N. 93 - Settembre 2015
(CXXIV)
Il Lago dei cigni, storia fatata
Dal mito al ballo di Ciaikovskij
di Claudia Antonella Pastorino
I due animali alati più celebrati dal romanticismo letterario-musicale restano, senza dubbio, la rondine e il cigno, ma il secondo, più della prima, ha evocato ed evoca tuttora miti ancestrali.
La
rondine
è di
solito
accostata
a
canzoni
melodiche
del
passato
malinconicamente
richiamanti
nostalgia,
partenza,
abbandono,
solitudine
(Non
ti
scordar
di
me,
Rondine
al
nido),
ma è
anche
il
titolo
di
una
delle
opere
minori
di
Puccini
(La
Rondine,
1917)
o,
come
tante
specie
animali,
viene
raccontata
in
alcune
fiabe
(ad
esempio
ne
Il
Principe
Felice
di
Oscar
Wilde,
dove
un
rondinotto
si
sacrifica
per
amore
del
protagonista).
In
altri
casi
esprime
un
certo
parallelismo
poetico-tragico,
soprattutto
nel
Pascoli,
il
quale
era
solito
equiparare
la
condizione
degli
uccelli
a
quella
dell’orfano
fino
a
identificare
l’immagine-vittima
della
rondine
uccisa
in
volo
(X
agosto)
col
padre
Ruggero,
assassinato
sul
suo
calesse
rientrando
a
casa.
Il
cigno
ha
un
significato
più
arcano,
lontano
nel
tempo,
legato
a
regni,
divinità
ed
eroi.
Giove,
per
sedurre
Leda,
sposa
del
re
di
Sparta
Tindaro,
assume
le
sembianze
d’un
cigno;
la
regina
dà
alla
luce
due
uova
da
cui
nasceranno
Castore
e
Polluce,
Clitemnestra
ed
Elena,
la
futura
sposa
di
Menelao
poi
causa
della
guerra
di
Troia.
Esistono
inoltre
alcune
credenze
europee
del
secolo
diciannovesimo
secondo
cui
i
bambini
vengono
portati
dal
grembo
della
terra
da
cigni.
Poi
c’è
il
cigno-navicella
nel
Lohengrin
di
Wagner,
i
dipinti
e
gli
oggetti
(persino
una
bacinella
da
bagno)
raffiguranti
il
cigno
nelle
sale
del
castello
di
Neuschwanstein,
il
famoso
rifugio
alpino
di
Ludwig
II
di
Baviera,
sempre
ispirati
al
Lohengrin
e
alla
passione
personale
del
sovrano,
fin
da
bambino,
per
questo
animale
acquatico.
Lo
stesso
lago,
come
elemento
d’acqua,
implica
un
che
di
misterioso,
d’impalpabile,
come
il
lago
che
circonda
l’isola
sacra
di
Avalon
e
nasconde
alla
vista
di
tutti
il
magico
regno
delle
Dame
del
Lago
(ciclo
arturiano).
Anche
se
Il
lago
dei
cigni
è la
fiaba
per
eccellenza
del
repertorio
ballettistico
classico,
non
rientra
nel
ciclo
comune
delle
fiabe
popolari,
non
esiste
nemmeno
come
racconto
unico
e
unitario,
perché
la
storia
è un
insieme
di
spezzoni
ricavati
da
fonti
diverse
e
nessuna
certa
al
cento
per
cento.
Elena
Grillo
ha
cercato
di
ricostruirne
le
fonti
originali
attingendo
a
varie
tradizioni:
il
poema
epico
russo
Mikhail
Ivanovic
il
vagabondo,
in
cui
Mikhail
prende
di
mira
con
l’arco
un
magnifico
cigno,
ma è
ammonito
dall’animale
che
lo
coglierà
sventura
se
verrà
ucciso,
e si
trasforma
in
fanciulla;
oppure
Il
velo
rubato,
una
leggenda
tedesca
di
Johann
Musaus
del
1700,
o
una
poesia
di
Pushkin,
La
storia
dello
zar
Saltan,
ricavata
da
un
libretto
edito
nel
1869
che
Ciaikovskij
custodiva
nella
propria
biblioteca
con
note
autografe
a
matita,
a
margine.
Vi
si
parla
di
una
zarina-cigno
che
ispirò
il
pittore
Michail
Vrubel.
Altra
fonte
attendibile
viene
dalle
Metamorfosi
di
Ovidio,
in
cui
c’è
un
lago
di
lacrime
che
si
ritrova
nella
prima
stesura
del
libretto,
a
proposito
delle
lacrime
versate
dal
nonno
di
Odette.
Di
più
non
si
sa,
tranne
che
l’insieme
degli
elementi
che
compongono
il
Lago
provengono
da
leggende
diverse,
soprattutto
di
lingua
tedesca.
Quel
che
è
certo
è
che
il
fascino
della
fiaba,
per
chi
ne
conosce
anche
la
musica,
non
sfugge
finanche
ai
profani,
perché
Ciaikovskij
ha
realizzato
una
musica
che
calza
con
la
fiaba
come
se
lui
stesso
fosse
lì a
raccontarla.
L’impressione
è
quella
di
leggerla
attraverso
la
musica,
di
sentirsela
narrare.
Caposaldo
del
grande
repertorio
di
genere,
il
Lago
è
una
magnifica
turbolenza
di
colori,
con
tutte
le
tinte
e le
gradazioni
possibili.
La
partitura
è
una
raffica
incessante,
in
rapida
successione,
di
incantesimi
sonori;
si
distende,
si
isola,
si
allarga,
dà
voce
alle
singole
espressioni
degli
archi
o
dei
legni,
e sa
erompere
come
una
mareggiata
nell’intera
orchestra.
Si
tratta
di
un’infinità
di
episodi
tutti
avvinti
tra
loro
come
nodi
scorsoi
e
che
riconducono
alla
bellezza
della
fiaba,
alla
perfezione
di
una
musica
pari
a un
diadema
di
pietre
preziose.
Due
anime
convivono
nella
musica,
all’unisono
e in
contraddizione
al
tempo
stesso,
ma
senza
mai
smentirsi
a
vicenda:
da
una
parte
serenità
apparente,
sfolgorio
di
luci
e di
colori,
amore,
sogno,
opulenza
di
situazioni
musicalmente
brillanti;
dall’altra
tenebre,
temporali,
magia
e
maleficio,
tormento,
lotta
e
dramma.
Sul
lago
d’acqua
il
motivo
d’amore
nasce
problematico,
prosegue
problematico
e
finisce
ancora
peggio,
perché
i
contenuti
e i
simbolismi
presenti
in
questa
fiaba
non
hanno
nulla
di
semplice
o di
scontato.
Manca
il
“vissero
felici
e
contenti”in
senso
assoluto,
tutto
è
complicato
a
cominciare
dai
personaggi.
Solo
il
triangolo
classico
(i
due
innamorati
e il
cattivo)
è
tenuto
in
piedi
secondo
la
tradizione
e,
come
nella
vita,
la
femminilità
è
divisa
in
due
facce
ambivalenti:
la
donna
pura,
l’innocenza,
e la
donna
spregiudicata,
padrona
dell’arte
della
seduzione,
che
nella
fiaba
diventa
maga
o
strega
(come
Circe),
intenta
a
mettere
in
atto
i
suoi
malefici
per
ammaliare,
disorientare,
far
capitolare
la
preda.
In
realtà,
attraverso
una
lettura
più
ampia
che
tocchi
gli
aspetti
psicoanalitici
(dunque
non
chiaramente
visibili)
della
fiaba,
Odette
e
Odile
sono
due
facce
della
stessa
persona.
La
stessa
distribuzione
degli
atti
segue
lo
schema
contraddittorio
dei
due
paralleli
congiunti
(atto
I/III,
atto
II/IV),
che
in
apparenza
esprimono
opposizione,
contrasto,
ma
che
in
realtà
sono
complementari
l’uno
all’altro.
In
quest’opera
ci
sono
il
giorno
(le
feste
al
castello)
e la
notte
(i
notturni
sul
lago),
la
luce
e le
tenebre,
il
bianco
e il
nero
come
Odette
e
Odile,
i
due
cigni-femmina
rivali.
Lo
stesso
svolgimento
scenico,
coreografico
e
musicale
ne è
una
prova.
Al
primo
atto
troviamo
quell’incredibile
eruzione
di
magma
che
sono
le
danze
in
onore
del
Principe,
più
naturalmente,
come
all’inizio,
il
famoso
tema
del
cigno
affidato
all’oboe
quando
Sigfrido
vede
lo
stormo
dei
cigni
in
volo.
Al
secondo
atto
il
racconto
di
Odette
è
sviluppato
a
meraviglia,
tutto
discorsivo,
tutto
in
ascesa,
prima
discreto
e
quasi
in
sordina,
poi
angoscioso
e
tragico;
si
placa
e si
altera,
s’intreccia
col
maleficio
onnipresente
in
un
turbine
di
sonorità
minacciose,
asprigne.
La
presenza
di
Rothbart,
che
innervosisce
sempre
Odette
e i
cigni,
è
infatti
scandita
da
ottoni
e
percussioni
in
rapida
sequenza.
Le
danze
dei
cigni
s’incrociano
con
la
presenza
della
loro
compagna-guida
e il
suo
protagonismo
solitario,
poi
la
coppia
felice
dà
spazio
all’idillio
con
la
complicità
di
violino
e
violoncello.
I
piccoli
cigni
fanno
da
spalla
a
Odette
e
hanno
belle
oasi
musicali
con
diversi
valzer,
culminanti
con
la
splendida
Coda
(Allegro
vivace),
cui
subentra,
alla
fine
dell’atto,
la
distensione
dolorosa
dell’oboe
(quando
lei
e le
compagne
tornano
al
loro
destino
animale)
nel
famoso
tema
che
man
mano
si
dilegua
in
lontananza
fino
a
spegnersi
del
tutto.
Il
terzo
atto
ha
una
fisionomia
particolare,
perché
entra
in
scena
la
stregoneria
e,
con
essa,
la
grande
seduzione
del
cigno
nero.
L’entrata
di
Odile
e di
Rothbart
è
accompagnata
da
forte
tensione,
persino
il
tema
del
cigno
ripreso
in
rapidità
ansimante
diventa
quasi
“brutto”,
soffocante.
La
scena
adescatrice
presentata
da
Odile
equivarrebbe,
nel
teatro
d’opera,
a
una
grande
scena
lirica
con
tanto
di
recitativo,
aria
e
cabaletta,
ma
qui
è a
passi
di
danza
ch’ella
irretisce
il
Principe,
proprio
come
fa
Carmen
con
Don
José
nell’opera
lirica
bizetiana.
Il
terzo
atto
è
praticamente
suo.
I
legni,
a
ritmo
saltellante,
accompagnano
e
accentuano
questo
gioco
erotico,
cui
segue
la
risposta
festosa
di
Sigfrido
e,
di
rimando,
l’entusiasmo
di
Odile
trionfante
(Coda,
Allegro
molto).
Le
danze
nazionali
che
si
frappongono
isolano
un
po’
l’atmosfera
da
quanto
sta
accadendo;
potremmo
dire
che
fanno
parte
a sé
e
hanno
un
senso
compiuto
a
prescindere
dal
contesto
in
cui
sono
inserite,
anche
per
il
compito
intrinseco
di
allentare
un
po’
la
tensione
e
aumentare
l’attesa.
Interrompono
l’azione
per
intrattenere,
ma
nessuno
se
ne
accorge.
Quando
Odile
torna
alla
carica
e i
due
danzano
insieme,
l’inganno
è al
suo
compimento,
ma
l’incantesimo
malvagio
si
spezza,
ormai
troppo
tardi,
nel
momento
in
cui
l’ingenuo
principe
accetta
ufficialmente
Odile
quale
futura
sposa.
Torna
la
realtà,
l’inganno
è
svelato,
la
confusione
è
all’apice.
Il
Principe
si
scuote
dal
suo
sogno
ad
occhi
aperti
e
capisce
di
essere
stato
vittima
di
un
raggiro,
fatale
purtroppo
all’amore
e
alla
fiducia
riposta.
L’atto
quarto
sa
proprio
di
epilogo,
come
quasi
tutti
gli
ultimi
atti
in
teatro
che
sono
perlopiù
dei
finali.
I
cigni
attendono,
nella
danza,
Odette,
che
arriva
ansante
e
stravolta
per
il
tradimento
subìto.
Dalla
musica
se
ne
sente
la
disperazione,
la
solitudine,
lo
strazio
senza
rimedio.
Trafelata,
racconta
tutto
alle
compagne.
Il
temporale
in
arrivo
accompagna
il
suo
dolore,
lo
rende
ancora
più
vivo,
anche
fisicamente.
Arriva,
e si
sente,
il
pentimento
del
Principe
che
la
cerca
disperatamente
in
mezzo
alle
compagne,
sembra
di
sentirne
il
respiro
e i
battiti.
Si
sente
l’affanno
del
loro
breve
chiarimento,
poi
si
susseguono,
con
il
perdono
di
Odette,
la
presenza
di
Rothbart,
la
furia
del
lago
in
tempesta,
l’esplosione
del
tema
amoroso
del
cigno,
ancora
l’incalzare
degli
elementi
e le
bordate
dell’orchestra,
fino
alla
quiescenza
finale.
In
sostanza,
quest’atto
è
una
coda,
non
ha
gli
sviluppi
e i
colpi
di
scena
dei
precedenti.
La
conclusione
arriva
rapida,
nessuno
fa
niente
di
speciale:
né i
cigni,
né
Odette,
né
il
Principe,
né
Rothbart,
ma
lo
spessore
della
musica,
se
pur
sembra
cedere
in
ispirazione,
resta
comunque
nobilissimo.
Basti
pensare
che,
nell’intero
balletto,
anche
i
momenti
retorici
sono
imponenti:
l’ingresso
della
principessa
madre,
la
musica
di
corte,
l’arrivo
degli
invitati,
i
brevi
convenevoli
tra
madre
e
figlio.
Fiaba
e
Musica
Eppure,
nonostante
l’incanto
con
cui
la
musica
riesce
a
saldare
fiaba
e
personaggi,
pare
che
Ciaikovskij
non
abbia
dato
un
risalto
così
speciale
a
questa
sua
creazione,
buttata
lì
quasi
per
caso
e
per
questione
di
lavoro:
accettò
di
musicarla
per
ottocento
rubli.
Persino
il
magnifico
tema
cardine
del
cigno
proviene
da
un
balletto
domestico
in
un
atto,
composto
per
i
figli
della
sorella
Alexandra
Davydova,
di
cui
nel
1871
era
ospite
nella
tenuta
di
Kamenka,
in
Ucraina.
In
seguito
uno
dei
nipoti,
Ivan
Davidov,
vi
riconoscerà
il
celebre
tema
del
cigno.
Pare
che
l’idea
di
scrivere
il
Lago
sia
affiorata
durante
un
lungo
viaggio
in
Europa,
Germania
compresa
(dove
la
fiaba
sarà
ambientata),
viaggio
effettuato
dal
compositore
nel
giugno
1868,
in
compagnia
di
Vladimir
Petrovic
Begicev,
sovrintendente
dei
Teatri
Imperiali
di
Mosca
(autore
della
sceneggiatura
del
balletto),
di
un
certo
de
Lazari,
artista
e
letterato,
e di
un
figliastro
di
Begicev,
un
certo
Silovskij,
col
quale
intreccerà
poi
un’importante
relazione.
Il
musicista
cominciò
a
lavorarvi
già
nel
1875,
concludendo
il
manoscritto
e
sigillandolo
il
22
aprile
1876,
ma
la
prima
del
4
marzo
1877
al
Bol’soj
si
rivelerà
un
tonfo
per
una
serie
di
circostanze
non
proprio
favorevoli:
i
difetti
della
coreografia
dell’austriaco
Julius
Wenzel
Reisinger
(che
mutilò
la
splendida
partitura,
inserendo
molti
pezzi
di
Cesare
Pugni,
compositore
di
balletti
allora
in
voga),
l’incapacità
della
prima
ballerina,
Pelagia
Michailovna
Karpakova,
considerata
mediocre
ma
molto
influente
per
aver
sposato
l’industriale
greco
Miliotis,
tanto
da
soppiantare
la
più
dotata
e
meno
giovane
Anna
Sobenscianskaya
con
cui
si
alternò
sulla
scena.
Per
la
prima
danzatrice
Ciaikovskij
scrisse
la
danza
russa,
per
la
seconda
e il
partner
Victor
Grillert
il
pas
de
deux,
non
incluso
nell’edizione
definitiva
né
più
ripescato
se
non
alla
fine
degli
anni
Cinquanta,
nel
Museo
Ciaikovskij
a
Klin.
A
determinare
l’insuccesso
della
prima
produzione
contribuì
non
solo
la
mediocrità
dei
solisti,
ma
dell’intero
corpo
di
ballo,
in
quanto
nessuno
riuscì
a
interpretare
la
vicenda
e
darvi
la
necessaria
espressione
“teatrale”
così
importante
in
un
titolo
che
stava
aprendo
alla
danza
frontiere
allora
inimmaginabili.
Non
tutti
i
critici
del
tempo
seppero
però
apprezzare
la
musica
del
Lago,
tranne
Hermann
Laroche
che
fece
rilevare
quanto
sotto
“l’aspetto
musicale”
fosse
“il
miglior
balletto
che
abbia
mai
ascoltato”.
A
Mosca
il
titolo
rimase
in
cartellone
per
sei
anni
con
trentatré
esecuzioni.
Nel
1880
e
nel
1882
ebbero
luogo
due
riprese
su
una
nuova
coreografia
di
Olaf
Hansen,
ma
con
scarso
successo,
dopo
di
che
si
cominciò
a
tagliare
e
aggiungere.
Petipa,
per
primo,
si
accorse
dell’enorme
potenziale,
non
ancora
saggiamente
valorizzato,
contenuto
nel
Lago
dei
cigni,
ma
Ciaikovskij
non
arrivò
purtroppo
a
vederne
la
realizzazione
a
causa
della
morte,
avvenuta
il 6
novembre
1893.
Lev
Ivanov
ne
mise
in
scena
tutto
il
secondo
atto,
con
protagonista
l’italiana
Pierina
Legnani,
durante
il
concerto
del
1°
marzo
1894
in
memoria
del
compositore,
e da
allora,
per
l’eccezionale
capacità
di
comprenderne
la
musica,
la
sua
coreografia
rimase
fino
ad
oggi
quasi
immutata.
Si
preparava
così
la
strada
per
una
nuova
rappresentazione,
basata
sul
cambiamento
dell’ordine
di
alcuni
numeri
in
partitura
secondo
le
indicazioni
di
Marius
Petipa.
Le
modifiche
vennero
fatte
dal
direttore
d’orchestra
Riccardo
Drigo
e le
scene
riviste
da
Modest
Ciaikovskij,
fratello
del
musicista,
per
arrivare
dunque
alla
versione
integrale
del
27
gennaio
1895
al
teatro
Marjnskj,
poi
Kirov
dal
1935,
protagonisti
la
Legnani
(con
i
suoi
fouettés)
e
Pavel
Gerdt.
Da
questo
momento
ebbe
inizio
la
nuova
e
definitiva
fortuna
di
un
grande
classico
tra
i
classici,
che
anche
sul
fronte
occidentale
avrà
la
sua
consacrazione.
Infatti
la
prima
versione
integrale,
più
attendibile
rispetto
a
quella
originale
di
Pietroburgo
del
27
gennaio
1895,
fu
dovuta
a
Nikolas
Sergeev,
che
la
mise
in
scena
nel
1934
a
Londra.
Fino
a
oggi
è
comunque
certo
che
le
vicende
di
Odette
e
Sigfrido
hanno
avuto
il
privilegio
dei
più
importanti
cartelloni
teatrali
rispetto
agli
altri
titoli
del
repertorio
classico,
ogni
anno
nei
teatri
è
presente
con
repliche
suddivise
in
tutta
la
stagione.
In
confronto,
gli
altri
due
celebri
balletti
composti
dall’autore,
La
bella
addormentata
del
1890
e
Lo
Schiaccianoci
del
1892,
diventano
rappresentazioni
occasionali
(Lo
Schiaccianoci,
fiaba
di
Natale,
non
manca
mai
nell’imminenza
di
queste
feste),
mai
però
così
sporadiche
come
le
due
più
note
opere
liriche
scritte
da
Ciaikovskij:
l’Eugenio
Onieghin
(Evghenij
Onieghin)
del
1879
e
La
dama
di
picche
(Pikovaia
Dama)
del
1890.
Riguardo
alla
famosa
triade,
critici
e
artisti
di
settore
concordano
da
sempre
sulla
priorità
musicale
de
La
bella
addormentata
rispetto
alle
due
consorelle
di
lusso.
Per
Aldo
Nicastro
il
Lago
non
raggiungerebbe
«il
grado
di
concentrazione
e la
finezza
de
La
bella
addormentata
nel
bosco,
né
le
pure
golosità
timbriche
dello
Schiaccianoci,
e
tuttavia
si
attesta
come
un
primum
nella
musica
da
ballo
dell’Ottocento».
Nel
volume
Nureyev,
la
sua
arte
la
sua
vita,
La
bella
addormentata
è
considerata
«il
più
puro
dei
balletti
accademici,
la
più
bella
favola
musicata
da
Cajkovskij».
Confrontandola
al
Lago,
Alberto
Testa
riporta
l’acuto
giudizio
di
Fabio
Duca:
«Musicalmente
il
Lago
è di
grande
complessità
analitica.
Non
sotto
il
profilo
strutturale
ma
simbolico.
È
musica
fortemente
contrastata,
musica,
au
fond,
sottilmente
violenta,
cruda
(lontana
dalle
piacevolezze
timbriche
di
Bella
e di
Schiaccianoci)».
Molto
più
cauto,
se
non
addirittura
all’opposto,
Kurt
von
Wolfurt,
che
nel
volume
Ciaikovski
rileva
che
la
musica
de
La
bella
addormentata
«risulta
alquanto
inconsistente
e
priva
di
originalità»,
mentre
Lo
Schiaccianoci,
tratto
da
una
fiaba
di
E.T.A.
Hoffmann,
gli
sembra
«delizioso...
ricco
di
invenzione...
senza
dubbio
l’opera
meglio
riuscita
nel
genere…
musica
scintillante
e
piena
di
brio».
Poi
però
ridimensiona
il
tutto,
precisando
alle
pagine
286-287
che
«si
tratta
di
composizioni
piacevoli
che
tuttavia
non
si
elevano
al
di
sopra
della
musica
d’occasione;
composizioni
che
accarezzano
l’orecchio,
ma
non
calano
in
profondità».
Tuttavia
su
questo
discorso,
alla
stessa
pagina
287,
interviene
una
provvidenziale
nota
1 a
chiarire
che,
a
proposito
de
Lo
Schiaccianoci,
«l’interesse
musicale
di
questa
partitura
è
assai
alto
per
l’eleganza
raffinata
e
misuratissima
della
sua
orchestrazione».
Comunque
la
si
veda,
non
bisogna
dimenticare
l’immane
sforzo
innovativo
di
Ciaikovskij
sulla
musica
ballettistica
del
suo
tempo.
Egli
aveva
creato
musica
nuova
per
balletti
altrettanto
nuovi
da
eseguire
e da
capire.
In
quel
periodo,
le
condizioni
del
ballo
in
Russia
(per
tecnica,
competenza,
capacità
di
comprendere
il
nuovo),
non
erano
certo
delle
migliori.
C’erano
da
superare
molti
scogli,
tra
cui
la
complessa
orchestrazione,
le
difficoltà
tecniche
ed
espressive
del
danzatore,
l’azione
teatrale
e
musicale
non
disgiunta
dalla
parte
coreutica,
e a
tutto
questo
non
si
era
abituati.
Il
balletto
si
faceva
“sinfonico”,
dunque
più
elaborato,
raffinato,
ma
in
risposta
a
questa
tendenza
la
vecchia
tradizione
ballettistica
cara
al
pubblico
e
alla
critica
del
tempo,
faceva
sentire
la
sua
protesta
attraverso
il
tepore
generale
dei
consensi.
Furono
questi
limiti
storici
presenti
nella
cultura
musicale
dell’epoca
a
determinare
il
successo
in
minore
di
un
capolavoro
come
il
Lago,
oggi
per
fortuna
rappresentato
al
pari
di
un
titolo
d’opera
come
Aida
o
Traviata
o
Carmen.
La
fiaba
del
cigno
bianco
e
del
cigno
nero,
l’unico
titolo
di
repertorio
che
dia
così
ampio
spazio
individuale
a
tutti
i
membri
del
corpo
di
ballo,
ha
finito
col
conquistare
l’interesse
di
quella
critica
dedita
non
soltanto
al
sinfonismo
o al
teatro
d’opera.
John
Warrack,
nella
sua
nota
introduttiva
a
un’edizione
discografica
del
Lago
(Decca,
agosto
1975,
National
Philharmonic
Orchestra
diretta
da
Richard
Bonynge),
lo
ha
definito
«dramma
musicale
in
forma
di
danza».
Distingue
due
aree
tonali,
quella
di
Si,
e
derivate,
per
le
forze
del
male
rappresentate
da
Rothbart,
quella
di
La
per
le
altre
scene,
ma
questo
rigoroso
impianto
tonale
pare
sia
stato
vanificato
dalle
modifiche
apportate
da
Drigo
alla
partitura,
di
cui
centinaia
di
misure
sarebbero,
da
allora,
andate
purtroppo
perdute.
Per
Warrack
questo
balletto
«forse
possiede
l’impronta
più
sinfonica
della
sua
produzione
ballettistica...
perché
in
esso
Caikovskij
tentò
di
coinvolgere
tutti
gli
elementi
tradizionali
della
danza
in
una
narrazione
musicale
fortemente
espressiva».
Verissima
quest’ultima
considerazione.
Basti
pensare
al
ciclo
di
danze
che
animano
la
festa
del
Principe
nel
terzo
atto,
compresa
quella
magnifica
Danza
russa,
inserita
per
la
Karpakova,
sempre
ingiustamente
tagliata
nelle
attuali
versioni
teatrali.
Elena
Grillo
ne
spiega
la
bellezza
«perché
sintesi
equilibrata
di
tutte
le
sue
componenti:
musica,
danza
corale,
danza
solistica,
parti
mimiche,
contenuto
drammatico
e
così
via.
È
struttura
solidissima
che
nel
rigoroso
linguaggio
del
balletto
classico
(e
nel
termine
“classico”
comprendiamo
tutte
le
varianti
possibili
del
carattere,
del
mezzo
carattere,
del
classico
puro
che
contribuiscono
a
costruire
il
balletto
come
genere)
esprime
dei
contenuti
di
valore
universale».
Rodolfo
Celletti
ne
parla
in
un
suo
taccuino
musicale
su
opera
e
balletto,
definendolo
«una
specie
di
grand’opéra
del
balletto.
C’è
dentro
di
tutto,
intendo
dire,
e
quindi
soffre
di
dilatazioni,
di
enunciazioni
ovvie,
di
discontinuità
d’ispirazione.
Sono
cose
da
lungo
tempo
acclarate,
ma
che
incidono
poco
sul
risultato
complessivo
perché
gli
elementi
fondamentali
d’ogni
grande
fiaba
-
l’innocenza
perseguitata
e il
mistero
-
sono
esposti
con
grande
forza
di
convinzione.
Si
pensi
soltanto
al
potere
connettivo
del
tema
di
Odette,
che
ricorre
nei
momenti
sentimentalmente
più
tesi
pudico
e
trepidante,
così
come
l’oboe
lo
delinea,
ma
poi
si
lascia
prendere
dal
vortice
dell’appassionata
concitazione
della
piena
orchestra.
Oppure
si
pensi
allo
scoperto
candore
del
violino
strappacore
che
geme,
nel
secondo
atto,
fra
le
nebbie
del
lago
affatato».
Odette,
Odile
e
Sigfrido,
oltre
la
fiaba
Bruno
Bettelheim,
specialista
di
psicologia
infantile,
è
riuscito
a
penetrare
nei
meccanismi
ignoti
e,
per
molti
aspetti,
impensabili
della
fiaba,
tracciando
degli
schemi-modello
ideali
di
cui
servirsi
per
capire
queste
storie
solo
in
apparenza
fantastiche.
Di
tutta
la
letteratura
per
l’infanzia,
egli
ritiene
che
nulla
possa
arricchire
e
divertire
piccoli
e
adulti
quanto
la
fiaba
popolare,
considerata
una
delle
basi
formative
dello
sviluppo
della
personalità
(la
fantasia,
non
dimentichiamolo,
stimola
l’intelletto
e la
creatività,
come
insegna
la
pedagogia
di
ogni
tempo).
Bettelheim
riporta
il
pensiero
di
Schiller
che,
ne
I
Piccolomini
(III,
4),
affermò:
«C’è
un
significato
più
profondo
nelle
fiabe
che
mi
furono
narrate
nella
mia
infanzia
che
nella
verità
qual
è
insegnata
dalla
vita».
Anche
Charles
Dickens
rimase
impressionato
dalla
suggestione
delle
fiabe,
al
punto
di
ammettere
l’importanza
che
esse
ebbero
sul
suo
estro
creativo-letterario.
Nel
mondo
della
lirica,
fiabe
come
Turandot,
Cenerentola
o il
tetro
racconto
medievale
narrato
da
Ferrando
quale
antefatto
all’intera
vicenda
de
Il
Trovatore,
o il
mito
dei
Nibelunghi
nella
tetralogia
wagneriana,
esercitano
un
fascino
superiore
rispetto
ad
altre
storie.
Le
opere
tratte
dalla
mitologia
classica
hanno
più
solennità,
un
peso
del
dramma
e
dell’esistenza
che
la
fiaba
non
ha o
che
risolve
in
modo
diverso.
Il
mito
è
diretto,
la
fiaba
parla
indirettamente.
Per
gli
antichi,
la
nascita
di
Roma
o
l’origine
del
mondo
non
nasce
forse
dal
mito?
E le
storie
note
e
meno
note
scaturite,
di
tempo
in
tempo,
dal
mondo
pagano,
dai
sacri
riti
del
paganesimo?
La
Bibbia
stessa
rievoca
miti,
racconti,
parabole.
La
fiaba
va
vista
dunque
come
forma
d’arte,
è
letteratura,
ma
anche
psicologia
e
pedagogia
perché
non
rispecchia
il
mondo
esterno,
ma
il
mondo
interiore
dell’individuo
nel
suo
processo
evolutivo.
Le
favole,
a
differenza
delle
fiabe,
hanno
come
fine
una
morale
esplicita,
dichiarata,
ma
senza
gli
sviluppi
e i
significati
nascosti
della
fiaba.
Diventa
così
una
sentenza,
non
un
racconto.
La
fiaba
lascia
invece
liberi
di
decidere,
di
trarre
conclusioni,
s’incontra
alla
perfezione
con
il
modo
di
pensare
e di
agire
che
il
bambino
ha
rispetto
al
mondo.
La
fiaba
più
antica
è
contenuta
in
un
papiro
egizio
del
1250
a.C.,
rinvenuto
nella
prima
metà
dell’Ottocento.
Anche
Cenerentola
ha
origini
remote,
essendo
stata
trovata
scritta
in
Cina
nel
nono
secolo
a.C.,
ma
di
questa
popolarissima
fiaba
esistono,
sembra,
ben
345
versioni.
In
quella
dei
fratelli
Grimm
ma
un
po’
in
tutte
le
fiabe,
anche
il
principe
di
Cenerentola
dovrà
scegliersi
una
sposa
durante
una
festa
di
tre
giorni
data
dal
re
suo
padre,
così
come
Sigfrido
per
volontà
della
Regina
Madre.
La
letteratura
favolistica
in
cui
possiamo
inquadrare
Il
lago
dei
cigni
è
quella
della
cosiddetta
“sposa-animale”,
che
però
è un
ciclo
meno
noto
rispetto
a
quello
dello
“sposo-animale”,
assai
ricorrente
nelle
fiabe.
Nella
maggior
parte
dei
racconti
occidentali,
la
bestia
è di
sesso
maschile,
e a
liberarla
dall’incantesimo
è
solo
l’amore
di
una
donna,
come
accade
proprio
alla
donna-cigno
che
ha
bisogno
dell’amore
puro
del
Principe
per
liberarsi
del
maleficio
che
la
imprigiona
al
lago.
Notiamo
che
anche
nella
fiaba
Il
tamburino
dei
fratelli
Grimm,
la
fanciulla
è
stata
mutata
in
cigno.
Per
Bettelheim,
che
analizza
questi
risvolti
della
personalità,
è
evidente
che
solo
nelle
femmine
l’aspetto
fisico
viene
presentato
gradevole
e
leggiadro,
mentre
nel
maschio
è
bestiale
e
ripugnante.
Cosa
vuol
dire?
Sia
da
parte
dell’uomo
che
della
donna,
il
monito
è lo
stesso:
fino
a
quando
il
sesso
appare
sgradevole
e
animalesco
per
uno
dei
due,
esso
rimarrà
bestiale
nell’altro,
che
di
conseguenza
non
può
essere
liberato
dall’incantesimo,
cioè
dalle
inibizioni
e
dalla
ripugnanza.
Precisa
anzi:
«Fintanto
che
un
partner
aborrisce
il
sesso
l’altro
non
può
goderne;
fintanto
che
un
partner
lo
vede
come
qualcosa
di
animalesco,
l’altro
rimane
parzialmente
un
animale
per
se
stesso
e il
suo
partner».
Quando
poi,
da
parte
di
uno
dei
due
-
generalmente
la
donna,
ma
nel
Lago
il
ruolo
è
invertito
-
c’è
un
desiderio
insopprimibile
di
affrettare
le
cose,
trasgredendo
al
volere
dell’altro,
ecco
che
il
partner
tradito
scompare,
si
dà
alla
fuga
o
avviene
qualcosa
d’irreparabile.
È
quanto
si
legge
nel
mito
di
Amore
e
Psiche
dalle
Metamorfosi
o
L’asino
d’oro
di
Apuleio,
nella
fiaba
rumena
Il
maiale
fatato,
in
Barbablù
di
Perrault
o
nel
Re
Porco,
quest’ultima
ricordata
dal
Carducci
come
“novella”
nella
poesia
Davanti
San
Guido.
Anche
qui
si
narra
di
una
fanciulla
che
ha
sposato
un
uomo
trasformato
in
porco,
e
che
solo
di
notte
ella
vede
nel
suo
aspetto
umano
di
giovane
bellissimo.
Purtroppo,
con
la
stessa
leggerezza
di
Psiche,
non
sa
mantenere
il
segreto
e
perde
lo
sposo,
tanto
che
per
ritrovarlo
e
recuperare
la
felicità
perduta
dovrà
affrontare
ogni
sorta
di
sacrifici
e di
prove.
Troppa
superficialità
e
curiosità
guastano,
insomma,
l’amore
e
incrinano
i
rapporti,
come
insegna
anche
la
storia
del
Lohengrin
wagneriano,
dove
Elsa
rovina
tutto
con
la
sua
curiosità
incontrollata.
Ciò
sta
ad
indicare
che
per
la
maturità,
la
saggezza
e lo
sviluppo
sessuale,
entrambi
i
partners
devono
essere
pronti
insieme,
altrimenti
il
rapporto
si
risolve
in
disastro;
allo
stesso
modo
diventa
inutile
precorrere
i
tempi,
come
cerca
di
fare
uno
dei
due
nell’inseguire
conoscenza
ed
esperienza
precoci,
in
molti
casi
fatali
per
l’integrità
del
rapporto
stesso.
Ne
Il
lago,
il
Principe
è
ancora
in
uno
stato
adolescenziale,
non
è
pronto
all’amore
e ad
accedere
a
uno
stadio
superiore
d’esistenza
proprio
della
maturità,
cosa
che
la
maggiore
età
appena
conseguita
non
può
assicurare
a
priori.
Sigfrido
rigetta
i
progetti
materni
e
non
vuol
saperne
delle
bellissime
fanciulle
da
scegliere
nel
corso
della
festa
data
in
suo
onore.
Pur
avendo
in
cuor
suo
scelto
Odette
e
avendole
giurato
amore
eterno,
in
realtà
disattende
l’impegno
e
non
esita,
presentatasi
l’occasione,
a
preferirle
Odile,
la
strada
più
facile
a
disposizione.
Il
maleficio
di
Rothbart,
causa
della
stregoneria,
è
solo
un
diversivo
che
la
fiaba
prende
a
simbolo
ammonitorio,
ma
sono
la
confusione,
il
disorientamento
e la
mancanza
di
una
personalità
adulta
la
vera
causa
dell’abbaglio
di
Sigfrido.
Il
sortilegio,
cioè
l’insicurezza
e la
superficialità
spesso
causa
di
disastri,
è
dentro
di
lui,
non
al
di
fuori.
Il
Principe
si
lascia
ingannare
da
ciò
che
appare,
da
ciò
che
effettivamente
desidera
e
vorrebbe
subito,
mentre
Odette,
al
contrario,
rappresenta
il
sacrificio
e
l’attesa,
l’amore
puro
e
semplice
che
è
sempre
difficile
meritare
se
non
attraverso
una
responsabile
presa
di
coscienza.
È
questa,
in
fondo,
la
maturità,
l’essere
adulti.
La
presenza
del
mago
Rothbart
è
evidente
anche
a
chi
non
conosce
bene
o
affatto
la
storia
e la
musica
del
Lago:
ottoni,
percussioni,
note
che
si
fanno
stridule
e
fastidiose.
Laddove
il
cattivo
piomba
all’improvviso
a
interrompere
qualcosa
-
l’idillio
tra
i
due
amanti,
la
festa
a
palazzo,
il
chiarimento
e il
perdono
finale
- la
musica
si
fa
timbricamente
sgradevole,
quasi
“stonata”.
La
tempesta
finale
sul
lago
non
rappresenta
solo
il
fragore
dell’inondazione,
ma
la
lotta
interiore,
la
lotta
col
mago,
con
la
forza
del
maleficio,
da
cui
se
si
esce
vittoriosi
si
esce
anche
rinati,
trasfigurati.
In
questo
finale
a
due
versioni
(a
lieto
fine
e
non),
Sigfrido
si
salva
insieme
a
Odette
o
perisce
tra
le
onde.
La
morte,
in
tal
caso,
è
anch’essa
simbolica,
perché
l’aver
scelto
male,
tradire
chi
si
ama,
ha
delle
conseguenze,
porta
alla
perdizione
di
sé
come
individui,
come
esseri
maturi
pronti
a
superare
le
difficoltà
della
vita.
Evidentemente
Sigfrido
non
è
ancora
pronto,
e le
difficoltà
(le
onde
del
lago)
lo
travolgono,
mentre
Odette,
già
matura
e
responsabile,
si
salva
in
volo.
Inoltre
la
seduzione
fine
a se
stessa,
rappresentata
da
Odile,
non
porta
mai
buoni
frutti
se
si
risolve
in
raggiro;
privilegiandola,
il
Principe
sceglie
l’ombra
e,
metaforicamente,
la
morte.
Il
lago
dei
cigni
è
tutto
questo,
fiaba,
musica
e
simbolismo
intelligente
per
una
lettura
completa
di
un
capolavoro
della
letteratura
ballettistica
ma
anche,
aggiungerei,
della
produzione
musicale
di
Ciaikovskij
col
suo
stile
sempre
intimamente
dolente,
di
un
pudore
– e
uno
stupore
–
incantato.
Riferimenti
bibliografici
M.
Eliade,
Miti,
sogni
e
misteri,
Cap.
VIII,
p.
191,
Rusconi,
1976.
E.
Grillo,
Il
lago
dei
cigni,
Di
Giacomo,
1982,
pp.
8-9.
Petr
Il’Ic
Cajkovskij,
Ed.
Studio
Tesi,
1995,
Collezione
“Il
Piacere
della
Musica”,
p.
89.
M.
Pasi
- L.
Pignotti,
Sperling
&
Kupfer,
Milano,
1993,
p.
136.
I
grandi
balletti,
Gremese,
1991,
p.
147.
Ed.
Accademia,
1977,
trad.
Angela
Zamorani,
note
di
Alfredo
Mandelli,
p.
277.
Cit.,
p.
34.
R.
Celletti,
Memorie
d’un
ascoltatore,
Il
Saggiatore,
1985,
p.
96.
B.
Bettelheim
Il
mondo
incantato,
Feltrinelli,
1977,
12a
ediz.
1992.
Bettelheim,
op.
cit.,
p.
274.