N. 79 - Luglio 2014
(CX)
RIFLESSIONI SuLLa LEGA NORD
UN PARTITO NOSTALGICO DELLA PRIMA REPUBBLICA
di Pasquale Nava
“La
nostra
è
una
battaglia
politica
senza
mezzi
termini,
non
a
favore
di
questa
o di
quella
classe
sociale,
ma
dell’intero
popolo
lombardo
che
ha
il
comune
interesse
di
liberarsi
dall’intollerabile
e
vorace
egemonia
romana”
–
così
Umberto
Bossi,
nelle
pagine
di
Lombardia
Autonomista
(organo
ufficiale
della
Lega
Lombarda),
tratteggia
nel
1982
le
idee
ispiratrici
di
una
schematica
rivisitazione
della
storia
italiana.
Ivi,
è
infatti
apodittica
l’aspra
ricusazione
del
Risorgimento,
dei
suoi
eroi
e
del
modello
di
Stato
da
essi
patrocinato.
O
meglio,
di
quella
partitocrazia
postbellica
dissipatrice
del
denaro
padano.
È
consequenziale,
pertanto,
il
reindirizzo
delle
attenzioni
del
neonato
movimento
verso
tematiche
inusitate,
abbozzate
anch’esse
nel
primo
programma
politico
della
storia
della
Lega,
pubblicato
sempre
su
“Lombardia
Autonomista”:
1.
autogoverno
della
Lombardia,
con
uno
Stato
federale
rispettoso
di
tutti
i
popoli
che
lo
costituiscono;
2.
riaffermazione
della
cultura,
storia
e
lingua
lombarda
e
dei
valori
sociali
e
morali
del
territorio,
contro
ogni
attentato
all’identità
nazionale
lombarda.
Accanto
al
tricolore,
è
infatti
proposta
l’esposizione
della
bandiera
storica
della
nazione
lombarda
(croce
rossa
su
fondo
bianco);
3.
precedenza
ai
lombardi
nell’assegnazione
di
lavoro,
abitazioni,
assistenza,
contributi
finanziari.
Rispetto,
in
sostanza,
del
principio
per
cui
ogni
tassazione
è
eguale
per
tutte
le
regioni,
con
l’evitazione
di
truffe
come
quella
del
“condono”
e
dei
“ticket”
sui
medicinali
(che
al
sud
costano
la
metà
che
in
Lombardia);
4.
controllo
e
gestione
dei
frutti
del
lavoro
e
delle
tasse
da
parte
dei
lombardi,
attraverso
l’organizzazione
di
un
sistema
finanziario
simile
a
quello
in
via
di
attuazione
nel
Trentino
e
nel
Sud
Tirolo;
5.
apologia
di
un
proporzionato
sviluppo
di
industria,
artigianato
e
agricoltura
(patrimonio
di
lavoro
e di
civiltà
inalienabile
del
popolo
lombardo);
6.
sistema
pensionistico
garante
dell’intoccabilità
delle
quiescenze
dei
lavoratori
lombardi,
minacciate
dai
numerosi
ammortizzatori
di
invalidità
distribuiti
nel
meridione;
7.
affidamento
della
gestione
dell’amministrazione
pubblica
e
della
scuola
direttamente
ai
lombardi
(per
evitate
una
loro
snaturalizzazione);
8.
attuazione
di
un
sistema
di
arruolamento
speculare
a
quello
del
Sud
Tirolo.
9.
dotazione
alla
giustizia
lombarda
di
efficaci
ed
adeguati
strumenti
contro
la
delinquenza,
le
mafie
ed
il
racket.
10.
campagna
contro
la
devastazione
e la
svendita
del
territorio
(plasmato
e
difeso
dalle
generazioni
precedenti),
in
modo
da
trasmetterlo
integro
alle
prossime
generazioni.
11.
battaglia
contro
la
mentalità
opportunistica
dei
partiti
romani,
causa
della
progressiva
degradazione
della
Lombardia.
12.
costruzione
di
un’Europa
fondata
su
autonomia,
federalismo,
rispetto
e
solidarietà
diretta
tra
tutti
i
popoli
(e
quindi
tra
i
lombardi
ed
ogni
altro
popolo).
“Non
importa
–
asserisce
inoltre
Bossi
nel
giorno
di
inaugurazione
della
Lega
Autonomista
Lombarda
nel
1982
–
che
età
abbiate,
che
lavoro
facciate,
di
che
tendenza
politica
siate:
quello
che
importa
è
che
siate
tutti
lombardi.
Questo
è il
fatto
realmente
importante.
È
giunto
il
momento
di
ricordare
dandogli
una
concretezza
politica.
È
come
lombardi,
infatti,
che
abbiamo
tutti
un
fondamentale
interesse
comune,
di
fronte
al
quale
devono
cadere
in
sottordine
i
motivi
della
nostra
divisione
in
partiti
di
ogni
colore:
partiti
italiani
che
ci
strumentalizzano
e
distolgono
il
nostro
impegno
dalla
difesa
dei
nostri
interessi,
per
servire
quelli
altrui
(e
il
loro,
prima
di
tutti).
Questo
nostro
fondamentale
interesse
comune
è la
liberazione
della
Lombardia
dalla
vorace
e
soffocante
egemonia
del
governo
centralista
di
Roma,
attraverso
l’autonomia
Lombarda
nel
più
vasto
contesto
dell’autonomia
padano-alpina”.
Uno
dei
cliché
del
periodo
ottantottista
è
non
a
caso
la
dimensione
pre-indipendentistica
della
bossismo,
ancora
avulsa
dalle
susseguenti
dinamiche
separatiste.
Ai
suoi
albori,
infatti,
il
fenomeno
delle
Leghe
si
colloca
nell’alveo
della
tradizione
politica
dell’autonomismo
italiano:
ossia
di
quella
di
Union
Valdotaine,
SudtirolerVolkspartei,
Partito
sardo
d’Azione,
Movimento
autonomo
regionale
piemontese
e
così
via.
“In
un
certo
senso
–
sottolinea
peraltro
Ilvo
Diamanti
– il
leghismo
delle
origini
non
è
altro
che
l’estensione
alle
regioni
a
statuto
ordinario
delle
spinte
autonomiste
da
sempre
presenti
nelle
regioni
a
statuto
speciale.
Esse
esprimono
rivendicazioni
ispirate
all’autonomia
territoriale
e
all’antagonismo
verso
il
sistema
politico
tradizionale”,
evidenziabili
anche
nel
regionalismo
della
Liga
veneta
di
Rocchetta
e
dell’Arnassita
Piemonteisa
di
Roberto
Gremmo.
L’anno
della
svolta
è
allora
il
1987,
quando
per
le
politiche
Bossi
coagula
in
un’unitaria
formazione
politica
(la
Lega)
i
diversi
soggetti
autonomisti
del
settentrione:
l’Union
ligure
di
Bruno
Ravera,
la
Lega
emiliano-romagnola,
l’Alleanza
toscana
di
Tommaso
Fragassi,
la
Liga
Veneta
di
Franco
Rocchetta
ed
il
Piemonte
autonomista
di
Gipo
Farrassino.
L’incorporazione
della
altre
macroregioni
(Piemonte,
Lombardia
e
Veneto)
ha
così
successo
(il
partito
raccoglie
il
4%
nazionale)
e
due
rappresentanti
vengono
inviati
nella
Capitale:
uno
alla
camera
(Giuseppe
Leoni)
ed
l’altro
al
Senato
(Umberto
Bossi).
Il
1987
rappresenta
quindi
un
vero
e
proprio
cambio
di
marcia
per
il
movimento:
esso
deve
ora
assecondare
l’antistatalismo
(a
detrimento
dell’originario
etno-regionalismo),
politicizzare
l’antimeridionalismo,
criticare
ufficialmente
l’assistenzialismo
e
difendere
gli
interessi
del
Nord
contro
gli
sprechi
e le
inefficienze
dello
Stato
accentratore.
Il
ganghero
del
leghismo
rimane
certamente
la
sua
base
geografica,
ma
la
sua
protesta
travalica
le
porte
delle
valli
padane
e si
inoltra
nelle
stesse
fondamenta
di
“Roma
ladrona”.
E lo
fa
con
le
stesse
strategie
di
un
kamikaze
che
desidera
solo
una
cosa:
ovvero
vedere
il
nemico
implodere
dal
di
dentro
delle
mura
amiche.
Quello
del
Carroccio,
pertanto,
è un
terrorismo
legalizzato
entro
le
pareti
di
Montecitorio
e di
Palazzo
Madama,
atto
alla
proliferazione
del
timore
di
una
frammentazione
dell’unità
italiana
ed
al
sospingimento
della
communis
opinio
verso
la
necessità
di
uno
Stato
federale
(in
vista
del
traguardo
dell’indipendenza
padana).”Questi
primi
nuclei
leghisti
–
spiega
infatti
Simona
Colarizi
–
sono
insediati
nelle
regioni
italiane
ove
il
tenore
di
vita
della
popolazione
è
ormai
tra
i
più
alti
di
tutta
Europa.
Qui,
malgrado
la
maggiore
efficienza
delle
amministrazioni
periferiche,
la
crisi
del
sistema
nazionale
si
manifesta
in
corruzione,
sprechi,
disservizi
e
ritardi
che
rischiano
di
ostacolare
lo
stesso
sviluppo
del
tessuto
economico,
dotato
di
forti
potenzialità
produttive”.
Potenzialità
soffocate
dalla
parassitismo
antiprogressista
del
Meridione,
secondo
il
motto
“Si
fa,
ma
si
deve
fare
meglio”
(oppure
“non
si
fa
per
come
si
potrebbe”).
La
Lega,
in
altre
parole,
percepisce
con
qualche
anno
di
anticipo
il
tilt
della
dialettica
Usa/Urss,
ponendosi
come
il
campione
dell’antipolitica
tradizionale.
Non
attorno
infatti
ad
un
riferimento
cetuale,
né
attorno
ad
un
polo
internazionale
promanano
i
suoi
dettami
ideologici.
Al
contrario,
essi
sbocciano
come
un
fiore
divenuto,
nel
giardino
della
politica,
il
più
bello.
Gli
altri
si
sono
difatti
appassiti,
si
sono
avvizziti
per
l’incompatibilità
con
questo
brolo
prima
loro
consustanziale,
adesso
trasfiguratosi
per
l’evanescenza
di
quei
giardinieri
che
lo
avevano
curato
(l’Urss
su
tutti).
Ma
questo
rinnovato
Eden
politico
di
fine
anni
Ottanta
non
intende
in
realtà
assumere
nuovi
giardinieri,
fruitori
di
metodi
e
strumenti
di
coltivazione
di
nuova
generazione.
Si
esigono
al
contrario
giardinieri
di
vecchia
scuola,
perpetuatori
delle
medesime
tecniche
dei
predecessori.
La
Lega,
insomma,
non
germoglia
con
l’auspicio
di
una
nuova
politica,
bensì
di
una
continuazione
di
quella
precedente.
Si
teme
perciò
una
marginalizzazione
degli
interessi
del
popolo
settentrionale,
a
causa
dell’imminenza
di
questa
transizione
post-sovietico.
Il
comunismo
è
infatti
oramai
sconfitto
e
gli
Stati
Uniti
non
inviano
più
i
sostentamenti
economici
a
favore
del
blocco
capitalistico,
aprendo
le
porte
alla
pubblicizzazione
del
debito
pubblico.
“Fino
a
quando
lo
Stato
–
conferma
non
a
caso
Simona
Colarizi
– ha
assicurato
un
flusso
costante
di
finanziamenti,
un’assistenza
in
grado
di
ammortizzare
le
tensioni
sociali
ed
una
politica
fiscale
oltremodo
tollerante
e
garante
di
alti
margini
di
profitto,
la
progressiva
paralisi
ed
il
degrado
della
partitocrazia
hanno
suscitato
solo
malumori.
La
voragine
aperta
nelle
casse
dello
Stato,
annunciatrice
della
fine
del
lassismo,
fa
scattare
l’allarme:
il
costo
dei
partiti
supera
i
benefici
e le
disfunzioni
della
macchina
pubblica
minacciano
il
benessere
del
Nord”.
Minacciano
quell’euritmia
sociale
ed
economica,
celatamente
assecondata
e
finanziata
da
quel
sistema,
ora
coattamente
proiettata
ad
una
restrizione
dei
favoritismi
e
degli
opportunismi
a
beneficio
dell’amministrazione
padana.
Essa,
adesso,
intende
mettersi
in
proprio,
attraverso
un
attivismo
inusitato
nelle
forme
e
negli
attori
in
gioco.
Una
forma,
secondo
alcuni,
di
impronta
qualunquista,
in
continuità
col
disegno
percorso
da
Giannini
nel
periodo
postbellico.
“Il
paragone
però
non
calza
–
evidenzia
Simona
Colarizi
–
anzi,
risulta
deviante
e
ritarda
la
comprensione
di
quanto
si
sta
sviluppando
non
del
Sud
spoliticizzato
del
dopoguerra,
ma
nel
Settentrione
dagli
anni
Ottanta
in
poi,
regione
a
pieno
titolo
europea,
motore
economico
della
nazione,
con
tradizioni
politiche
consolidate”.
Si
tratta
effettivamente
di
un’area
preservata
da
atteggiamenti
anticostituzionali
ed
extralegali,
sprovvista
di
sentimenti
antiplutocratici.
“Ad
ingrossare
le
file
delle
leghe
–
testimonia
allora
la
professoressa
modenese
–
sono
soprattutto
i
ceti
medi,
commercianti,
piccoli
imprenditori,
lavoratori
autonomi,
impiegati,
cioè
quelle
classi
sociali
tradizionalmente
d’ordine,
moderate
nelle
loro
scelte
politiche,
in
genere
a
favore
dei
partiti
di
governo,
in
primis
della
Dc.
Una
mobilitazione
di
questo
tipo
è
una
novità
nella
storia
italiana,
dove
i
fermenti
di
contestazione
hanno
sempre
interessato
le
masse
operaie
e
contadini,
i
giovani,
il
sottoproletario
e
complessivamente
le
popolazioni
del
Sud
povero
ed
arretrato”.
È di
conseguenza
sottolineabile
un
elemento:
per
la
prima
volta,
nella
storia
del
nostro
Paese,
protesta
e
degrado
socio-economico
non
collimano.
Anzi,
essi
si
divaricano
e
percorrono
sentieri
opposti:
la
prima
impregna
una
mobilitazione
verso
il
raggiungimento
leghista
della
plutocrazia
europea;
il
secondo,
invece,
si
inabissa
nei
fondali
del
parassitismo
e
del
razzismo
socio-economico,
concretatisi,
ora,
in
un
decennale
clientelarismo
rimpolpato
dallo
sperpero
dell’erario
statale,
ora
nello
slogan
di
un
meridione
ricettacolo
dei
finanziamenti
a
pioggia
di
Roma
(e
teoricamente
mantenuto
dal
surplus
prodotto
dalla
laboriosità
dei
settentrionali).
Esso
produce
infatti
un
sentimento
di
revanche
verso
chi
esonda
geograficamente
il
letto
del
Po,
“un
sentimento
–
rivela
Simona
Colarizi
– di
forte
appartenenza
al
territorio,
che
spinge
i
militanti
delle
leghe
a
rifiutare
ed a
combattere
chi
viene
visto
come
estraneo
a
norme,
regole
e
stili
di
vita
del
proprio
luogo,
non
importa
se
di
nascita
o
meno.
Per
comprendere,
basta
ricordare
l’ostilità
verso
i
meridionali
appena
arrivati
al
Nord
negli
anni
Cinquanta
e
Sessanta.
Un’ostilità
scomparsa
quando
gli
emigranti
hanno
via
via
assorbito
i
costumi
e
l’operosità
dei
settentrionali.
Tanto
è
vero
che
tra
i
militanti
sono
molti
i
cittadini
originari
del
Sud,
ma
diventati
più
nordisti
dei
nordisti”.
“Se
si
guarda
ai
dati
del
reddito
–
illustra
a
riguardo
sempre
Simona
Colarizi
–
risulta
che
il
20%
delle
famiglie
lombarde
dispone
ognuna
di
almeno
50
milioni
(di
vecchie
lire)
liquidi
e
tutte
insieme
detengono
l’82%
dei
titoli
del
debito
pubblico
collocati
nella
regione.
Un
esercito
di
produttori
che
né
De
Mita
né
Craxi
erano
riusciti
a
conquistare,
ma
adesso
affascinato
dal
progetto
di
una
Repubblica
del
Nord
dove
i
settentrionali,
finalmente
autonomi
da
Roma,
possano
essere
liberi
di
darsi
le
proprie
leggi,
di
amministrare
i
proprio
soldi,
di
creare
strutture
e
servizi
efficienti
e di
erigere
barriere
all’ingresso
degli
indesiderabili”.
Di
quelle
componenti
allogene,
deleterie,
almeno
in
prospettiva,
per
l’opulenza
e
per
la
dovizia
di
una
area
geograficamente
de-italianizzata,
attraverso
la
collocazione
lungo
il
corso
del
Po
di
un
Rubicone
al
rovescio,
con
la
civitas
rivolta
ora
verso
il
nord
(e
non
più
verso
sud).
Sembra
infatti
arbitrariamente
calare
su
tale
scenario
un
fantomatico
cartello
con
la
dicitura
“Non
plus
ultra”,
per
evitare
le
mostruosità
del
parassitismo
e
della
partitocrazia
da
sconfiggere
con
l’ascesa
del
Carroccio,
verso
cui
confluiscono
i
suffragi
democristiani
travolti
dalla
fine
del
comunismo
e
successivamente
da
Mani
pulite.
“Infine
–
aggiunge
l’ordinaria
de
“La
Sapienza”
– va
tenuta
in
conto
l’accelerazione
del
processo
di
integrazione
europea
che,
in
presenza
di
un’economia
settentrionale
dinamica,
dà
un’ulteriore
spinta
ai
riferimenti
ed
ai
fermenti
di
quest’area
del
Paese”.
Area
impaurita
dal
pressante
soffocamento
burocratico
e
finanziario
di
Bruxelles,
di
quella
“seconda
Roma
ladrona”,
capace
di
sollecitare
una
pletora
di
produttori
colpiti
negli
interessi
peniafobici
da
un’amministrazione
centrale
e
sovranazionale
che
non
li
tutela
più.
D’altra
parte,
“questa
specie
di
pragmatismo
economicista
–
rivela
la
Colarizi
– fa
del
partito
lo
strumento
per
realizzare
interessi
a
prescindere
da
qualsivoglia
cornice
ideale.
L’appartenenza
sociale
non
è il
parametro
distintivo
di
un
reclutamento
che
interessa
settori
diversi
della
società.
Manca
un’ideologia
forte
che
faccia
da
cemento
tra
iscritti,
simpatizzanti
ed
elettori”.
E
che,
soprattutto,
collochi
stabilmente
la
Lega
lungo
l’asse
destra-sinistra.
Certo,
le
elezioni
del
1994
vedranno
il
Carroccio
nel
polo
di
centro-destra.
La
collocazione
elettorale
della
Lega
a
fianco
di
Forza
Italia
è
però
tendenziosa.
Lo è
per
puro
opportunismo,
in
quanto
Bossi
intuisce
nel
Polo
berlusconiano
di
un
riferimento
assiologico
per
un
continuum
con
la
vecchia
politica.
La
Lega
Nord
si
colloca
infatti
a
destra
non
per
empatico
coinvolgimento
ideologico,
piuttosto
per
una
mera
proso-fobia
politica,
a
favore
cioè
di
un
risvolto
conservatore
della
Seconda
Repubblica.
“In
questo
spazio
bidimensionale
–
spiega
difatti
Luca
Ridolfi
– la
Lega
occupa
una
posizione
di
tipo
moderato
sull’asse
sinistra-destra.
Essa
è un
partito
di
centro-destra
collocato
a
metà
strada
fra
la
Dc
ed
il
Msi”.
Il
presunto
estremismo
del
Carroccio
è
reso
così
labile
da
una
sua
approssimazione
verso
il
voto
democristiano,
verso
cioè
un
conservatorismo
socio-economico
di
stampo
proto-repubblicano,
ma
leggermente
più
spinto
verso
destra:
in
altre
parole
verso
pretese
federaliste
e
indipendentistiche.