N. 54 - Giugno 2012
(LXXXV)
lo stato unitario e la prima legge sul lavoro dei fanciulli
letteratura della crisi progetti politici
di Alberto Conte
Colpisce
molto
–
benché
le
condizioni
del
lavoro
di
donne
e
fanciulli
fossero
ovunque,
nella
penisola,
assai
dolorose
–
rilevare
che
la
Brianza
in
particolare
(“Il
giardino
della
Lombardia”,
come
amenamente
veniva
descritta)
colpisse
studiosi
e
viaggiatori,
per
l’immagine
profondamente
avvilente
con
la
quale
si
presentava,
ai
loro
occhi,
il
degrado
psico-fisico
degli
addetti
all’industria
manifatturiera,
ovvero
di
quegli
stessi
soggetti
che
ne
costituivano
l’autentica
spina
dorsale.
L’assunzione
di
doverose
responsabilità
da
parte
della
politica,
tuttavia,
per
quella
che
era
considerata
ormai
una
questione
nazionale,
si
scontrava
frontalmente
non
solo
con
la
difesa
di
interessi
economici
molto
forti;
ma
anche
con
la
mancanza
di
un’
“opinione
pubblica”,
la
quale
si
facesse
in
qualche
modo
portavoce
di
un’umanità
coatta
e
senza
diritti.
Sono
molto
interessanti,
in
tale
prospettiva,
le
pagine
che
dedicò
all’argomento
Alberto
Errera,
il
quale,
nel
lamentare
l’assenza
di
una
coscienza
critica
da
parte
della
cosiddetta
“buona
società”
–
pure
altrove
impegnata
in
attività
filantropiche
e
non
certo
aliena
ad
interessarsi
agli
sviluppi
della
produzione
e
della
tecnologia
–
mostrava
finemente
lo
scarso
grado
di
civismo
e di
solidarietà
diffusi
nel
Paese.
Infatti:
“
L’indifferenza
del
pubblico
è
giunta
a
tale
che,
prima
ancora
di
udire
noi
espositori
di
fatti
e di
numeri,
si
reputano
fole
o
romanzi
le
descrizioni
di
opifici
male
aereati,
di
18
ore
di
lavoro,
di
malattie
e di
morti
precoci
in
parecchie
delle
nostre
piccole
città”.
Va
anche
osservato
che
Errera
non
mancava
di
lanciare
un
accorato
allarme
sociale
per
le
conseguenze
che
avrebbe
fatalmente
prodotto
un
inveterato
impiego
dei
fanciulli
nel
lavoro
di
fabbrica:
“
Cresce
in
mezzo
a
noi
questa
ragazzaglia
turbolenta
e
minacciosa:
questi
bambini
pallidi,
sparuti,
scarmigliati,
hanno
già
il
livore
nell’animo,
queste
fanciulle
alle
quali
è
fatto
perdere
il
pudore
prima
ancora
che
possano
commettere
la
colpa,
frammischiate
di
giorno
e di
notte
cogli
adulti,
testimoni
e
complici
di
impudicizia,
si
vendicano
poi
di
una
mercede
che
è
limosina
e di
un
lavoro
che
è
tortura,
e
sfogano
almeno
coi
piaceri
del
senso,
quel
bisogno
di
vita
gaja
che
è
richiesta
dal
sesso,
dall’età”.
Parole,
quelle
che
abbiamo
riportato,
tutt’altro
che
liquidabili
come
espressioni
di
consuete
preoccupazioni
moralistiche.
Anzi,
si
coglie
qui,
più
che
altrove,
l’evocazione
di
potenziali
conflitti
sociali
ed
il
dolore
procurato
dal
silenzio
e
dall’omertà
complici
dell’intera
società.
Chiaro
è
quindi
anche
l’intento
pedagogico
delle
sue
pagine:
“La
nostra
monografia
vorrebbe
appunto
provocare
questo
nuovo
indirizzo
alla
opinione
del
pubblico,
e
far
consapevoli
tutti
di
ciò
che
avviene
fuori
dell’uscio
del
palazzo
che
abitano,
della
villa,
dell’albergo,
nei
quali
si
deliziano”.
L’esempio
francese,
con
la
costituzione
della
società
per
la
protezione
del
lavoro
dei
fanciulli
nelle
manifatture,
soccorreva
quindi,
secondo
l’estensore
di
queste
pagine,
all’esigenza
di
mettere
in
atto
un’efficace
spinta
propulsiva,
nei
confronti
del
legislatore
e
del
governo,
finalmente
attenti
a
varare
buone
leggi
ed a
farle
osservare.
Occorre
sottolineare
che
il
dibattito
politico
in
ordine
all’adozione
della
legge
fu
molto
intenso
e
comprensibilmente
non
privo
di
forti
contrasti.
Ma
soprattutto
che
attraversò
parecchi
anni,
troppi
anni,
come
vedremo.
Va
del
resto
premesso
che,
con
la
nascita
dello
stato
unitario,
le
uniche
norme
vigenti
erano
costituite:
dal
divieto
di
impiegare
fanciulli
di
età
inferiore
a
dieci
anni
in
lavori
minerari
sotterranei
(
R.D.
23
dicembre
1865)
–
ereditata
dalla
legislazione
piemontese
– e
da
una
legge
del
1873
che
proibiva
l’impiego
dei
fanciulli
nelle
professioni
girovaghe.
Il
ritardo
rispetto
ai
paesi
europei
più
sviluppati
– e
non
solo
a
quelli
–
era
enorme.
Completamente
obliterate
erano
le
disposizioni
varate
durante
il
corso
del
regno
Lombardo-
Veneto.
A
rendere
particolarmente
pesante
la
realtà
italiana
era
la
seguente
constatazione:
“ Un
fatto
incontestabile,
e
che
al
solo
enunciarlo
desterà
penosa
impressione,
è
risultato
dall’inchiesta:
l’orario
delle
donne
e
dei
fanciulli
è
quasi
generalmente
uguale
a
quello
degli
operai
adulti”.
E’
qual
è la
media
tale
orario?
Undici
o
dodici
ore!
Nei
cotonifici
e
setifici
di
Bergamo
e
Como
poi
lo
si
spinge
in
estate
fino
a 15
ore!”
L’inchiesta
cui
fa
riferimento
Ravà
è
quella
promossa
dal
ministero
dell’industria,
nel
febbraio
1877,
presso
le
prefetture
comprendenti
le
realtà
industriali
più
importanti
del
Regno.
Mentre
la
descrizione
dell’ambiente
umano
incontrato
dal
dottor
Pini
durante
i
suoi
giri
per
la
Brianza
pare
evocare
il
Cesare
Cantù
più
contrito
e
pessimista:
“[…]
ed
invano
cercai
un
volto
che
mi
ricordasse
la
tradizionale
bellezza
delle
donne
brianzuole,
la
quale
è
divenuta
ormai
un
ricordo
registrato
solo
nei
carmi
e
nelle
istorie”.
Ma
torniamo
all’iter
della
legge.
In
un’interessante
relazione
che
precedeva
di
poco
la
sua
approvazione
si
rappresentavano,
forse
anche
con
una
certa
interessata
comprensione
(ma
si
trattava
di
una
tesi
assai
diffusa),
le
cause
del
freno
esercitato
dal
mondo
manifatturiero
rispetto
all’adozione
di
norme
protettive
del
lavoro
dei
fanciulli:
“
[…]
Non
è
già
che
a
questi
il
privato
tornaconto
facesse
dimenticare
i
più
elevati
sentimenti
ai
quali
s’ispira
una
savia
legislazione
sul
lavoro
dell’infanzia;
nei
più
era
il
timore
di
una
indebita
ingerenza
dello
Stato,
con
l’azione
molesta
dei
suoi
agenti
nelle
private
aziende,
al
momento
in
cui
la
produzione
industriale,
appena
nascente,
si
dibatteva
fra
ostacoli
di
ogni
sorta;
[…].
Se
consideriamo,
in
effetti,
gli
esiti
prodotti,
ai
tempi
del
Lombardo
Veneto,
dall’invasiva
azione
messa
in
campo
dal
governo
per
contrastare
il
fenomeno
del
contrabbando
di
tessuti,
che
produceva
non
pochi
incagli
al
regolare
andamento
delle
aziende,
per
la
generazione
di
imprenditori
lombardi
formatisi
in
quegli
anni
si
poteva
realmente
paventare
il
rischio
di
doversi
misurare
con
sensibili
aggravi
burocratici
e
fiscali.
Riesce
tuttavia
più
difficile
concordare
con
le
attitudine
umanitarie,
ed
in
fondo
liberali,
che
l’estensore
dell’articolo
attribuisce
con
scioltezza
al
variegato
panorama
dei
manifattori
nazionali,
in
considerazione
della
diffusa
e
manifesta
inattenzione
al
dramma
dei
lavoro
di
fanciulli
e
donne
che
si
era
consumato
nell’arco
dell’ultimo
mezzo
secolo.
Nello
stesso
articolo,
a
proposito
delle
resistenze
frapposte
dalla
“società
civile”
all’introduzione
di
una
legislazione,
con
efficacia
si
osservava:
“Per
molti
era
il
timore
di
recar
danno
alla
famiglia
operaia,
che
trae
dal
lavoro
dei
fanciulli
un
complemento,
spesso
indispensabile,
dell’insufficiente
salario
dei
genitori”.
D’altra
parte,
anche
in
altri
contributi
coevi
emergeva
il
forte
rilievo
che
le
obiezioni
del
mondo
industriale
esercitavano
nei
confronti
del
legislatore
– ma
anche
i
timori
legati
al
paventato
impoverimento
delle
famiglie
operaie,
laddove
fosse
diminuita
“la
loro
libertà
di
lavoro”.
Ché,
la
scarsa
ricettività
da
parte
di
una
fetta
consistente
di
opinione
pubblica,
potesse
comunque
costituire
una
giustificazione
per
l’inerzia
del
legislatore
è
certamente
insostenibile.
Basterà
ricordare
le
parole
del
relatore
dell’Ufficio
Centrale
del
Senato,
Manfrin,
il
quale
nello
scrivere
ai
senatori
in
vista
dell’auspicata
approvazione
del
progetto
di
legge,
lamentava:
“Si
può
pertanto
con
ragione
asserire
che
ben
pochi
altri
disegni
di
legge
ebbero,
per
uno
od
altro
motivo,
più
sventurata
sorte
[…]”.
D’altra
parte,
il
quasi
isolamento
internazionale
del
Paese
rispetto
all’adozione
di
una
legge
in
materia
(che
in
Europa
era
in
compagnia
delle
sole
Grecia
e
Turchia)
non
deve
far
dimenticare
il
difficile
retroterra
sociale
e
culturale
di
molte
parti
della
penisola
ed
il
fatto
che
nel
solo
Lombardo
Veneto,
benché
con
i
gravi
limiti
noti,
vigesse
almeno
un
impianto
normativo
sul
lavoro
dei
fanciulli.
Né
va,
infine,
sottovalutato
il
rigore
del
dibattito
parlamentare
e
l’articolato
dispiegarsi
nel
Paese
di
un’azione
tesa
a
raccogliere
ed
analizzare
pareri
medici,
scientifici
ed
ad
elaborare
statistiche
riferite
alle
sue
diverse
realtà
industriali.
Si
pensi,
per
esempio,
all’importante
“banca
dati”
fornita
dal
censimento
del
1881,
che
costituì
un
imprescindibile
strumento
di
analisi
della
popolazione
industriale.
Vale
la
pena,
a
questo
proposito,
riassumerne
brevemente
alcune
cifre:
gli
addetti
complessivamente
erano
pari
a
3.378.002,
dei
quali
poco
meno
di
300.000
erano
fanciulli
di
età
inferiore
ai
quattordici
anni
(con
una
significativa
incidenza
di
minori
di
anni
nove).
Cifre
che
spinsero
il
nuovo
ministro
proponente,
Berti,
ad
alzare
a 10
anni
(rispetto
ai 9
di
una
precedente
proposta)
l’età
minima
per
l’accesso
al
lavoro
(ci
torneremo).
Ma
il
dibattito
parlamentare
inferiva
anche
su
altri
aspetti,
a
cominciare
da
un
tema
di
ordine
costituzionale,
ovvero
il
fondamento
giuridico
dell’intervento
statale
nella
regolamentazione
del
lavoro
dei
fanciulli;
ora,
non
solo
sotto
il
profilo
già
accennato
che
prefigurava
la
contrapposizione
con
una
certa
cultura
liberista
(o
semplicemente
antistatale),
ma
soprattutto
con
riferimento
al
ruolo
che
esso
dovesse
assumere
nella
protezione
dei
suoi
giovanissimi
cittadini,
dove
rimarcare
il
principio
giuridico
della
tutela
dei
minori
ed
il
“diritto”
dello
Stato
di
vegliare
affinché
non
si
commettessero
abusi
su
di
essi
non
era
affatto
un’enunciazione
scontata
(come
testimonia
l’espressione
virgolettata,
quasi
che
pronunciare
la
parola
potesse
configgesse
troppo
con
concezioni
giuridiche
ancora
premoderne).
In
definitiva,
potremmo
parlare,
nonostante
tutto,
di
un
lungo
lavoro
preparatorio
che
avrebbe
potuto
essere
foriero
della
nascita
di
una
legge
civile
e
moderna.
Ma
non
fu
così,
come
si
cercherà
di
argomentare.
Va
intanto
premesso
che
il
testo
nasceva
con
la
deliberata
esclusione
di
una
protezione
normativa
nei
confronti
delle
donne,
restando
quindi
circoscritto
alla
tutela
del
lavoro
dei
giovanissimi.
Benché
non
pochi
parlamentari
avessero
chiesto
che
le
nuove
disposizioni
contemplassero
anche
il
lavoro
prestato
dalle
operaie,
che
erano
numerosissime
nelle
manifatture
di
tutto
il
Paese.
Così
argomentava
Manfrin,
nel
difendere
l’impostazione
della
legge:
“ Fu
osservato
già,
come
la
base
giuridica
della
presente
legge
sia
la
tutela
dei
minori
nella
quale
per
diversi
motivi
dai
nostri
ordinamenti
risultanti,
lo
Stato
ha
diritto
di
intervenire.
Egli
è
pertanto
consentaneo
il
provvedere
perché
sia
regolato
il
lavoro
dei
fanciulli
di
entrambi
i
sessi,
ma
si
uscirebbe
dal
concetto
giuridico
ogni
volta
si
estendessero
le
disposizioni
alle
persone
che
sono
sui
juris,
cioè
alle
donne
maggiori
di
età”.
Sovviene
l’eco
di
un
dibattito
promosso,
all’indomani
dell’Unificazione,
dalla
“Società
d’Economia
Politica”
di
Torino,
dove
il
vario
articolarsi
delle
posizioni
sembrava
peraltro
prefigurare
più
promettenti
sviluppi
per
il
miglioramento
della
condizione
femminile.
Se
Pascal
Duprat
esprimeva
posizioni
caratterizzate
da
una
forte
vocazione
emancipatrice
nei
confronti
delle
donne,
e
sul
tema
del
lavoro
nelle
manifatture
non
aveva
dubbi
sulla
necessità
di
norme
protettive:
“[…]
invoco
l’intervento
dello
Stato
per
impedire
lavori
precoci
delle
ragazze
e
lavori
troppo
lunghi
delle
donne.
Così
salvandosi
e
prolungandosi
la
loro
vita,
si
gioverà
ad
esse
ed
alla
società
che
ne
ricaveranno
una
somma
di
lavoro
maggiore
e
più
proficua”,
le
pur
moderate
posizioni
del
senatore
De
Gori,
che
giudicava
“improvvide”
eventuali
limitazioni
nel
lavoro
delle
donne
imposte
per
legge,
auspicava
seri
interventi
volti
a
migliorare
le
condizioni
lavorative,
ed
era
lo
Stato
a
doversene
fare
carico,
“acciò
la
vita
delle
donne
e
dei
fanciulli
non
venga
logorata
prima
del
tempo
per
difetto
di
condizioni
igieniche
nelle
manifatture”.
Caddero
quindi
nel
vuoto
anche
le
istanze
provenienti
dalla
società
civile,
come
l’appello
del
“Comitato
per
la
promulgazione
di
una
legge
sul
lavoro
dei
fanciulli
e
della
donna”
(sorto
per
iniziativa
di
associazioni
torinesi)
che
richiedeva,
tra
l’altro,
la
rapida
introduzione
di
norme
protettive
nei
confronti
delle
donne,
come
l’esclusione
dal
lavoro
notturno
anche
per
quelle
che
avessero
già
compiuto
sedici
anni
e
l’astensione
obbligatoria
da
ogni
attività
durante
le
prime
settimane
dopo
il
parto.
Tornando
ora
all’iter
della
legge,
la
vaga
prefigurazione
di
un
futuro
quadro
normativo
esteso
anche
al
lavoro
femminile
sanciva,
di
fatto,
già
una
grave
limitazione
all’intervento
del
legislatore.
Nei
suoi
principi
cardini,
il
testo
varato
l’11
febbraio
1886
con
legge
n.3657
(detta
anche
legge
Berti,
dal
ministro
proponente)
prevedeva:
il
divieto
di
impiegare
fanciulli
di
età
inferiore
a
nove
anni
negli
opifici,
nelle
cave
e
nelle
miniere;
la
possibilità
di
impiegare
fanciulli
di
età
compresa
tra
nove
e
quindici
anni
a
condizione
che
venisse
loro
rilasciato,
preventivamente,
un
attestato
di
idoneità
sanitaria
per
il
lavoro
cui
erano
destinati;
nei
lavori
pericolosi
ed
insalubri
non
potevano
essere
impiegati
fanciulli
che
non
avessero
compiuto
quindici
anni
d’età,
se
non
con
i
limiti
e le
cautele
da
determinarsi
con
apposito
decreto,
al
quale
si
demandava
anche
l’individuazione
e la
classificazione
delle
attività
rientranti
in
questa
fattispecie;
per
i
fanciulli
non
ancora
dodicenni
era
inoltre
previsto
che
la
giornata
di
lavoro
non
potesse
eccedere
le
otto
ore;
infine
erano
stabilite
le
misure
sanzionatorie
per
le
violazioni
alla
presente
legge,
che
andavano
da
un
minimo
di
cinquanta
a
cento
lire
per
ogni
fanciullo
indebitamente
ammesso
al
lavoro.
Questi
erano
i
punti
cardine
della
legge,
cui
sarebbe
seguito
il
regolamento
d’esecuzione,
come
vedremo
tra
breve.
Intanto
è
molto
utile
osservare
come
il
profilo
riformatore
delle
nuove
disposizioni
risultasse
in
più
parti
ridimensionato,
in
confronto
al
testo
ministeriale
elaborato
sette
anni
prima.
In
quest’ultimo
(quello,
per
intenderci,
che
aveva
animato,
seppur
criticamente,
le
speranze
di
un
Alberto
Errera)
l’accesso
al
lavoro
dei
fanciulli
di
età
compresa
tra
i
nove
ed i
quindici
anni
presupponeva
l’adempimento
degli
obblighi
scolastici
previsti
dalla
legge
del
1877
(pur
differendo
a
dopo
i
tre
anni
successivi
all’introduzione
dell’obbligatorietà
dell’istruzione
elementare
l’effettiva
applicabilità
della
norma).
Inoltre,
era
tassativamente
vietato
il
lavoro
notturno
per
i
fanciulli
che
non
avessero
compiuto
gli
undici
anni
ed
il
lavoro
festivo
per
gli
operai
che
non
avessero
compiuto
i
quindici
anni.
Colpisce,
in
particolare,
come
nel
testo
varato
alcuni
anni
più
tardi
nessuna
di
queste
norme
fosse
più
prevista,
ed
in
particolare
quella
concernente
le
garanzie
sull’adempimento
degli
obblighi
scolastici.
Va
inoltre
registrato
che
le
sanzioni
originariamente
previste
erano
di
gran
lunga
più
pesanti
di
quelle
poi
determinate
con
la
legge,
potendo
arrivare
sino
a
500
lire
per
ogni
violazione
commessa.
Infine,
è
bene
anche
osservare
come,
solo
alcuni
anni
prima,
la
tutela
delle
donne
lavoratrici
avesse
in
qualche
modo
preoccupato
il
governo,
che
prevedeva,
seppur
ipocriticamente,
l’interdizione
al
lavoro
femminile
nelle
cave
e
nelle
miniere
nelle
due
settimane
successive
al
parto
(come
se
tale
garanzia
non
dovesse
estendersi
anche
al
lavoro
nelle
manifatture
tessili).
Eppure
il
testo
approvato
definiva
una
nuova
prospettiva
rispetto
al
campo
di
applicazione
della
legge,
non
più
limitato
alle
sole
manifatture
che
impiegassero
oltre
venti
dipendenti.
Il
che
configurava
certamente
un’innovazione
rilevante,
fatte
salve,
come
vedremo,
le
ambiguità
sfociate
in
seguito
nel
regolamento
d’esecuzione.
Ma
nonostante
questa
nuova
premessa,
il
profilo
già
oggettivamente
molto
moderato
del
testo
elaborato
sette
anni
prima
vedeva
effettivamente
attenuata
la
propria
relativa
incisività
nella
legge
che
fu
infine
varata.
Anche
perché
i
suoi
esiti
differivano
pure
da
quella
che
era
l’ultima
proposta
ministeriale,
per
l’effetto
di
compromessi
in
sede
parlamentare
destinati
più
a
depotenziare
alcune
misure
che
non
a
valorizzarne
la
portata.
Infatti
non
erano
irrilevanti
i
cambiamenti
introdotti.
Il
primo
–
che
contraddiceva
palesemente
gli
intendimenti
del
ministro
proponente
(si
veda
sopra)
-
ripristinava
a
dieci
anni
( e
non
più
a
nove)
il
limite
per
l’accesso
al
lavoro
dei
fanciulli,
fatta
eccezione
per
l’impiego
nei
lavori
sotterranei,
per
i
quali
il
limite
restava
di
dieci
anni.
Fortemente
attenuate,
inoltre,
erano
le
misure
sanzionatorie
nei
confronti
di
chi
violasse
le
nuove
disposizioni.
Ed
infine
va
registrato
il
sostanziale
ridimensionamento
del
ruolo
del
ministero
dell’Agricoltura,
Commercio
e
Industria,
naturalmente
preposto
alla
vigilanza
sulla
corretta
osservanza
della
legge.
Di
sicuro,
nella
prospettiva
di
non
“turbare”
l’attività
imprenditoriale,
già
da
molti
giudicata
a
rischio
di
una
supposta
invasività
di
norme
e
controlli
statali.
L’unica
novità
migliorativa
era
rappresentata
dal
limite
delle
otto
ore
lavorative
giornaliere
per
i
minori
di
anni
dodici.
E
non
era
in
definitiva
di
poca
importanza,
quasi
ad
evidenziare
anche
una
certa
schizofrenia
del
legislatore.
Sono
ineludibili
l’esigenza
di
sottrarsi
a
qualsivoglia
pregiudizio
e la
necessità
di
adeguare
la
propria
sensibilità
alla
lettura
di
una
realtà
storica
la
cui
complessità
derivava
anche
dalla
giovane
età
del
nuovo
Stato
ed
alla
profonda
eterogeneità
del
contesto
sociale
ed
economico
del
Paese.
Ma
anche,
come
abbiamo
già
discusso
nelle
pagine
precedenti,
alla
scarsa
ricettività
dell’opinione
pubblica
rispetto
a
quella
che,
fortunatamente,
taluni
già
designavano
come
“questione
sociale”.
Se
scorriamo
alcuni
dei
pareri
emersi,
durante
gli
anni
che
precedettero
il
varo
della
legge,
nel
contesto
di
soggetti
ed
istituzioni
che
–
fuori
dall’ambito
strettamente
politico
–
potevano
vantare
competenze
od
interessi
in
questo
materia,
vedremo
formarsi
un
caleidoscopio
di
idee
e
proposte
fatalmente
molto
diverse
se
non
totalmente
contrapposte.
Detto
che,
in
linea
generale,
i
più
favorevoli
al
varo
della
legge
erano
prefetti,
consigli
provinciali
sanitari
e
associazioni
economiche,
mentre
dalla
parte
opposta
troviamo
influenti
imprenditori
come
il
senatore
Rossi
ed
il
barone
Cantoni,
nonché
molti
altri
esponenti
del
mondo
industriale
e
parecchie
camere
di
commercio,
si
dipana
ai
nostri
occhi
un
proliferare
di
idee
e
soluzioni
talvolta
anche
bizzarre,
ma
anche
con
dei
punti
in
comune,
come
vedremo.
Importante
fu
certamente
il
ruolo
esercitato
dai
consigli
sanitari
provinciali
nel
sollecitare
una
riflessione
sull’incongrua
limitazione
del
campo
di
applicazione
della
legge
alle
industrie
che
impiegassero
oltre
venti
dipendenti
(come
si
ricorderà
era
prevista
in
una
versione
originaria
e
poi
modificata
nel
testo
finale,
configurando
così
l’unica
innovazione
davvero
rilevante).
Sull’altro
versante,
il
barone
Cantoni,
titolare
dell’omonimo
celebre
cotonificio,
nel
lamentare
pure
la
prefigurazione
del
suddetto
limite
(lamentazione
che
peraltro
ben
difficilmente
poteva
non
essere
interessata,
soprattutto
nella
prospettiva
di
quella
che
avrebbe
considerato
un
oggettivo
aiuto
ai
quei
concorrenti
che,
seppur
piccoli,
sarebbero
restati
esclusi
dall’applicazione
delle
norme)
esprimeva
comunque
il
proprio
dissenso
generale
al
progetto
di
legge.
Da
osservare
alcune
proposte
delle
società
operarie
e di
mutuo
soccorso,
significative
anche
per
le
differenze
che
emergono
dal
loro
confronto.
La
società
di
mutuo
soccorso
degli
operai
di
Biella,
per
esempio,
proponeva
di
fissare
il
limite
per
l’accesso
al
lavoro
a
otto
anni
(meno
di
quanto
previsto
nel
progetto
di
legge!).
Il
Circolo
degli
operai
di
Catania,
dal
canto
suo,
giungeva
addirittura
a
preconizzare
gravi
effetti
sociali
dall’adozione
di
misure
che
avrebbero
fatalmente
impoverito
le
famiglie
povere,
nel
momento
in
cui
non
avessero
più
potuto
impiegare
i
propri
piccoli
nelle
manifatture
e
nelle
miniere.
Ma
poco
distante
dalla
città
etnea,
il
Circolo
operaio
di
Acireale
esprimeva
invece
il
proprio
assenso
al
progetto
di
legge.
La
società
operaia
di
Venezia
paventava
i
rischi
legati
all’attuazione
della
riforma
in
una
città
in
cui
“ i
ragazzi
disoccupati
e
oziosi
abbondano”.
Di
ben
altro
tenore
le
posizioni
espresse
dall’Associazione
operaia
di
Andorno
(curiosamente
della
stessa
provincia
biellese,
ove
emergeva
la
singolare
proposta
che
abbiamo
riportato
sopra),
secondo
la
quale
l’esclusione
dal
lavoro
avrebbe
dovuto
riguardare
tutti
i
ragazzi
con
meno
di
dodici
anni
d’età;
inoltre,
per
i
minori
di
anni
sedici,
l’orario
di
lavoro
si
sarebbe
dovuto
limitare
alla
metà
di
quello
ordinario
degli
adulti.
Per
finire,
interdizione
assoluta
al
lavoro
notturno.
Interessante
ed
avanzata
anche
la
proposta
della
Società
operaia
di
Bologna,
dove,
tra
l’altro,
si
chiedeva
fosse
garantita
l’educazione
intellettuale
dei
fanciulli
e la
frequenza
delle
scuole
domenicali,
ma
pure
l’esclusione
dal
lavoro
notturno
sino
al
compimento
dei
diciotto
anni,
invocando
la
presenza
dell’ispettorato
nelle
fabbriche
e
nelle
miniere.
Basta
forse
questo
spettro
di
opinioni
per
rappresentare
l’eterogeneità
delle
posizioni
in
campo,
ma
che
non
sempre
erano
così
distanti
tra
loro.
Che
ci
fossero
società
di
mutuo
soccorso
ed
associazioni
operaie,
le
quali
temevano
i
contraccolpi
sociali
provocati
da
una
regolamentazione
del
lavoro
dei
fanciulli,
allineate
quindi
alle
posizioni
prevalenti
nel
mondo
industriale,
configurava
–
sebbene
da
prospettive
diverse
-
una
comune
sottovalutazione
della
grave
questione
sociale
in
atto
nel
Paese.
Preoccupazioni
di
ben
diverso
segno,
quindi:
il
timore
diffuso
nelle
famiglie
contadine
–
spesso
ormai
proletarizzate
– di
vedersi
sottratta
una
quota
di
reddito;
l’ansia
dei
capitani
d’industria
di
perdere
manodopera
docile
ed a
basso
costo.
Come
spiegare,
allora,
le
istanze
riformatrici
cui
anelavano
invece
altri
sodalizi
operai?
La
coincidenza
di
opinioni
– se
ci
basiamo
sulla
nostra
fonte
– in
contesti
regionali
tra
loro
anche
molto
diversi,
ed
all’opposto
le
divergenze
rinvenibili
anche
in
realtà
geografiche
tra
loro
prossime,
rende
meno
plausibile
una
spiegazione
fondata
sul
differente
livello
di
sviluppo
socio-economico
in
atto
nel
Paese,
che
pure
non
può
essere
trascurato.
La
realtà,
com’è
noto,
è
che
le
società
di
mutuo
soccorso
non
configuravano
affatto
una
seppur
embrionale
organizzazione
di
classe
e
forte
era
l’influenza
dei
partiti
borghesi
nell’indirizzarne
l’azione.
Le
distinzioni
che,
restando
al
nostro
campo,
pure
esistevano
erano
da
ricondurre
quindi
più
alla
differente
sensibilità
dei
vari
potentati
locali
che
non
ad
una
ancora
scarsa
consapevolezza
di
classe.
In
altri
termini,
la
già
problematica
formazione
di
un’opinione
pubblica
sul
tema
del
lavoro
di
donne
e
fanciulli
era
fortemente
condizionata
dall’egemonia
degli
interessi
del
mondo
della
produzione,
che
si
esercitava
direttamente
o
attraverso
i
propri
rappresentanti
politici.
Il
17
settembre
1886
venne
poi
varato
il
regolamento
di
esecuzione
della
legge,
destinato
quindi
ad
assicurarne
la
concreta
attuazione.
Il
primo
aspetto
da
sottolineare
discende
direttamente
dall’articolo
1,
che
testualmente
riporta:
“ E’
opificio
industriale,
agli
effetti
della
legge
11
febbraio
1886,
n.3657
(serie
3°),
ogni
luogo
ove
si
compiano
lavori
manuali
di
natura
industriale
col
mezzo
di
motore
meccanico,
qualunque
sia
il
numero
degli
operai
adibiti.
Quando
non
si
adoperi
alcuna
specialità
di
motori,
è
considerato
opificio
ogni
luogo
dove
lavorino
riuniti
in
modo
permanente
almeno
dieci
operai.”
L’eccezione,
rispetto
alla
determinazione
del
numero
di
operai
impiegati,
laddove
non
soccorra
alcuna
“specialità
di
motori”,
era
fatalmente
destinata
a
provocare
gravi
limitazioni
al
campo
di
applicazione
delle
nuove
norme.
Infatti,
erano
destinate
a
restare
escluse
un
variegato
campo
di
botteghe
ed
attività
artigiane
nelle
quali
erano
regolarmente
impiegati
fanciulli,
il
che
produceva
esiti
finanche
paradossali,
ed
in
generale
spingeva
i
manifattori
a
diminuire
il
proprio
personale
sotto
la
soglia
che
imponeva
l’osservanza
delle
nuove
norme.
Inoltre,
la
nozione
di
opificio
non
comprendeva
le
attività
condotte
a
domicilio,
né
quelle
prestate
negli
istituti
di
educazione,
dove
era
ricorrente
il
lavoro
quotidiano
da
parte
delle
bambine.
L’ambiguità
della
norma
era,
in
definitiva,
l’esito
infausto
di
un
progetto
politico
sempre
più
depotenziato
dai
troppi
compromessi,
incapace
sino
di
veder
garantita
una
minima
certezza
del
diritto
per
ispettori
e
magistrati
che
se
ne
sarebbero
dovuti
occupare,
tanto
le
maglie
larghe
della
legge
ne
consentivano
l’evasione.
Ma
su
questo
torneremo,
trattando
specificamente
della
realtà
lariana.
Tra
gli
altri
aspetti
sui
quali
soffermarsi
in
questa
sede,
sicuramente
vanno
registrati:
la
determinazione
degli
opifici
pericolosi
ed
insalubri,
ove
l’impiego
dei
fanciulli
sino
ai
quindici
anni
d’età
era
vietato;
ed
inoltre,
una
nuova
eccezione
normativa,
la
cui
portata
era
destinata
a
svilire
in
gran
parte
il
principio
dell’interdizione
dell’impiego
notturno
per
i
minori
di
anni
dodici.
Infatti,
laddove
venisse
riconosciuta
l’indispensabilità
di
garantire
il
processo
continuo,
le
industrie
avrebbero
potuto
impiegare
anche
questi
giovanissimi
operai,
pur
nel
limite
di
turni
di
sei
ore.
A
questo
proposito,
il
candore
con
il
quale
il
Ministero
riconosceva
di
fatto
la
superiorità
degli
interessi
dell’industria
–
arbitrariamente
assunti
come
paradigma
dello
stesso
interesse
nazionale
–
toglieva
almeno
un
velo
di
ipocrisia
ad
una
norma
continuamente
rivista,
sino,
come
detto,
a
snaturarla
largamente
rispetto
alla
formulazione
originaria.
Nella
sua
inchiesta,
edita
nel
1900,
Gallavresi
esprimeva
un
giudizio
fortemente
sconfortato,
constatando
amaramente
che
le
nuove
norme
erano:
“[…]
per
servili
e
ingiustificabili
accondiscendenze,
così
pieni
di
indecisione,
di
mezzi
termini,
di
eccezioni,
che,
nella
pratica,
pare
invitino
gli
industriali
stessi
a
tenerne
poco
conto
ed a
trasgredirli”.
E in
un
celebre
lavoro
storiografico,
comparso
nel
1976,
Stefano
Merli
giungeva
a
considerare
la
condizione
del
lavoro
minorile
e
delle
donne,
nell’Italia
unita,
addirittura
peggiore
di
quelle
“riservatagli
nella
Venezia
del
sec.
XIV
o
nella
Lombardia
austriaca
del
1843”.
Sovvengono,
in
qualche
modo,
gli
esiti
di
un’altra
riforma,
varata
nello
stesso
torno
di
tempo,
quella
forestale,
che
pure
non
godette
allora
- né
tantomeno
gode
nella
storiografia
odierna
– di
consensi
da
parte
di
studiosi
ed
osservatori.
La
realtà
è
che,
di
fronte
ad
entrambe
le
riforme
(anche
se
tecnicamente
la
legge
sul
lavoro
dei
fanciulli
non
dovrebbe
assumere
questa
accezione,
in
considerazione
della
non
assimilazione,
da
parte
del
nuovo
Stato,
del
corpus
normativo
derivante
dalle
legislazioni
pre
unitarie
–
con
la
sola
eccezione,
com’è
noto,
delle
norme
sul
lavoro
dei
girovaghi
- )
era
palese
l’adesione
ideologica,
da
parte
della
classe
politica,
al
potere
economico
ed
alla
sua
larga
influenza
nell’assunzioni
di
decisioni
destinate
ad
intervenire
nella
sfera
dell’iniziativa
economica
e
dell’esercizio
delle
private
proprietà.
Si
osserverà
che
l’evoluzione
dell’apparato
produttivo
del
Paese
non
poteva
non
richiedere
sacrifici
e
che
in
altri
tempi
sarebbero
poi
maturate
le
condizioni
per
un
miglioramento
delle
condizioni
di
lavoro
dei
soggetti
più
deboli.
Posto
che,
sul
tema
oggetto
delle
nostre
riflessioni,
tali
sviluppi
non
sarebbero
certo
stati
concessione
gratuita
dei
capitani
d’industria,
a
colpire
è
soprattutto
l’inanità
di
un
legislatore,
la
cui
distanza
dalle
sofferenze
del
Paese
reale,
come
diremmo
oggi,
appare
lampante,
proprio
per
la
cecità
di
fronte
a
quella
che
si
prefigurava
come
una
vera
e
propria
crisi
generazionale,
che
infieriva
sui
cittadini
più
giovani
e
quindi
sul
futuro
stesso
del
Paese.
Per
questi
ultimi
si
profilava
un
precoce
processo
di
emancipazione
–
pur
se
con
esiti
differenti
rispetto
a
quello
già
accennato
a
proposito
delle
donne
–
che
avrebbe
fatalmente
intaccato
consolidati
equilibri
familiari.
Un
processo
che,
di
là
dagli
esiti
di
lungo
periodo,
riceveva
il
proprio
battesimo
attraverso
l’abbruttimento
psico-fisico
provocato
dalle
penose
condizioni
di
vita
che
l’industria
in
espansione
imponeva.
Riferimenti
bibliografici:
A.Ravà,
“Rivista
della
beneficenza
pubblica
e
degli
istituti
di
previdenza,
volume,6,
fasc.4,
1878
A.Errera,
“Rivista
della
beneficenza
pubblica
e
degli
istituti
di
previdenza,
volume
8,
fasc.7,
1880
Rivista
della
beneficenza
pubblica
e
delle
istituzioni
di
previdenza,
volume
12,
fasc.4,
1884
Rivista
della
beneficenza
pubblica
e
della
istituzioni
di
previdenza,
volume
14,
fasc.
I,
1886
S.Merli,
“Proletariato
di
fabbrica
e
capitalismo
industriale,
Firenze,
1976
“Il
Politecnico”,
Milano,
volume
27,
fascicolo
114
Archivio
di
Stato
di
Como,
f.do
Camera
Commercio,
cart.n.361.
Annali
dell’Industria
e
del
Commercio”,
Roma,1886.
E.Gallavresi,
“Il
lavoro
delle
donne
e
dei
fanciulli”,
Bergamo,
1900.