N. 60 - Dicembre 2012
(XCI)
da Lamarck a Darwin
EVOLUZIONISMO, TRA Scienza, filosofia e teologia - parte II
di Michele Claudio D. Masciopinto
Jean-Baptiste
Monet,
cavaliere
di
Lamarck,
fu
una
singolare
figura
d’uomo
e
scienziato.
Nacque
nel
1744
in
Piccardia,
a
Bazentin,
undicesimo
figlio
di
una
famiglia
di
piccola
nobiltà.
Da
giovane
intraprese
la
carriera
militare,
ma
poi
si
congedò
dopo
che
venne
smobilitato.
Si
recò
a
Parigi,
dove
intraprese
gli
studi
medici
e
dove
iniziò
a
frequentare
il
Jardin
des
Plantes
(ove
allora
era
in
attività
Buffon).
Cominciò
a
erborizzare,
ed
escogitò
un
nuovo
sistema
ancora
oggi
largamente
adottato,
il
sistema
delle
“chiavi
dicotomiche”.
Pubblicò
cosi
nel
1778
una
Flora
francese,
esposta
secondo
questo
sistema
che
gli
diede
un
successo
lusinghiero.
Sotto
la
protezione
del
Buffon
fu
nominato
prima
membro
dell’Accademia
delle
scienze
e
successivamente
custode
degli
erbari
del
Gabinetto
di
storia
naturale.
Ma
nel
1789,
sopraggiunta
la
rivoluzione,
l’Assemblea
Nazionale
decise
di
sopprimere
molte
cariche,
fra
cui
la
sua.
Finalmente,
alcuni
anni
dopo,
nel
1793,
con
la
riforma
del
Jardin
des
Plantes,
che
fu
trasformato
nel
Museo
di
storia
naturale,
Lamarck
fu
nominato
alla
cattedra
di
zoologia
degli
invertebrati.
Nonostante
il
nuovo
campo
di
studi
a
lui
privo
di
conoscenze
certe,
Lamarck
si
buttò
con
entusiasmo
ed
energia
nel
suo
nuovo
compito,
portandolo
a
compimento
con
la
sua
grande
opera
del
1815:
Storia
naturale
degli
animali
senza
vertebre,
che
porterà
a
conclusione
nel
1822.
A
questo
punto,
possiamo
intravedere
in
Lamarck
due
opposte
tendenze
della
sua
personalità:
quella
dell’indagine
analitica
e
sistematica
e
quella
di
generalizzare
e
teorizzare.
E su
quest’ultima
che
dobbiamo
porre
l’accento
per
analizzare
l’opera
lamarckiana.
Essa
è
ben
espressa
in
piena
forma
nel
volume
intitolato
Philosophie
zoologique,
pubblicato
nel
1809.
L’importanza
di
quest’opera
è
data
dal
fatto
che
il
naturalista
tratta
di
una
vera
teoria
dell’evoluzione.
Le
difficoltà
che
Lamarck
incontrò
per
classificare
le
disordinate
collezioni
di
animali
inferiori
conservate
al
Museo
di
scienze
naturali
di
Parigi,
lo
indussero
a
pensare
che
le
specie
non
fossero
state
create
individualmente
con
organizzazione
e
caratteristiche
costanti,
ma
che
ciascuna
specie
avesse
subito
l'influenza
dell'ambiente
in
cui
si
era
trovata,
tanto
da
ricevere
modificazioni
anche
notevoli.
La
trasformazione
dell'ambiente
determinava
nuovi
bisogni
e
gli
animali
contraevano
nuove
abitudini,
“durevoli
quanto
i
bisogni
che
le
avevano
fatte
nascere”.
Il
cambiamento
di
abitudini
comportava
il
cambiamento
di
azioni
e di
movimenti
e
ciò
provocava
nell'animale
modificazioni
della
forma,
che
si
trasmettevano
ereditariamente.
Lamarck
illustrò
la
sua
teoria
con
numerosi
esempi:
nella
giraffa,
costretta
a
brucare
alberi,
gambe
e
collo
si
erano
allungati
per
soddisfare
un'abitudine
nata
da
un
bisogno.
La
membrana
degli
uccelli
acquatici,
le
zampe
lunghe
degli
uccelli
trampolieri,
venivano
spiegate
con
un
ragionamento
identico.
Possiamo
quindi
riassumere
la
teoria
di
Lamarck
in
due
regole:
1.
Regola
dell'uso
e
del
non
uso
degli
organi:
il
bisogno
crea
l'organo
necessario;
l'uso
lo
rende
forte
e lo
fa
crescere;
viceversa
il
difetto
d'uso
comporta
l'atrofia
e la
scomparsa
dell'organo
inutile.
2.
Regola
dell'eredità
dei
caratteri
acquisiti:
il
carattere
acquisito
sotto
l'influenza
dell'ambiente
è
trasmesso
con
la
riproduzione.
Il
lamarckismo
si
fondava
pertanto
su
due
postulati
che
sollevarono
critiche
molto
serie.
In
particolare
le
sue
teorie
furono
osteggiate
apertamente
da
Georges
Cuvier,
scienziato
dotato
e
brillante,
padre
fondatore
della
paleontologia,
di
pensiero
vicino
a
Linneo,
che
definì
le
teorie
lamarckiane
“sottigliezze
metafisiche”,
poiché
ne
intuì
le
potenzialità
distruttive
verso
il
sistema
e
l’etica
del
tempo.
Pertanto
sostenne
sempre
la
fissità
delle
specie
e
espresse
la
teoria
delle
“rivoluzioni
del
globo”
(una
teoria
in
cui
il
Cuvier
affermava
che
i
fossili
da
lui
ritrovati
appartengono
a
specie
che
si
sono
estinte
a
causa
di
grandi
catastrofi
in
seguito
alle
quali
ne
sono
succedute
altre).
Così
l’opera
innovatrice
di
Lamarck
non
ebbe
il
successo
che
avrebbe
meritato,
e il
suo
autore
concluse
i
suoi
ultimi
anni
a
Parigi,
in
una
decadenza
fisica
e
psichica,
che
terminò
nel
1829.
Ma
la
sua
idea
non
si
spense
con
lui;
rimase
latente
per
cinquant’anni,
per
poi
rifiorire
e
dare
i
suoi
frutti
attraverso
un’altra
grande
mente
del
XIX
secolo:
Charles
Darwin.
Durante
il
viaggio
sulla
Beagle
(1831-1836),
e
soprattutto
dopo
lo
studio
compiuto
sulla
fauna
delle
isole,
sorsero
in
Darwin
i
primi
dubbi
sulla
stabilità
e
non
variabilità
delle
specie
vegetali
e
animali.
Grazie
ai
numerosi
dati
raccolti
e
alle
osservazioni
dirette
effettuate,
egli
elaborò
una
sua
teoria
sull'evoluzione
delle
specie,
nella
quale
teneva
grande
conto
delle
teorie
di
Malthus,
secondo
il
quale
le
popolazioni
aumentano
in
progressione
geometrica,
mentre
le
risorse
alimentari
crescono
in
semplice
progressione
aritmetica
e,
di
conseguenza,
gli
esseri
viventi
sono
costretti
alla
lotta
per
la
conquista
del
cibo
e
delle
condizioni
di
sopravvivenza.
Da
tutto
ciò
Darwin
dedusse
che
individui
appartenenti
a
una
medesima
specie
sono
soggetti
a
variazioni
imputabili
a
vari
fattori,
quali
mutamenti
ambientali,
ecc.
Distinse
quindi
le
variazioni
definite
e
comuni
a
tutti
gli
individui
della
specie
da
quelle
indefinite,
differenti
da
un
soggetto
all'altro.
Secondo
il
suo
principio
della
“lotta
per
l'esistenza”
(“struggle
for
life”),
la
vittoria
e la
sopravvivenza
spetteranno
a
quegli
individui
che
possiedono
caratteri
di
vantaggio
sui
loro
competitori.
Questi
caratteri
vantaggiosi
sono
portati
solo
da
alcuni
individui,
che
grazie
ad
essi
sopravviveranno,
conservando
i
caratteri
utili,
mentre
gli
individui
che
ne
sono
privi
sono
destinati
a
soccombere.
Così
nel
corso
della
vita
degli
individui,
e di
conseguenza
delle
specie,
si
opera
una
scelta,
o
selezione
naturale,
che
determina
la
sopravvivenza
del
più
adatto.
Questa
selezione
è
comparabile
alla
selezione
artificiale
effettuata
dagli
allevatori
(e
dagli
agricoltori)
per
migliorare
le
razze
o
per
ottenerne
di
nuove.
In
natura
essa
ottiene
il
risultato
di
formare
specie
nuove
in
continuo
adattamento.
Per
Darwin
la
morte
è
differenziatrice:
gli
individui
che
soccombono
non
sono
affatto
simili
ai
sopravviventi.
Una
specie
ha
maggiori
probabilità
di
continuare
e di
accrescersi
numericamente,
quanto
più
i
caratteri
individuali
divergono;
più
la
specie
è
plastica,
maggiori
sono
le
sue
potenzialità
evolutive.
Per
arrivare
a
queste
teorie
Darwin
conobbe
il
lavoro
compiuto
da
Lamarck;
nonostante
esso
fosse
considerato
da
Darwin
“una
porcheria”
da
cui
non
ha
ricavato
“né
un
fatto
né
un’idea”,
non
è
corretto
non
aggiungere
che
anche
Darwin
crede
tanto
nell’eredità
dei
caratteri
acquisiti
quanto
nell’effetto
dell’uso
e
del
disuso
degli
organi,
e
non
rifiuta
completamente
l’influenza
diretta
dell’ambiente.
La
selezione
naturale
per
lui
è la
più
potente
causa
di
trasformazione,
non
l’unica,
tanto
che
nelle
successive
edizioni
de
L’origine
della
specie
presenta
marcati
caratteri
lamarckiani.
La
differenza
fra
i
due
consiste
nel
modo
d’intendere
il
rapporto
fra
l’organismo
e
l’ambiente,
cioè
l’adattamento;
e
nell’ereditarietà
dei
caratteri
acquisiti.
Per
Lamarck
in
tutti
gli
esseri
viventi
c’è
una
spinta
interna
verso
il
cambiamento,
che
li
fa
diventare
più
complessi,
che
si
manifesta
attraverso
l’uso
più
o
meno
intenso
di
determinati
organi,
portandoli
al
loro
sviluppo
o
alla
loro
regressione
in
rapporto
alle
esigenze
ambientali.
I
caratteri
acquisiti
in
tale
modo
vengono
trasmessi
ai
discendenti.
Gli
esseri
viventi
cambiano,
mirando
ad
un
fine
che
rappresenta
sempre
un
miglioramento
rispetto
al
passato.
Per
Lamarck,
alla
base
dell’evoluzione
c’è
la
tendenza
verso
il
progresso,
in
nome
di
quel
principio
teologico
di
cui
le
scienze
fisiche,
al
contrario
delle
biologiche,
sono
riuscite
a
liberarsi
fin
dai
tempi
di
Galilei.
Per
Darwin,
invece,
i
caratteri
si
sviluppano
indipendentemente
dall’ambiente,
che
non
causa
la
loro
comparsa,
ma
si
limita
a
selezionarli:
sono
trasmessi
ereditariamente
non
perché
acquisiti
ma
perché
già
posseduti
da
chi
viene
selezionato.
La
straordinaria
complessità
e
funzionalità,
per
esempio
di
un
insetto,
non
è il
risultato
di
un
progetto
mirato,
ma
di
milioni
di
anni
di
prove
ed
errori
pagati
con
l’estinzione.
Per
Darwin
la
storia
della
vita
non
tende
necessariamente
al
progresso;
il
processo
evolutivo,
riunendo
il
caso
(variabilità)
e la
necessità
(selezione),
non
ha
né
un
fine
né
una
fine.
Mentre
per
Lamarck
la
modificazione
può
essere
trasmessa
in
maniera
diretta
da
individuo
a
individuo,
il
darwinismo
è
invece
basato
sul
concetto
di
popolazione
come
unità
della
modificazione
evolutiva.
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