
patrimonio
fondiario
dei
grandi
possidenti
terrieri.
Da
quello
che
apprendiamo
dal
testo
di
Appiano,
la
terra
presa
da
Roma
veniva,
quando
non
assegnata
per
le
deduzioni
coloniali,
venduta
o
affittata.
I
Romani
erano
soliti
distinguere
le
terre
conquistate,
denominandole
in
maniera
differente
a
seconda
dell’utilizzatore
finale:
l’Ager
Colonicus
era
dedicato
alla
fondazione
di
colonie;
l’Ager
Viritanus
datus
Adsignatus,
ovvero
assegnazioni
viritane,
date
ai
singoli
cittadini;
con
Ager
Compascuus
Scripturarius
si
denominava
la
parte
comune
di
terreno
lasciata
al
pascolo;
infine
l’Ager
Occupatorus
o
Arcifinalis,
che
era
appannaggio
esclusivo
dei
cittadini
Romani,
pagando
però
un
canone
all’erario.
Sull’Ager
Viritanus
ci
sarebbe
da
dire
un
altro
aspetto
molto
importante,
ovvero
quello
sociale.
Queste
assegnazioni
sono
fatte
a
favore
dei
poveri
e
dei
veterani,
e
quindi
con
lo
scopo
di
aiutare
la
plebe,
oltre
che
di
eliminare
i
latifondi
frazionando
i
terreni.
Le
assegnazioni
viritane
erano
sempre
in
minore
quantità
rispetto
alle
altre
tipologie
per
l’ovvio
motivo
di
non
poter
ricavare
da
queste
terre
del
denaro
da
parte
dello
Stato:
ma
dai
Gracchi
in
poi,
questa
tendenza
cambiò,
grazie
alla
formulazione
di
leggi
agrarie
e
dalle
entrate
fiscali
delle
provincie.
In
Appiano
vi è
citato
Ager
Publicus
detto
Quaestorius:
era
detto
così
perché
era
il
Questore
a
decidere
della
vendita
di
un
determinato
appezzamento
di
terra;
la
proprietà
restava
comunque
allo
Stato,
ma
venivano
garantiti
a
chi
lo
comprava
alcuni
diritti,
tra
i
quali
l’ereditarietà
ed
il
possesso
perpetuo.
Il
terreno
dello
Stato
che
si
poteva
affittare
prendeva
invece
il
nome
di
Ager
Censorius
poiché
erano
i
Censori,
tramite
una
sorta
di
gara
d’appalto,
ad
affittare
la
terra
che
poteva
produrre
il
più
alto
tasso
di
rendita,
e
quindi
di
vectigalia.
Inoltre,
la
terra
non
assegnata
veniva
affidata,
tramite
un
editto,
a
chiunque
volesse
coltivarla,
dietro
un
pagamento
annuo
che
poteva
essere
un
decimo
per
quanto
riguardava
il
seminato,
e di
un
quinto
per
le
culture
arboree.
Appiano
nell’affermare
questo
ci
mostra
anche
la
notizia
che
terra
incolta
non
era
stata
assegnata
per
mancanza
di
tempo,
e
che
quindi
era
possibile
usufruirne
nel
frattempo:
di
sicuro
questi
terreni
non
erano
molto
produttivi
vista
la
lentezza
dell’assegnazione,
ma
considerando
anche
la
durata
dell’incarico
dei
Triumviri,
ovvero
triennale,
per
compiere
i
loro
compiti
di
rilevazione
e
divisione
dell’agro,
il
dato
dello
storico
alessandrino
potrebbe
restituirci
un
dato
negativo
in
quanto
mostrerebbe
la
mancanza
di
cives
Romani
e
latini
volenterosi
di
nuove
terre,
laddove
non
mancavano
quelle
popolazioni
italiche
a
cui
veniva
sottratto
il
terreno
stesso;
inoltre
ai
coloni
veniva
assegnato
un
terreno
in
buone
condizioni,
con
strutture
preesistenti,
pronte
per
la
produzione.
I
ricchi
imperversavano,
prendendo
per
se
la
terra
incolta
che
invece
“spettava”
agli
italici,
acquistando
i
terreni
oppure
offrendo
dei
canoni
maggiori
allo
Stato:
si
rafforzava
il
ceto
dei
grandi
possidenti
terrieri
a
discapito
dei
piccoli
proprietari,
diventati
capitecensi
e
quindi
scesi
in
fondo
all’ordinamento
censitario.
Si
ricorse
alle
disposizioni
di
legge,
limitando
a
500
iugeri
il
terreno
usufruibile
per
ogni
cives
Romano,
né
di
poter
pascolare
più
di
100
capi
di
bestiame
grosso
o
500
di
minuto.
Ci
si
avvalse
anche
di
un
giuramento
per
vincolare
tutti
a
rispettare
le
disposizioni
dando,
per
un
determinato
arco
di
tempo,
respiro
ai
‘nuovi
poveri’,
che
poterono
restare
sulle
loro
terre
pagando
l’affitto
stabilito
e
coltivare
il
lotto
assegnato
loro
fin
dall’inizio.
In
seguito,
mancando
forse
un
organo
di
controllo
o
perché
coloro
che
erano
preposti
a
farlo
erano
i
maggiori
detrattori
della
legge,
tutto
ritornò
ad
una
situazione
di
caos,
con
i
ricchi
che
spadroneggiavano
sulle
terre
dello
Stato
e
che,
servendosi
di
prestanome
compiacenti,
si
fecero
intestare
gli
affitti
di
altre
terre,
per
poi
impossessarsene
in
maniera
definitiva,
lasciando
così
la
penisola
italiana
piena
sia
di
poveri
non
volenterosi
di
prestar
servizio
militare
e di
crescere
figli,
sia
di
schiavi
impiegati
nelle
enormi
estensioni
di
terra.
Sullo
sfondo
di
questo
scenario
scompaginato
fece
il
suo
ingresso
Tiberio
Sempronio
Gracco
che
intendeva,
grazie
alla
sua
riforma,
dare
nuovo
respiro
alle
masse
di
poveri
cacciati
con
la
forza
dalle
loro
terre,
e
quindi
nuova
linfa
al
nerbo
costituente
della
più
grande
ricchezza
di
Roma,
il
suo
esercito.
Egli
era
uomo
nobile
e
ambiziosissimo,
di
grande
potenza
nel
parlare,
con
un’oratoria
che
avrebbe
potuto
far
apparire
bella
anche
una
causa
meno
nobile:
fece
una
serie
di
discorsi,
in
cui
ebbe
parole
di
preoccupazione
verso
quella
stirpe
italica
che
tanto
aveva
dato
a
Roma,
e
che
rischiava
di
esaurirsi
a
causa
della
povertà
e
della
scarsezza
demografica;
inoltre
inveì
contro
gli
schiavi,
inutili
per
la
milizia
e
giammai
fedeli
ai
padroni.
Così
il
tributo
Tiberio
Gracco
propose
di
rinnovare
la
legge
che
vietava
di
occupare
oltre
500
iugeri
di
Ager
Publicus,
con
l’aggiunta
di
una
clausola
che
consentiva,
ai
figli
degli
occupanti,
di
avere
250
iugeri
a
testa,
per
un
totale
di
1000
iugeri
come
possesso
permanente
e
garantito:
la
terra
che
avanzava
da
questa
riorganizzazione
sarebbe
stata
riassegnata
tra
i
poveri
tramite
l’istituzione
di
una
commissione
di
tre
uomini,
un
Triumvirato
agrario.
L’esubero
di
terra,
quella
occupata
ed
usufruita
senza
un
pagamento
di
canone
verso
i
detentori,
sarebbe
stata
incamerata
e
successivamente
suddivisa
in
lotti
di
30
iugeri
da
distribuire
parte
ai
cives
Romani,
parte
agli
italici
non
come
libera
proprietà,
ma
come
concessione
ereditaria
ed
inalienabile.
Il
primo
di
questi
Triumvirati
agrari
fu
composto
da
Tiberio
Gracco,
da
suo
fratello
Caio
e
dal
suocero
del
primo
Appio
Claudio:
essi
furono
incaricati
dell’incameramento
e
dell’assegnazione
della
terra
in
esubero,
ma
successivamente
ebbero
affidata
l’importante
e
difficile
mansione
di
indicare
legalmente
le
terre
demaniali
e
quelle
di
proprietà
privata,
compito
che
prima
spettava
solo
ai
Censori,
a
Consoli
e
Pretori;
Velleio
Patercolo
ci
riporta
inoltre
la
notizia
che
tale
Triumvirato
fondava
colonie.
Plutarco
nelle
Vite
dei
Gracchi
ci
dice
che
il
lavoro
di
Tiberio,
e
quindi
della
commissione
Triumvirale,
poté
procedere
con
calma
poiché
non
vi
furono
opposizioni:
si
può
intendere
calma
nell’accezione
di
un
lavoro
immenso,
ossia
la
ricognizione
di
tutto
l’Ager
Publicus,
e di
conseguenza
la
demarcazione
dei
confini
delle
singole
proprietà.
Le
assegnazioni
non
potevano
essere
fatte
immediatamente
dopo
l’approvazione
della
legge:
alcuni
soggetti
potevano
dimostrarsi
restii
a
cedere
il
surplus
di
terra,
altri
invece
avere
rimostranze
a
causa
di
assegnazione
di
terre
non
coltivabili.
Si
ritiene
infatti
che
le
assegnazioni
siano
state
effettuate
non
prima
del
131
a.C.,
e da
questo
deduciamo
che
la
partecipazione
di
Tiberio
Gracco
sia
stata
solo
all’inizio
della
parte
preparatoria,
ovvero
non
abbia
partecipato
all’attività
triumvirale.
Si
aggiunga
inoltre
che
tra
il
132
ed
il
131
a.C.
si
svilupperà
un’intensa
attività
reazionaria
anti-Graccana.
Come
ultimo
esempio
del
pensiero
politico-economico
di
Tiberio
Gracco,
cioè
la
sua
propensione
alla
questione
della
terra,
riportiamo
l’episodio
del
Re
Attalo
III
di
Pergamo,
morto
nel
133
a.C.,
e
del
suo
testamento,
in
cui
nominava
il
popolo
di
Roma
erede
del
suo
regno.
Tiberio
Gracco
propose
una
legge
a
favore
del
popolo,
in
base
alla
quale
le
ricchezze
regali,
trasportate
a
Roma,
sarebbero
state
distribuite
ai
cittadini
beneficiari
della
terra
estratta
in
sorte,
affinché
potessero
procurarsi
gli
attrezzi
necessari
alla
coltivazione.
Questo
gesto,
insieme
allo
schierarsi
a
favore
della
plebe
rurale
e
alla
deposizione
illegale
del
Tribuno
Ottavio
lo
portò
ad
inimicarsi
il
Senato:
fu
un
punto
di
non
ritorno
per
la
politica
e la
vita
del
Gracco,
che
perì
poco
dopo
insieme
a
300
dei
suoi,
accusato
di
aver
violato
la
santità
del
suo
collega
Ottavio.
Tiberio
Sempronio
Gracco,
che
secondo
Appiano
fu
ucciso
per
colpa
del
suo
programma,
ottimo
ma
attuato
con
la
violenza,
per
Velleio
Patercolo
propose
leggi
che
suscitarono
in
tutti
intempestive
cupidigie:
egli
sovvertì
qualsiasi
norma
e
trascinò
lo
Stato
a
rischi
precipitosi
e
gravi
anche
se,
a
distanza
di
poche
righe
dice
che
si
distinse
come
oratore
insieme
al
fratello
Caio,
dicendo
inoltre
che
entrambi
usarono
malamente
le
loto
ottime
qualità.
Egli
propose
non
nuove
leggi,
ma
rinnovò
semplicemente
quelle
che
appartenevano
ad
un
momento
storico-politico
in
cui
non
sentiva
il
bisogno
di
proiettarsi
verso
la
conquista
mediterranea,
ma
di
considerarsi
Polis,
con
soldati-contadini
auto-sufficienti
che
combattevano
per
la
città,
ma
che
ritornavano
al
momento
della
raccolta.
Nel
momento
storico
in
cui
Tiberio
fece
il
suo
lavoro,
Roma
si
considera
potenza
mondiale,
combatte
e
conquista
fuori
dai
confini
fisici
della
penisola
italiana,
comportando
quindi
lunghi
periodi
di
permanenza
lontano
dalla
fonte
di
ricchezza
primaria,
ovvero
la
terra.
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