N. 31 - Luglio 2010
(LXII)
LAICItà
RIFLESSIONI sulla separazione stato-chiesa in italia
di Aldo Marinelli
Articolo
7
della
Costituzione
italiana:
“Lo
Stato
e la
Chiesa
cattolica
sono,
ciascuno
nel
proprio
ordine,
indipendenti
e
sovrani.
I
loro
rapporti
sono
regolati
dai
Patti
Lateranensi”.
La
lucidità,
la
modernità
e la
sinteticità
dei
padri
costituenti
è
pari
all’ipocrisia,
al
vassallaggio
e
alle
alchimie
della
legislazione
attuativa
di
tale
lungimirante
messaggio
costituzionale.
In
nome
delle
radici
cristiane
della
nostra
storia,
dei
valori
cristiani
della
nostra
cultura,
dell’etica
cristiana
della
nostra
società,
la
Chiesa
pretende
riconoscimenti
che
non
competono
né a
lei
né
ad
alcuna
istituzione
religiosa.
Uno
stato
degno
di
questo
nome
non
fa
propria
alcuna
“concezione
del
mondo”,
non
giudica
alcun
culto,
filosofia
o
ideologia,
non
condivide
né
ateismo
né
religioni.
Uno
Stato
degno
di
questo
nome
produce
come
collante
sociale
il
diritto,
non
la
morale.
Uno
Stato
degno
di
questo
nome
riconosce
a
tutti
i
cittadini
i
diritti
conseguenti
e
coerenti
con
l’ordinamento
giuridico
costituito,
lasciando
alle
coscienze
individuali
la
scelta
di
avvalersene.
Questo
è
uno
Stato
laico.
Il
nostro,
invece,
è
uno
Stato
che
si
ritiene
debitore
verso
la
Chiesa
e
che
le
accorda
privilegi
privi
di
ogni
giustificazione,
privilegi
che
hanno
indotto
perfino
l’Unione
Europea
a
chiedere
spiegazioni
di
tale
trattamento
di
favore.
Si
badi:
non
perché
discriminatorio
verso
altre
religioni,
ma
perché
contrastante
con
la
doverosa
neutralità
dello
Stato
verso
tutte
le
religioni.
Con
il
pretesto
e
l’alibi
delle
radici
cristiane
della
nostra
storia,
in
realtà
lo
Stato
italiano
sembra
voler
scontare
la
colpa
di
aver
lottato
per
l’unità
e
l’indipendenza
a
danno
del
potere
temporale
del
Papato,
di
aver
costretto
la
Chiesa
all’amministrazione
del
solo
potere
spirituale,
pur
riconoscendole
ancora
oggi
un
potere
politico.
E la
Chiesa
approfitta
di
questo
riconoscimento,
permettendosi
di
parlare
ai
cittadini
e
alle
istituzioni
italiane
come
non
si
permette
di
fare
verso
altri
Paesi.
Forte
di
una
presunta
maggioranza
cattolica
che
non
c’è.
Gli
italiani
sono
probabilmente
in
maggioranza
credenti,
in
un
qualche
dio
e
soprattutto
in
una
qualche
forma
di
spiritualità
trascendente
la
morte,
molti
sono
cristiani
ma
pochi
sono
i
seguaci
della
dottrina
cattolica.
E
allora
la
Chiesa
dovrebbe
parlare
ai
suoi
fedeli,
pretendere
da
loro
ossequio
ai
propri
insegnamenti
e da
questi
essere
sostenuta,
ma
non
può
invece
pretendere
ossequio
dagli
Stati,
interferendo
con
le
loro
scelte
politiche,
né
dai
cittadini
che
cattolici
non
sono,
precludendo
i
loro
diritti
civili.
Non
può
pretendere
di
essere
sostenuta
con
le
risorse
fiscali
di
uno
Stato
cui
contribuiscono
cittadini
di
diverso
o di
nessun
credo.
Anche
sulle
radici
cristiane
della
nostra
storia
vi
sarebbe
molto
da
dire.
I
valori
cristiani
originari,
solo
oggi
sbandierati
dalla
Chiesa,
quelli
della
carità,
della
bontà,
della
fraternità,
della
famiglia
e
della
vita,
sono
valori
con
valenza
morale
che
la
nostra
storia,
e
non
la
Chiesa,
ha
saputo
trasformare
in
diritti
con
valenza
giuridica.
La
Chiesa
ne
ha
fatto
anzi
scempio
e
mercato,
strumenti
di
tortura
e di
morte,
di
persecuzione
e di
violenza,
per
quasi
duemila
anni.
Solo
con
il
Concilio
Vaticano
II
quei
valori
sono
stati
riscoperti.
Ma
grazie
all’esperienza
umana
e
non
all’illuminazione
divina,
dalla
Polis
greca
al
Corpus
Iuris
romano,
dalla
Magna
Charta
agli
Stati
costituzionali,
dal
Rinascimento
alla
Rivoluzione
francese,
dal
Risorgimento
alla
Resistenza,
quei
valori
morali
si
sono
tradotti
nei
principi
giuridici
fondamentali
delle
democrazie
occidentali:
libertà,
uguaglianza,
solidarietà,
pace,
giustizia.
Diritti,
non
concessioni.
Riconosciuti
e
garantiti
dal
principio
di
legalità.
I
privilegi
che
lo
Stato
italiano
riconosce
alla
Chiesa
passano
inosservati
in
un
mare
di
leggi,
regolamenti
amministrativi
ed
emendamenti,
quasi
sempre
con
la
scusa
della
“finalità
di
culto
o di
religione”.
Andando
a
formare
un
fiume
immenso
di
denaro
che
travasa
dallo
Stato
alla
Chiesa,
sottratto
dalle
imposte
dei
cittadini
italiani
che
dovrebbero
avere
ben
altra
destinazione.
Non
tutti
conoscono
la
scandalosa
ripartizione
dell’8
per
mille
delle
entrate
Irpef
dello
Stato.
Meno
del
40%
degli
italiani
sceglie
di
destinarlo
alla
Chiesa,
ma
questa
ne
riceve
l’88%
grazie
ai
criteri
di
ripartizione
delle
scelte
non
operate.
Anche
parte
dell’8
per
mille
destinato
dai
contribuenti
allo
Stato
ha
una
destinazione
alla
Chiesa.
E si
noti
che
solo
il
40%
di
questi
introiti
versati
alla
Chiesa
va a
coprire
gli
stipendi
del
clero.
Vi è
poi
l’8
per
cento
degli
oneri
di
urbanizzazione
riscossi
dai
Comuni
che
viene
per
legge
destinato
a
opere
di
culto
e
finalità
religiose.
Poi
ci
sono
gli
stipendi
di
funzionari
ecclesiastici
a
carico
dello
Stato
e
sostanzialmente
scelti
dai
vescovi:
dagli
insegnanti
di
religione
ai
cappellani
militari,
carcerari,
ospedalieri.
E
ancora,
i
finanziamenti
diretti
e
indiretti
agli
oratori,
alle
scuole,
agli
istituti
di
assistenza
e
per
il
restauro
degli
edifici
ecclesiastici.
E le
agevolazioni
fiscali
come
esenzioni
dall’Irpef
per
i
dipendenti
vaticani.
Le
esenzioni
Ici
non
solo
per
gli
edifici
destinati
al
culto,
ma
anche
per
oratori,
conventi,
monasteri,
abitazioni
parrocchiali,
istituti
di
istruzione,
assistenza,
beneficenza
e
via
dicendo.
Sotto
il
manto
benevolo
della
finalità
di
culto
o di
religione,
questi
immobili
restano
“esenti”
anche
se
trasformati
in
alberghi,
pensionati,
bed
&
breakfast,
ricoveri
a
pagamento,
scuole
private
o
abitazioni.
Anche
se
non
vi
si
esercita
nessuna
funzione
religiosa,
come
le
chiese
abbandonate
e
chiuse
al
pubblico,
o
aperte
solo
per
il
patrono.
Poi
vi
sono
i
contributi
per
la
gestione
delle
scuole
private,
per
la
formazione
del
personale,
per
la
copertura
nazionale
di
Radio
Maria
e
internazionale
di
Radio
Vaticana;
le
esenzioni
per
la
fornitura
di
acqua
al
Vaticano
e
per
il
trattamento
delle
acque
reflue
e di
scarico,
e
l’elenco
potrebbe
non
finire
mai.
Un
patrimonio
immobiliare
immenso,
quello
ecclesiastico,
dislocato
su
tutto
il
territorio
nazionale,
che
gode
dei
servizi
pubblici
ma
non
partecipa
alla
loro
spesa.
Questo
è il
punto.
Non
si
tratta
di
un
atteggiamento
anticlericale,
ma
di
abbattere
i
privilegi.
Ricordando
che
anche
i
beni
immobili
dello
Stato
e
degli
enti
locali
sono
soggetti
all’Ici:
le
finalità
che
ne
prevedono
l’esenzione
devono
essere
effettive
ed
esclusive.
Ancora
due
osservazioni.
La
chiese
dovrebbero
essere
luoghi
destinati
al
culto
e
quindi
aperte
al
pubblico
dei
credenti,
tutti
i
giorni
e
per
gran
parte
della
giornata.
Invece
moltissime
di
esse
sono
perennemente
chiuse
o
aperte
solo
la
domenica,
o
addirittura
solo
in
“occasioni
eccezionali”.
Spesso
sono
anche
luoghi
di
interesse
artistico
ed è
quasi
impossibile
visitarle.
Visto
che
sono
esenti
dall’ICI
dovrebbero
rispettare
la
loro
destinazione
a
servizio
dei
credenti,
e
riguardo
all’interesse
turistico
dovrebbe
esserci
almeno
un
accordo
sugli
orari
di
apertura.
Quanto
alle
scuole
private,
non
riesco
a
concepire
che
possano
essere
finanziate
anche
solo
parzialmente
con
denaro
pubblico.
A
parte
il
divieto
costituzionale
(“Enti
e
privati
hanno
il
diritto
di
istituire
scuole
e
istituti
di
educazione,
senza
oneri
per
lo
Stato”
art.
33),
aggirato
con
i
sussidi
alle
famiglie
nell’incredibile
silenzio
della
Corte
Costituzionale,
una
simile
previsione
potrebbe
essere
giustificata
solo
dalla
carenza
di
posti
nelle
scuole
pubbliche,
una
specie
di
“appalto”
dell’istruzione
al
privato,
sul
modello
delle
convenzioni
regionali
con
le
strutture
sanitarie
private.
Ma
ancora
una
volta
la
Costituzione
obbliga
lo
Stato
a
coprire
tutta
la
domanda
di
istruzione.
E
allora,
se
voglio
mandare
a
scuola
privata
i
miei
figli,
devo
pagarla.
Sarebbe
come
pretendere
che
lo
Stato
mi
rimborsi
la
parcella
di
un
chirurgo
cui
mi
rivolgo
privatamente,
non
fidandomi
o
non
volendo
avvalermi
delle
strutture
ospedaliere
che
pure
mi
offrono
quello
stesso
intervento.
Ho
diritto
all’istruzione
pubblica,
oppure
a
farmi
istruire
da
chi
desidero,
ma
in
questo
caso
non
a
carico
dello
Stato.
Sull’ora
di
religione
nelle
scuole
pubbliche,
va
fatta
una
duplice
riflessione.
Sulla
materia
e
sull’insegnamento.
é
inconcepibile
che
l’ora
di
religione
sia
occasione
di
indottrinamento,
reclutamento
e
propaganda
cattolica,
anziché
di
studio.
è
inammissibile
che
sia
proposta
da
insegnanti
scelti
o
comunque
subordinati
al
placet
vescovile
e
alle
relative
condizioni
personali
e
ideologiche
previste,
anziché
assicurare
libertà
di
interpretazione.
è
per
questo
che,
dopo
tante
battaglie,
si è
potuto
non
avvalersi
di
questo
insegnamento.
Ma,
cedendo
alle
pressioni
della
CEI
che
temeva
un
abbandono
massivo,
i
nostri
governi
non
hanno
saputo
andare
fino
in
fondo,
aggiungendo
l’insegnamento
religioso
quale
materia
“supplementare”,
magari
da
collocare
a
inizio
o
fine
lezioni.
Si
sono
invece
inventati
ore
di
lezioni
integrative
alternative
per
i
non
fruitori,
privandone
chi
segue
l’ora
di
religione
e
sobbarcandosi
altri
oneri.
Signori
vescovi,
il
calo
di
frequenza
è
anche
colpa
vostra.
è
inarrestabile
come
quello
dei
matrimoni
religiosi
e
delle
vocazioni,
dei
praticanti
e
dei
fruitori
di
sacramenti,
come
l’aumento
delle
coppie
di
fatto.
Proviamo
a
cambiare
registro.
L’insegnamento
della
religione
potrebbe
avere
una
duplice
direzione.
Potrebbe
avere
a
oggetto
la
storia
comparata
delle
religioni
o
l’esame
e
commento
delle
scritture
sacre
cristiane.
La
prima
idea
sarebbe
assai
utile
per
capire
il
senso
della
religiosità,
per
conoscer
meglio
altre
culture
e
altri
sistemi
filosofici,
per
abituarsi
al
confronto
e
mettersi
in
discussione.
è
stata
più
volte
proposta
e
abbandonata,
per
la
netta
opposizione
della
CEI.
Forse
perché
lo
studio
della
nascita
delle
varie
religioni,
dei
loro
profeti
e
dei
loro
testi
sacri,
le
analogie
e le
affinità
dei
miti
e
dei
misteri,
le
diverse
interpretazioni
della
vita
e
della
morte
cui
si
rifanno
lascerebbero
trasparire
come
le
religioni
siano
una
creazione
dell’uomo,
la
proiezione
del
suo
bisogno
di
trovare
collocazione
tra
l’inizio
e la
fine
di
tutto,
di
garantirsi
immortalità
ed
eternità,
un
paradiso
o
una
reincarnazione.
La
seconda
proposta
presenta
altri
aspetti
altrettanto
positivi.
L’analisi
del
Vecchio
e
del
Nuovo
Testamento,
oltre
a
rappresentare
una
lettura
di
grande
contenuto
ideale,
aiuterebbe
a
capire
quella
visione
del
mondo
(filosofica
prima
che
religiosa)
che
ha
accompagnato
e
condizionato
il
nostro
pensiero
occidentale,
così
come
Omero
o
Dante,
i
tragediografi
greci
o
Shakespeare.
Senza
essere
irriverenti.
Però
nell’uno
e
nell’altro
caso
questa
disciplina
dovrebbe
essere
esercitata
con
assoluta
libertà
di
insegnamento,
di
pensiero
e
interpretazione.
Da
professori
della
scuola
pubblica,
da
questa
pagati
e
scelti,
senza
interferenze
delle
autorità
religiose.
La
religione
come
materia
laica,
di
conoscenza
e
non
di
proselitismo.
In
questi
termini
potrebbe
anche
ridiventare
materia
obbligatoria.
Di
studio
del
pensiero,
non
di
condizionamento
delle
coscienze.
Infine,
vorrei
esprimere
qualche
riflessione
in
merito
alle
discussioni
ricorrenti
sulla
presenza
dei
simboli
cristiani
negli
edifici
pubblici.
Impedirne
l’ingresso
o
allontanarli
quando
già
vi
siano
non
è un
atto
di
spregio
né
di
disconoscimento.
Semplicemente,
questi
non
hanno
nulla
a
che
fare
con
le
prerogative
di
uno
Stato
laico,
che
deve
tutelare
la
libertà
di
pensiero
filosofico
e
religioso.
Tutte
le
istituzioni
hanno
i
loro
simboli.
Allo
Stato
la
bandiera,
alla
Chiesa
la
croce.
Ebbene,
credo
che
la
prima
debba
essere
presente
non
solo
negli
edifici
istituzionali,
ma
anche
nelle
scuole,
nei
tribunali,
nelle
caserme
e in
tutti
gli
uffici
pubblici.
La
seconda
dovrebbe
invece
essere
presente
in
tutte
le
chiese
e in
tutti
gli
edifici
ecclesiastici.
Né
più,
né
meno.
Non
a
tutela
dei
non
cattolici,
ma
della
laicità
e
neutralità
religiosa
dello
Stato.
Si
eviterebbero
tante
polemiche,
tanti
rigurgiti
pericolosi,
tante
manifestazioni
di
fanatismo
e
intolleranza.
Tanto
più
in
una
società
sempre
più
secolarizzata,
sempre
più
multietnica.
Ancora
più
allucinante
e
pericolosa
l’idea
di
qualche
benpensante
di
esporre
il
crocifisso
ed
eventualmente
anche
i
simboli
di
altre
religioni...
Quali?
Quanti?
Quale
per
primo?
Quale
sopra
o
sotto?
Dove?
Si
scatenerebbero
polemiche
senza
fine,
si
rischierebbe
il
ridicolo
di
un
mix
di
simboli
votivi,
una
sorta
di
paganesimo
moderno.
Non
scherziamo
con
il
fuoco.
Non
utilizziamo
anche
la
fede
per
ingraziarsi
l’elettorato.
La
religione
è
una
cosa
seria.
Vorrei
poi
sottolineare
come
il
crocifisso
sia
un’immagine
estremamente
dura
e
sconvolgente.
Qualche
nostro
politico,
che
da
buon
cattolico
crede
di
essere
investito
dalla
verità
rivelata
e
universale
da
imporre
a
tutti,
si è
finto
incredulo
e
meravigliato
che
a
qualcuno
possa
dar
fastidio
l’immagine
del
crocifisso.
Ha
detto
che
si
tratta
di
un
simbolo
di
amore
e di
redenzione,
del
sacrificio
di
Cristo
in
remissione
dei
peccati
e
per
la
salvezza
dell’umanità,
e
dunque
di
un
messaggio
divino
di
pace
e di
fratellanza.
Senza
considerare
che
questo
significato
fa
parte
della
“nostra”
cultura,
non
della
storia
universale.
Che
il
crocifisso
è
l’immagine
di
una
tortura,
di
un
uomo
inchiodato
vivo
su
di
una
croce.
Un’agonia
spaventosa.
Che
può
suscitare
orrore,
che
può
sconvolgere
la
mente,
che
può
spaventare.
Specie
un
bambino.
Soprattutto
un
bambino
cresciuto
con
un’altra
storia,
altro
credo,
altri
simboli.
Che
direbbe
quello
stesso
politico
se
suo
figlio
trovasse
sulla
cattedra
della
propria
scuola
la
rappresentazione
di
un
uomo
bruciato
vivo
come
sacrificio
umano
agli
dei
di
una
religione
lontana
dalla
nostra?
è il
solito
imperialismo
culturale.
Credere
che
la
nostra
cultura
sia
migliore
di
altre,
mentre
ha
solo
avuto
un’altra
evoluzione.
Anche
noi
non
siamo
stati
sempre
così
tolleranti.
Magari
abbiamo
oggi
elaborato
e
maturato
diritti
universali
per
noi
acquisiti
e
irrinunciabili,
ma
lasciamo
che
ciascuno
cresca,
combatta
e
raggiunga
la
propria
identità
culturale
e
sociale.
Mettiamo
a
disposizione
la
nostra
esperienza,
le
nostre
conquiste
e la
nostra
storia.
Insieme
si
potrebbe
far
nascere
qualcosa
di
diverso,
forse
migliore
delle
nostre
presuntuose
convinzioni.
Nota
editoriale:
Il
presente
testo
è
estratto
dal
volume
Alfabeto
Italia
-
riflessioni
e
provocazioni
per
un
paese
"a
pezzi".
Capitolo
L
come
Laicità
(GBE
2010
http://www.gbeditoria.it/alfabeto_italia_catalogo.htm).