.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

arte


N. 93 - Settembre 2015 (CXXIV)

Il Lago dei cigni, storia fatata
Dal mito al ballo di Ciaikovskij

di Claudia Antonella Pastorino

 

I due animali alati più celebrati dal romanticismo letterario-musicale restano, senza dubbio, la rondine e il cigno, ma il secondo, più della prima, ha evocato ed evoca tuttora miti ancestrali.

 

La rondine è di solito accostata a canzoni melodiche del passato malinconicamente richiamanti nostalgia, partenza, abbandono, solitudine (Non ti scordar di me, Rondine al nido), ma è anche il titolo di una delle opere minori di Puccini (La Rondine, 1917) o, come tante specie animali, viene raccontata in alcune fiabe (ad esempio ne Il Principe Felice di Oscar Wilde, dove un rondinotto si sacrifica per amore del protagonista).

 

In altri casi esprime un certo parallelismo poetico-tragico, soprattutto nel Pascoli, il quale era solito equiparare la condizione degli uccelli a quella dell’orfano fino a identificare l’immagine-vittima della rondine uccisa in volo (X agosto) col padre Ruggero, assassinato sul suo calesse rientrando a casa.

 

Il cigno ha un significato più arcano, lontano nel tempo, legato a regni, divinità ed eroi.

Giove, per sedurre Leda, sposa del re di Sparta Tindaro, assume le sembianze d’un cigno; la regina dà alla luce due uova da cui nasceranno Castore e Polluce, Clitemnestra ed Elena, la futura sposa di Menelao poi causa della guerra di Troia. Esistono inoltre alcune credenze europee del secolo diciannovesimo secondo cui i bambini vengono portati dal grembo della terra da cigni.

 

Poi c’è il cigno-navicella nel Lohengrin di Wagner, i dipinti e gli oggetti (persino una bacinella da bagno) raffiguranti il cigno nelle sale del castello di Neuschwanstein, il famoso rifugio alpino di Ludwig II di Baviera, sempre ispirati al Lohengrin e alla passione personale del sovrano, fin da bambino, per questo animale acquatico. 

 

Lo stesso lago, come elemento d’acqua, implica un che di misterioso, d’impalpabile, come il lago che circonda l’isola sacra di Avalon e nasconde alla vista di tutti il magico regno delle Dame del Lago (ciclo arturiano).

 

Anche se Il lago dei cigni è la fiaba per eccellenza del repertorio ballettistico classico, non rientra nel ciclo comune delle fiabe popolari, non esiste nemmeno come racconto unico e unitario, perché la storia è un insieme di spezzoni ricavati da fonti diverse e nessuna certa al cento per cento. Elena Grillo ha cercato di ricostruirne le fonti originali attingendo a varie tradizioni: il poema epico russo Mikhail Ivanovic il vagabondo, in cui Mikhail prende di mira con l’arco un magnifico cigno, ma è ammonito dall’animale che lo coglierà sventura se verrà ucciso, e si trasforma in fanciulla; oppure Il velo rubato, una leggenda tedesca di Johann Musaus del 1700, o una poesia di Pushkin, La storia dello zar Saltan, ricavata da un libretto edito nel 1869 che Ciaikovskij custodiva nella propria biblioteca con note autografe a matita, a margine. Vi si parla di una zarina-cigno che ispirò il pittore Michail Vrubel.

 

Altra fonte attendibile viene dalle Metamorfosi di Ovidio, in cui c’è un lago di lacrime che si ritrova nella prima stesura del libretto, a proposito delle lacrime versate dal nonno di Odette. Di più non si sa, tranne che l’insieme degli elementi che compongono il Lago provengono da leggende diverse, soprattutto di lingua tedesca.

 

Quel che è certo è che il fascino della fiaba, per chi ne conosce anche la musica, non sfugge finanche ai profani, perché Ciaikovskij ha realizzato una musica che calza con la fiaba come se lui stesso fosse lì a raccontarla. L’impressione è quella di leggerla attraverso la musica, di sentirsela narrare.

 

Caposaldo del grande repertorio di genere, il Lago è una magnifica turbolenza di colori, con tutte le tinte e le gradazioni possibili. La partitura è una raffica incessante, in rapida successione, di incantesimi sonori; si distende, si isola, si allarga, dà voce alle singole espressioni degli archi o dei legni, e sa erompere come una mareggiata nell’intera orchestra.

 

Si tratta di un’infinità di episodi tutti avvinti tra loro come nodi scorsoi e che riconducono alla bellezza della fiaba, alla perfezione di una musica pari a un diadema di pietre preziose. Due anime convivono nella musica, all’unisono e in contraddizione al tempo stesso, ma senza mai smentirsi a vicenda: da una parte serenità apparente, sfolgorio di luci e di colori, amore, sogno, opulenza di situazioni musicalmente brillanti; dall’altra tenebre, temporali, magia e maleficio, tormento, lotta e dramma.

 

Sul lago d’acqua il motivo d’amore nasce problematico, prosegue problematico e finisce ancora peggio, perché i contenuti e i simbolismi presenti in questa fiaba non hanno nulla di semplice o di scontato. Manca il “vissero felici e contenti”in senso assoluto, tutto è complicato a cominciare dai personaggi.

 

Solo il triangolo classico (i due innamorati e il cattivo) è tenuto in piedi secondo la tradizione e, come nella vita, la femminilità è divisa in due facce ambivalenti: la donna pura, l’innocenza, e la donna spregiudicata, padrona dell’arte della seduzione, che nella fiaba diventa maga o strega (come Circe), intenta a mettere in atto i suoi malefici per ammaliare, disorientare, far capitolare la preda.

 

In realtà, attraverso una lettura più ampia che tocchi gli aspetti psicoanalitici (dunque non chiaramente visibili) della fiaba, Odette e Odile sono due facce della stessa persona. La stessa distribuzione degli atti segue lo schema contraddittorio dei due paralleli congiunti (atto I/III, atto II/IV), che in apparenza esprimono opposizione, contrasto, ma che in realtà sono complementari l’uno all’altro.

 

In quest’opera ci sono il giorno (le feste al castello) e la notte (i notturni sul lago), la luce e le tenebre, il bianco e il nero come Odette e Odile, i due cigni-femmina rivali.

 

Lo stesso svolgimento scenico, coreografico e musicale ne è una prova. Al primo atto troviamo quell’incredibile eruzione di magma che sono le danze in onore del Principe, più naturalmente, come all’inizio, il famoso tema del cigno affidato all’oboe quando Sigfrido vede lo stormo dei cigni in volo.

 

Al secondo atto il racconto di Odette è sviluppato a meraviglia, tutto discorsivo, tutto in ascesa, prima discreto e quasi in sordina, poi angoscioso e tragico; si placa e si altera, s’intreccia col maleficio onnipresente in un turbine di sonorità minacciose, asprigne.

 

La presenza di Rothbart, che innervosisce sempre Odette e i cigni, è infatti scandita da ottoni e percussioni in rapida sequenza. Le danze dei cigni s’incrociano con la presenza della loro compagna-guida e il suo protagonismo solitario, poi la coppia felice dà spazio all’idillio con la complicità di violino e violoncello.

 

I piccoli cigni fanno da spalla a Odette e hanno belle oasi musicali con diversi valzer, culminanti con la splendida Coda (Allegro vivace), cui subentra, alla fine dell’atto, la distensione dolorosa dell’oboe (quando lei e le compagne tornano al loro destino animale) nel famoso tema che man mano si dilegua in lontananza fino a spegnersi del tutto.

 

Il terzo atto ha una fisionomia particolare, perché entra in scena la stregoneria e, con essa, la grande seduzione del cigno nero. L’entrata di Odile e di Rothbart è accompagnata da forte tensione, persino il tema del cigno ripreso in rapidità ansimante diventa quasi “brutto”, soffocante. La scena adescatrice presentata da Odile equivarrebbe, nel teatro d’opera, a una grande scena lirica con tanto di recitativo, aria e cabaletta, ma qui è a passi di danza ch’ella irretisce il Principe, proprio come fa Carmen con Don José nell’opera lirica bizetiana. Il terzo atto è praticamente suo.

 

I legni, a ritmo saltellante, accompagnano e accentuano questo gioco erotico, cui segue la risposta festosa di Sigfrido e, di rimando, l’entusiasmo di Odile trionfante (Coda, Allegro molto). Le danze nazionali che si frappongono isolano un po’ l’atmosfera da quanto sta accadendo; potremmo dire che fanno parte a sé e hanno un senso compiuto a prescindere dal contesto in cui sono inserite, anche per il compito intrinseco di allentare un po’ la tensione e aumentare l’attesa. Interrompono l’azione per intrattenere, ma nessuno se ne accorge. Quando Odile torna alla carica e i due danzano insieme, l’inganno è al suo compimento, ma l’incantesimo malvagio si spezza, ormai troppo tardi, nel momento in cui l’ingenuo principe accetta ufficialmente Odile quale futura sposa.

 

Torna la realtà, l’inganno è svelato, la confusione è all’apice. Il Principe si scuote dal suo sogno ad occhi aperti e capisce di essere stato vittima di un raggiro, fatale purtroppo all’amore e alla fiducia riposta.

 

L’atto quarto sa proprio di epilogo, come quasi tutti gli ultimi atti in teatro che sono perlopiù dei finali. I cigni attendono, nella danza, Odette, che arriva ansante e stravolta per il tradimento subìto. Dalla musica se ne sente la disperazione, la solitudine, lo strazio senza rimedio. Trafelata, racconta tutto alle compagne. Il temporale in arrivo accompagna il suo dolore, lo rende ancora più vivo, anche fisicamente.

 

Arriva, e si sente, il pentimento del Principe che la cerca disperatamente in mezzo alle compagne, sembra di sentirne il respiro e i battiti. Si sente l’affanno del loro breve chiarimento, poi si susseguono, con il perdono di Odette, la presenza di Rothbart, la furia del lago in tempesta, l’esplosione del tema amoroso del cigno, ancora l’incalzare degli elementi e le bordate dell’orchestra, fino alla quiescenza finale.

 

In sostanza, quest’atto è una coda, non ha gli sviluppi e i colpi di scena dei precedenti. La conclusione arriva rapida, nessuno fa niente di speciale: né i cigni, né Odette, né il Principe, né Rothbart, ma lo spessore della musica, se pur sembra cedere in ispirazione, resta comunque nobilissimo. Basti pensare che, nell’intero balletto, anche i momenti retorici sono imponenti: l’ingresso della principessa madre, la musica di corte, l’arrivo degli invitati, i brevi convenevoli tra madre e figlio.

 

Fiaba e Musica

 

Eppure, nonostante l’incanto con cui la musica riesce a saldare fiaba e personaggi, pare che Ciaikovskij non abbia dato un risalto così speciale a questa sua creazione, buttata lì quasi per caso e per questione di lavoro: accettò di musicarla per ottocento rubli. Persino il magnifico tema cardine del cigno proviene da un balletto domestico in un atto, composto per i figli della sorella Alexandra Davydova, di cui nel 1871 era ospite nella tenuta di Kamenka, in Ucraina.

 

In seguito uno dei nipoti, Ivan Davidov, vi riconoscerà il celebre tema del cigno. Pare che l’idea di scrivere il Lago sia affiorata durante un lungo viaggio in Europa, Germania compresa (dove la fiaba sarà ambientata), viaggio effettuato dal compositore nel giugno 1868, in compagnia di Vladimir Petrovic Begicev, sovrintendente dei Teatri Imperiali di Mosca (autore della sceneggiatura del balletto), di un certo de Lazari, artista e letterato, e di un figliastro di Begicev, un certo Silovskij, col quale intreccerà poi un’importante relazione.

 

Il musicista cominciò a lavorarvi già nel 1875, concludendo il manoscritto e sigillandolo il 22 aprile 1876, ma la prima del 4 marzo 1877 al Bol’soj si rivelerà un tonfo per una serie di circostanze non proprio favorevoli: i difetti della coreografia dell’austriaco Julius Wenzel Reisinger (che mutilò la splendida partitura, inserendo molti pezzi di Cesare Pugni, compositore di balletti allora in voga), l’incapacità della prima ballerina, Pelagia Michailovna Karpakova, considerata mediocre ma molto influente per aver sposato l’industriale greco Miliotis, tanto da soppiantare la più dotata e meno giovane Anna Sobenscianskaya con cui si alternò sulla scena.

 

Per la prima danzatrice Ciaikovskij scrisse la danza russa, per la seconda e il partner Victor Grillert il pas de deux, non incluso nell’edizione definitiva né più ripescato se non alla fine degli anni Cinquanta, nel Museo Ciaikovskij a Klin. A determinare l’insuccesso della prima produzione contribuì non solo la mediocrità dei solisti, ma dell’intero corpo di ballo, in quanto nessuno riuscì a interpretare la vicenda e darvi la necessaria espressione “teatrale” così importante in un titolo che stava aprendo alla danza frontiere allora inimmaginabili.

 

Non tutti i critici del tempo seppero però apprezzare la musica del Lago, tranne Hermann Laroche che fece rilevare quanto sotto “l’aspetto musicale” fosse “il miglior balletto che abbia mai ascoltato”.

 

A Mosca il titolo rimase in cartellone per sei anni con trentatré esecuzioni. Nel 1880 e nel 1882 ebbero luogo due riprese su una nuova coreografia di Olaf Hansen, ma con scarso successo, dopo di che si cominciò a tagliare e aggiungere. Petipa, per primo, si accorse dell’enorme potenziale, non ancora saggiamente valorizzato, contenuto nel Lago dei cigni, ma Ciaikovskij non arrivò purtroppo a vederne la realizzazione a causa della morte, avvenuta il 6 novembre 1893.

 

Lev Ivanov ne mise in scena tutto il secondo atto, con protagonista l’italiana Pierina Legnani, durante il concerto del 1° marzo 1894 in memoria del compositore, e da allora, per l’eccezionale capacità di comprenderne la musica, la sua coreografia rimase fino ad oggi quasi immutata. Si preparava così la strada per una nuova rappresentazione, basata sul cambiamento dell’ordine di alcuni numeri in partitura secondo le indicazioni di Marius Petipa.

 

Le modifiche vennero fatte dal direttore d’orchestra Riccardo Drigo e le scene riviste da Modest Ciaikovskij, fratello del musicista, per arrivare dunque alla versione integrale del 27 gennaio 1895 al teatro Marjnskj, poi Kirov dal 1935, protagonisti la Legnani (con i suoi fouettés) e Pavel Gerdt. Da questo momento ebbe inizio la nuova e definitiva fortuna di un grande classico tra i classici, che anche sul fronte occidentale avrà la sua consacrazione.

 

Infatti la prima versione integrale, più attendibile rispetto a quella originale di Pietroburgo del 27 gennaio 1895, fu dovuta a Nikolas Sergeev, che la mise in scena nel 1934 a Londra. Fino a oggi è comunque certo che le vicende di Odette e Sigfrido hanno avuto il privilegio dei più importanti cartelloni teatrali rispetto agli altri titoli del repertorio classico, ogni anno nei teatri è presente con repliche suddivise in tutta la stagione.

 

In confronto, gli altri due celebri balletti composti dall’autore, La bella addormentata del 1890 e Lo Schiaccianoci del 1892, diventano rappresentazioni occasionali (Lo Schiaccianoci, fiaba di Natale, non manca mai nell’imminenza di queste feste), mai però così sporadiche come le due più note opere liriche scritte da Ciaikovskij: l’Eugenio Onieghin (Evghenij Onieghin) del 1879 e La dama di picche (Pikovaia Dama) del 1890.

 

Riguardo alla famosa triade, critici e artisti di settore concordano da sempre sulla priorità musicale de La bella addormentata rispetto alle due consorelle di lusso. Per Aldo Nicastro il Lago non raggiungerebbe «il grado di concentrazione e la finezza de La bella addormentata nel bosco, né le pure golosità timbriche dello Schiaccianoci, e tuttavia si attesta come un primum nella musica da ballo dell’Ottocento».

 

Nel volume Nureyev, la sua arte la sua vita, La bella addormentata è considerata «il più puro dei balletti accademici, la più bella favola musicata da Cajkovskij». Confrontandola al Lago, Alberto Testa riporta l’acuto giudizio di Fabio Duca: «Musicalmente il Lago è di grande complessità analitica. Non sotto il profilo strutturale ma simbolico.

 

È musica fortemente contrastata, musica, au fond, sottilmente violenta, cruda (lontana dalle piacevolezze timbriche di Bella e di Schiaccianoci)». Molto più cauto, se non addirittura all’opposto, Kurt von Wolfurt, che nel volume Ciaikovski rileva che la musica de La bella addormentata «risulta alquanto inconsistente e priva di originalità»,

mentre Lo Schiaccianoci, tratto da una fiaba di E.T.A. Hoffmann, gli sembra «delizioso... ricco di invenzione... senza dubbio l’opera meglio riuscita nel genere… musica scintillante e piena di brio».

 

Poi però ridimensiona il tutto, precisando alle pagine 286-287 che «si tratta di composizioni piacevoli che tuttavia non si elevano al di sopra della musica d’occasione; composizioni che accarezzano l’orecchio, ma non calano in profondità». Tuttavia su questo discorso, alla stessa pagina 287, interviene una provvidenziale nota 1 a chiarire che, a proposito de Lo Schiaccianoci, «l’interesse musicale di questa partitura è assai alto per l’eleganza raffinata e misuratissima della sua orchestrazione».

 

Comunque la si veda, non bisogna dimenticare l’immane sforzo innovativo di Ciaikovskij sulla musica ballettistica del suo tempo. Egli aveva creato musica nuova per balletti altrettanto nuovi da eseguire e da capire. In quel periodo, le condizioni del ballo in Russia (per tecnica, competenza, capacità di comprendere il nuovo), non erano certo delle migliori.

 

C’erano da superare molti scogli, tra cui la complessa orchestrazione, le difficoltà tecniche ed espressive del danzatore, l’azione teatrale e musicale non disgiunta dalla parte coreutica, e a tutto questo non si era abituati. Il balletto si faceva “sinfonico”, dunque più elaborato, raffinato, ma in risposta a questa tendenza la vecchia tradizione ballettistica cara al pubblico e alla critica del tempo, faceva sentire la sua protesta attraverso il tepore generale dei consensi.

 

Furono questi limiti storici presenti nella cultura musicale dell’epoca a determinare il successo in minore di un capolavoro come il Lago, oggi per fortuna rappresentato al pari di un titolo d’opera come Aida o Traviata o Carmen. La fiaba del cigno bianco e del cigno nero, l’unico titolo di repertorio che dia così ampio spazio individuale a tutti i membri del corpo di ballo, ha finito col conquistare l’interesse di quella critica dedita non soltanto al sinfonismo o al teatro d’opera.

 

John Warrack, nella sua nota introduttiva a un’edizione discografica del Lago (Decca, agosto 1975, National Philharmonic Orchestra diretta da Richard Bonynge), lo ha definito «dramma musicale in forma di danza». Distingue due aree tonali, quella di Si, e derivate, per le forze del male rappresentate da Rothbart, quella di La per le altre scene, ma questo rigoroso impianto tonale pare sia stato vanificato dalle modifiche apportate da Drigo alla partitura, di cui centinaia di misure sarebbero, da allora, andate purtroppo perdute. Per Warrack questo balletto «forse possiede l’impronta più sinfonica della sua produzione ballettistica... perché in esso Caikovskij tentò di coinvolgere tutti gli elementi tradizionali della danza in una narrazione musicale fortemente espressiva».

 

Verissima quest’ultima considerazione. Basti pensare al ciclo di danze che animano la festa del Principe nel terzo atto, compresa quella magnifica Danza russa, inserita per la Karpakova, sempre ingiustamente tagliata nelle attuali versioni teatrali.

 

Elena Grillo ne spiega la bellezza «perché sintesi equilibrata di tutte le sue componenti: musica, danza corale, danza solistica, parti mimiche, contenuto drammatico e così via. È struttura solidissima che nel rigoroso linguaggio del balletto classico (e nel termine “classico” comprendiamo tutte le varianti possibili del carattere, del mezzo carattere, del classico puro che contribuiscono a costruire il balletto come genere) esprime dei contenuti di valore universale».

 

Rodolfo Celletti ne parla in un suo taccuino musicale su opera e balletto, definendolo «una specie di grand’opéra del balletto. C’è dentro di tutto, intendo dire, e quindi soffre di dilatazioni, di enunciazioni ovvie, di discontinuità d’ispirazione. Sono cose da lungo tempo acclarate, ma che incidono poco sul risultato complessivo perché gli elementi fondamentali d’ogni grande fiaba - l’innocenza perseguitata e il mistero - sono esposti con grande forza di convinzione.

 

Si pensi soltanto al potere connettivo del tema di Odette, che ricorre nei momenti sentimentalmente più tesi pudico e trepidante, così come l’oboe lo delinea, ma poi si lascia prendere dal vortice dell’appassionata concitazione della piena orchestra. Oppure si pensi allo scoperto candore del violino strappacore che geme, nel secondo atto,

fra le nebbie del lago affatato».

 

Odette, Odile e Sigfrido, oltre la fiaba

 

Bruno Bettelheim, specialista di psicologia infantile, è riuscito a penetrare nei meccanismi ignoti e, per molti aspetti, impensabili della fiaba, tracciando degli schemi-modello ideali di cui servirsi per capire queste storie solo in apparenza fantastiche. Di tutta la letteratura per l’infanzia, egli ritiene che nulla possa arricchire e divertire piccoli e adulti quanto la fiaba popolare, considerata una delle basi formative dello sviluppo della personalità (la fantasia, non dimentichiamolo, stimola l’intelletto e la creatività, come insegna la pedagogia di ogni tempo).

 

Bettelheim riporta il pensiero di Schiller che, ne I Piccolomini (III, 4), affermò: «C’è un significato più profondo nelle fiabe che mi furono narrate nella mia infanzia che nella verità qual è insegnata dalla vita». Anche Charles Dickens rimase impressionato dalla suggestione delle fiabe, al punto di ammettere l’importanza che esse ebbero sul suo estro creativo-letterario. Nel mondo della lirica, fiabe come Turandot, Cenerentola o il tetro racconto medievale narrato da Ferrando quale antefatto all’intera vicenda de Il Trovatore, o il mito dei Nibelunghi nella tetralogia wagneriana, esercitano un fascino superiore rispetto ad altre storie.

 

Le opere tratte dalla mitologia classica hanno più solennità, un peso del dramma e dell’esistenza che la fiaba non ha o che risolve in modo diverso. Il mito è diretto, la fiaba parla indirettamente. Per gli antichi, la nascita di Roma o l’origine del mondo non nasce forse dal mito? E le storie note e meno note scaturite, di tempo in tempo, dal mondo pagano, dai sacri riti del paganesimo?

 

La Bibbia stessa rievoca miti, racconti, parabole. La fiaba va vista dunque come forma d’arte, è letteratura, ma anche psicologia e pedagogia perché non rispecchia il mondo esterno, ma il mondo interiore dell’individuo nel suo processo evolutivo.

 

Le favole, a differenza delle fiabe, hanno come fine una morale esplicita, dichiarata, ma senza gli sviluppi e i significati nascosti della fiaba. Diventa così una sentenza, non un racconto. La fiaba lascia invece liberi di decidere, di trarre conclusioni, s’incontra alla perfezione con il modo di pensare e di agire che il bambino ha rispetto al mondo.

 

La fiaba più antica è contenuta in un papiro egizio del 1250 a.C., rinvenuto nella prima metà dell’Ottocento. Anche Cenerentola ha origini remote, essendo stata trovata scritta in Cina nel nono secolo a.C., ma di questa popolarissima fiaba esistono, sembra, ben 345 versioni. In quella dei fratelli Grimm ma un po’ in tutte le fiabe, anche il principe di Cenerentola dovrà scegliersi una sposa durante una festa di tre giorni data dal re suo padre, così come Sigfrido per volontà della Regina Madre.

 

La letteratura favolistica in cui possiamo inquadrare Il lago dei cigni è quella della cosiddetta “sposa-animale”, che però è un ciclo meno noto rispetto a quello dello “sposo-animale”, assai ricorrente nelle fiabe.

 

Nella maggior parte dei racconti occidentali, la bestia è di sesso maschile, e a liberarla dall’incantesimo è solo l’amore di una donna, come accade proprio alla donna-cigno che ha bisogno dell’amore puro del Principe per liberarsi del maleficio che la imprigiona al lago. Notiamo che anche nella fiaba Il tamburino dei fratelli Grimm, la fanciulla è stata mutata in cigno. Per Bettelheim, che analizza questi risvolti della personalità, è evidente che solo nelle femmine l’aspetto fisico viene presentato gradevole e leggiadro, mentre nel maschio è bestiale e ripugnante.

 

Cosa vuol dire? Sia da parte dell’uomo che della donna, il monito è lo stesso: fino a quando il sesso appare sgradevole e animalesco per uno dei due, esso rimarrà bestiale nell’altro, che di conseguenza non può essere liberato dall’incantesimo, cioè dalle inibizioni e dalla ripugnanza. Precisa anzi: «Fintanto che un partner aborrisce il sesso l’altro non può goderne; fintanto che un partner lo vede come qualcosa di animalesco, l’altro rimane parzialmente un animale per se stesso e il suo partner».

 

Quando poi, da parte di uno dei due - generalmente la donna, ma nel Lago il ruolo è invertito - c’è un desiderio insopprimibile di affrettare le cose, trasgredendo al volere dell’altro, ecco che il partner tradito scompare, si dà alla fuga o avviene qualcosa d’irreparabile. È quanto si legge nel mito di Amore e Psiche dalle Metamorfosi o L’asino d’oro di Apuleio, nella fiaba rumena Il maiale fatato, in Barbablù di Perrault o nel Re Porco, quest’ultima ricordata dal Carducci come “novella” nella poesia Davanti San Guido.

 

Anche qui si narra di una fanciulla che ha sposato un uomo trasformato in porco, e che solo di notte ella vede nel suo aspetto umano di giovane bellissimo. Purtroppo, con la stessa leggerezza di Psiche, non sa mantenere il segreto e perde lo sposo, tanto che per ritrovarlo e recuperare la felicità perduta dovrà affrontare ogni sorta di sacrifici e di prove. Troppa superficialità e curiosità guastano, insomma, l’amore e incrinano i rapporti, come insegna anche la storia del Lohengrin wagneriano, dove Elsa rovina tutto con la sua curiosità incontrollata.

 

Ciò sta ad indicare che per la maturità, la saggezza e lo sviluppo sessuale, entrambi i partners devono essere pronti insieme, altrimenti il rapporto si risolve in disastro; allo stesso modo diventa inutile precorrere i tempi, come cerca di fare uno dei due nell’inseguire conoscenza ed esperienza precoci, in molti casi fatali per l’integrità del rapporto stesso.

 

Ne Il lago, il Principe è ancora in uno stato adolescenziale, non è pronto all’amore e ad accedere a uno stadio superiore d’esistenza proprio della maturità, cosa che la maggiore età appena conseguita non può assicurare a priori. Sigfrido rigetta i progetti materni e non vuol saperne delle bellissime fanciulle da scegliere nel corso della festa data in suo onore.

 

Pur avendo in cuor suo scelto Odette e avendole giurato amore eterno, in realtà disattende l’impegno e non esita, presentatasi l’occasione, a preferirle Odile, la strada più facile a disposizione. Il maleficio di Rothbart, causa della stregoneria, è solo un diversivo che la fiaba prende a simbolo ammonitorio, ma sono la confusione, il disorientamento e la mancanza di una personalità adulta la vera causa dell’abbaglio di Sigfrido.

 

Il sortilegio, cioè l’insicurezza e la superficialità spesso causa di disastri, è dentro di lui, non al di fuori. Il Principe si lascia ingannare da ciò che appare, da ciò che effettivamente desidera e vorrebbe subito, mentre Odette, al contrario, rappresenta il sacrificio e l’attesa, l’amore puro e semplice che è sempre difficile meritare se non attraverso una responsabile presa di coscienza.

 

È questa, in fondo, la maturità, l’essere adulti. La presenza del mago Rothbart è evidente anche a chi non conosce bene o affatto la storia e la musica del Lago: ottoni, percussioni, note che si fanno stridule e fastidiose.

 

Laddove il cattivo piomba all’improvviso a interrompere qualcosa - l’idillio tra i due amanti, la festa a palazzo, il chiarimento e il perdono finale - la musica si fa timbricamente sgradevole, quasi “stonata”.

 

La tempesta finale sul lago non rappresenta solo il fragore dell’inondazione, ma la lotta interiore, la lotta col mago, con la forza del maleficio, da cui se si esce vittoriosi si esce anche rinati, trasfigurati. In questo finale a due versioni (a lieto fine e non), Sigfrido si salva insieme a Odette o perisce tra le onde.

 

La morte, in tal caso, è anch’essa simbolica, perché l’aver scelto male, tradire chi si ama, ha delle conseguenze, porta alla perdizione di sé come individui, come esseri maturi pronti a superare le difficoltà della vita.

 

Evidentemente Sigfrido non è ancora pronto, e le difficoltà (le onde del lago) lo travolgono, mentre Odette, già matura e responsabile, si salva in volo. Inoltre la seduzione fine a se stessa, rappresentata da Odile, non porta mai buoni frutti se si risolve in raggiro; privilegiandola, il Principe sceglie l’ombra e, metaforicamente, la morte.

 

Il lago dei cigni è tutto questo, fiaba, musica e simbolismo intelligente per una lettura completa di un capolavoro della letteratura ballettistica ma anche, aggiungerei, della produzione musicale di Ciaikovskij col suo stile sempre intimamente dolente, di un pudore – e uno stupore – incantato.

 

 

Riferimenti bibliografici

 

M. Eliade, Miti, sogni e misteri, Cap. VIII, p. 191, Rusconi, 1976.

E. Grillo, Il lago dei cigni, Di Giacomo, 1982, pp. 8-9.

Petr Il’Ic Cajkovskij, Ed. Studio Tesi, 1995, Collezione “Il Piacere della Musica”, p. 89.

M. Pasi - L. Pignotti, Sperling & Kupfer, Milano, 1993, p. 136.

I grandi balletti, Gremese, 1991, p. 147.

Ed. Accademia, 1977, trad. Angela Zamorani, note di Alfredo Mandelli, p. 277. Cit., p. 34.

R. Celletti, Memorie d’un ascoltatore, Il Saggiatore, 1985, p. 96.

B. Bettelheim Il mondo incantato, Feltrinelli, 1977, 12a ediz. 1992.

Bettelheim, op. cit., p. 274.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.