N. 105 - Settembre 2016
(CXXXVI)
LA SERVA ITALIA: GUELFA O GHIBELLINA?
LA FIGURA DI FARINATA DEGLI UBERTI
di
Cristina
Massa
All’indomani
della
pace
di
Costanza
(siglata
nel
1183
tra
l’imperatore
Federico
I il
Barbarossa
e i
comuni
della
societas
Lombardiae),
le
città
settentrionali
della
penisola
italiana
conobbero
la
definitiva
legittimazione
di
quell’assetto
politico-amministrativo
di
cui
si
erano
dotate
sin
dal
principio
del
XII
secolo,
e a
cui
fece
seguito
l’
emanazione
di
statuti
comunali
nei
quali
si
concretizzava
l’acquisita
autonomia-
sebbene
formalmente
si
riconoscessero
ciascuna
parte
integrante
dell’impero.
L’autorità
dei
signori
feudali
e il
potere
temporale
dei
vescovi
furono,
così,
fortemente
limitati
e,
col
passare
del
tempo,
ciò
rese
possibile
a
famiglie
di
recente
ricchezza
( di
natura
per
lo
più
fondiaria)
la
scalata
ai
vertici
della
politica
cittadina.
Si
assistette,
pertanto,
a
una
sorta
di
integrazione
fra
i
nuovi
membri
della
classe
dirigente
e i
vecchi
ranghi
dell’aristocrazia
consolare.
Il
clima,
tuttavia,
non
fu
affatto
pacifico.
Progressivamente,
infatti,
presero
corpo
due
schieramenti:
il
populus,
comprendente
giudici,
medici,
mercanti,
banchieri,
notai,
artigiani;
e la
nobilitas,
costituito
dagli
esponenti
della
vecchia
aristocrazia.
Il
loro
antagonismo,
unito
alle
discordie
di
quanti,
fra
i
nobili,
concorrevano
all’esercizio
dell’ufficio
consolare,
minò
profondamente
la
stabilità
e
l’efficienza
dei
collegi
comunali.
Fu
per
tale
motivo
che,
tra
la
fine
del
XII
e
l’inizio
del
XIII
secolo,
si
decise
di
ricorrere
a
una
nuova
istituzione:
il
podestà.
I
podestà
erano
forestieri
che
provenivano
da
città
alleate
e
che
venivano
quindi
chiamati
a
dirimere
le
lotte
intestine
in
ragione
della
loro
imparzialità,
della
loro
estraneità
alle
parti
rivali.
Detentori
della
carica
per
soli
sei
mesi,
essi
esercitavano
la
giustizia,
presiedevano
i
consigli
e
svolgevano
incarichi
di
natura
militare.
La
mediazione
podestarile,
ad
ogni
modo,
non
poté
impedire
il
sorgere
di
aspre
contese
in
seno
alle
stesse
fazioni
politiche.
Non
di
rado,
a
confliggere
tra
loro,
erano
singole
famiglie
nobiliari
che
disponevano
ciascuna
di
proprie
forze
clientelari
(aggregate
in
societas
militum)
e
che
facevano
riferimento
a
due
superiori
schieramenti
contrapposti:
quello
dei
guelfi,
filopapale,
e
quello
dei
ghibellini,
filoimperiale.
È
all’interno
di
questo
scenario
politico
che
a
Firenze,
nella
prima
metà
del
XIII
secolo,
emerse
la
figura
di
Manente,
noto
col
nome
di
Farinata
degli
Uberti.
Alla
guida
della
fazione
ghibellina
dal
1239,
prese
parte
alla
sconfitta
e
alla
cacciata
delle
forze
guelfe
nel
1248.
In
quell’anno
i
Guelfi
fiorentini,
malgrado
le
innumerevoli
disfatte
subite
per
mano
della
controparte,
avevano
scorto
la
possibilità
di
risollevare
le
proprie
sorti
confidando
nell’aiuto
offertole
dalla
città
di
Bologna.
Firenze
venne
così
cinta
d’assedio
e
messa
a
ferro
e a
fuoco.
Ciò,
però,
non
si
rivelò
sufficiente
a
infiacchire
le
armate
ghibelline,
che
nella
loro
accanita
resistenza
riuscirono
a
sbaragliare
Rustico
Marignalli,
il
capo
guelfo.
Come
se
non
bastasse,
l’intervento
in
difesa
degli
assediati
da
parte
delle
milizie
dell’allora
podestà
di
Firenze
Federico
d’Antiochia
(uno
dei
figli
naturali
dell’imperatore
Federico
II
di
Svevia)
contribuì
a
infondere
ulteriore
vigore
all’esercito
filoimperiale,
a
cui,
infine,
arrise
la
vittoria.
Tre
anni
dopo,
i
Guelfi
si
ripresentarono
alle
porte
di
Firenze
da
cui
erano
stati
banditi.
Probabilmente,
a
far
pendere
in
quel
frangente
l’ago
della
bilancia
in
favore
delle
forze
filopapali
fu
la
morte
dell’imperatore
Federico
II,
avvenuta
nel
dicembre
del
1250.
Riorganizzati
militarmente,
i
Guelfi
riattizzarono
a
Firenze
il
fuoco
delle
discordie
civili,
riuscendo,
nell’agosto
1251,
a
spingere
i
Ghibellini
– e
tra
questi
lo
stesso
Farinata
degli
Uberti
– a
ritirarsi
in
esilio
nei
pressi
dei
castelli
di
Montevarchi
e di
Romena,
non
lontano
dalla
filoimperiale
Arezzo;
fino
a
che,
nel
1258,
si
videro
accolti
dalla
città
di
Siena,
alleata
dell’imperatore,
che
a
quel
tempo
era
il
sovrano
di
Sicilia
Manfredi
(altro
figlio
naturale
di
Federico
II
di
Svevia).
Siena,
tuttavia,
–
stando
al
resoconto
fornito
da
Giovanni
Villani
nella
sua
Cronica
– ,
non
disponeva
degli
adeguati
rinforzi
di
cui
i
fuoriusciti
fiorentini
necessitavano.
Si
decise,
pertanto,
l’invio
di
un’ambasceria
in
Puglia
presso
il
re
Manfredi,
nella
speranza
che
questi
concedesse
loro
il
supporto
di
mille
cavalieri.
A
guidare
la
legazione
era
proprio
Farinata.
L’esito,
però,
sembrò
inizialmente
deludere
le
aspettative
dei
Ghibellini,
in
quanto
il
sovrano
si
era
limitato
a
promettere
il
sostegno
di
soli
cento
uomini.
I
legati,
alquanto
indispettiti
di
fronte
al
blando
impegno
del
re,
avrebbero
probabilmente
rifiutato
la
proposta
se
non
fosse
stato
per
il
sagace
intervento
di
Farinata.
Uomo
dalla
personalità
fiera
e
coraggiosa,
animato
da
un’autentica
passione
politica,
nonché
accorto
stratega,
Farinata
riuscì
a
dissuadere
i
compagni
dal
loro
proposito
e a
far
sì
che
accettassero
l’aiuto,
seppur
modesto,
del
sovrano;
a
patto
che
questi
inviasse
i
cento
cavalieri
tedeschi
insieme
alle
insegne
imperiali.
Farinata,
infatti,
credeva
che,
una
volta
esibiti
in
campo
i
vessilli
dell’imperatore,
Manfredi
sarebbe
stato
indotto
a
mandare
ulteriori
unità
militari;
cosa
che
effettivamente
accadde.
Lo
scontro
campale
si
svolse
il 4
settembre
1260
a
Montaperti,
distante
pochi
chilometri
da
Siena.
Il
Villani,
in
proposito,
riferisce
dell’astuto
stratagemma
messo
in
atto
dai
Ghibellini:
alcuni
di
essi
si
erano
infiltrarono
tra
le
file
della
cavalleria
fiorentina;
durante
la
battaglia,
a un
segnale
convenuto,
dopo
essersi
strappate
dal
petto
le
rosse
croci
filopapali
e
avendole
sostituite
con
quelle
bianche
filoimperiali,
attaccarono
i
nemici.
Mentre
la
cavalleria
tedesca
prendeva
d’assalto
i
Fiorentini,
l’esercito
ghibellino
si
lanciava
all’inseguimento
degli
avversari
guelfi
lungo
il
fiume
Arbia,
perpetrandone
una
vera
e
propria
strage.
La
notizia
della
vittoria
riportata
a
Montaperti
dai
Ghibellini
non
tardò
a
diffondersi.
Tra
i
fiorentini
che
parteggiavano
per
le
forze
vincitrici
e
che
avevano
continuato
a
risiedere,
seppur
nell’ombra,
nella
città
del
Giovan
Battista,
molti
furono
coloro
che
si
abbandonarono
a
manifestazioni
di
violenza
pubblica
dichiaratamente
anti-guelfe.
A
quel
punto,
ai
Guelfi
rimasti
a
Firenze
non
si
presentava
che
un’unica
alternativa:
lasciare
la
città
e
recarsi
in
volontario
esilio
a
Lucca
o a
Bologna.
Della
figura
di
Farinata
degli
Uberti
–
che,
da
quanto
si
evince
dalla
Cronica
del
Villani,
svolse
un
ruolo
tutt’altro
che
marginale
nelle
vicende
che
investirono
la
Toscana
e
Firenze
nella
seconda
metà
del
Duecento
–
rimane
vivo
ancora
oggi
il
ritratto
delineatone
da
Dante
nella
sua
Comedìa.
Collocato
nel
sesto
cerchio
dell’Inferno,
là
dove
il
Poeta
immaginava
venissero
punite
le
anime
di
coloro
che
in
vita
peccarono
di
eresia,
l’ombra
di
Farinata
si
presenta
al
pellegrino
Dante
«dritto»,
«da
la
cintola
in
sú»,
in
mezzo
agli
ardenti
sepolcri
degli
epicurei
(ossia
i
negatori
dell’immortalità
dell’anima
e i
sostenitori
di
una
visione
tutta
materialistica
delle
cose).
Il
Poeta,
sin
da
subito,
presenta
il
suo
personaggio
mediante
espressioni
che
ne
sottolineano
la
fierezza
e
l’orgoglio
di
parte.
Non
è
una
caso,
infatti,
se
Dante
lo
coglie
in
una
postura
che
ne
rimarca
la
condizione
di
eccezionalità
rispetto
agli
altri
eretici
–
giacenti
quasi
inerti
nelle
loro
tombe
di
fuoco
–,
«col
petto
e
con
la
fronte
//
com’avesse
l’inferno
a
gran
dispitto».
Dal
suo
cipiglio
maestoso
e
dall’imponenza
della
sua
figura
sembrano
baluginare
ancora,
persino
nella
dimensione
infernale,
la
magnanimità,
il
coraggio,
la
superbia
e
l’ambizione
di
colui
che
non
aveva
esitato
a
brandire
le
armi
contro
i
nemici
della
patria,
combattendo
egli
stesso
in
prima
linea
e
guidando,
in
veste
di
capitano,
i
propri
cavalieri
verso
la
vittoria
finale.
L’indole
fiera
di
Farinata
si
denota
anche
dalle
parole
con
cui
egli
rievoca
l’episodio
seguito
alla
battaglia
di
Montaperti:
«Ma
fu’
io
solo,
là
dove
sofferto
//
fu
per
ciascun
di
tòrre
via
Fiorenza,
//
colui
che
la
difesi
a
viso
aperto».
L’efferata
strage
perpetrata
dalle
forze
ghibelline
ai
danni
degli
avversari
guelfi
–
tale
«
che
fece
l’Arbia
colorata
in
rosso»
- fu
una
delle
ragioni
alla
base
della
dura
e
drastica
risoluzione
che
fu
adottata
nel
corso
del
concilio
di
Empoli
dai
Ghibellini
toscani,
ovvero
la
distruzione
in
toto
della
città.
Solo
«il
valente
e
savio
messer
Farinata
degli
Uberti»,
appellandosi
unicamente
all’autorità
di
cui
era
investito,
levò
la
sua
voce
contro
quella
intollerabile
deliberazione,
dichiarando
che
«s’altri
ch’egli
non
fosse,
mentre
ch’egli
avesse
vita
in
corpo,
con
la
spada
in
mano
la
difenderebbe».
Firenze,
così,
«per
uno
buono
uomo
cittadino»,
poté
sfuggire
alla
distruzione
e
alla
rovina.
Negli
anni
successivi
alla
morte
di
Farinata
(1264),
le
ostilità
tra
Guelfi
e
Ghibellini
si
riaccesero.
I
primi,
essendo
riusciti
a
ritornare
alla
ribalta
della
vita
politica
del
comune
di
Firenze,
concentrarono
tutto
il
loro
odio
di
parte
contro
gli
Uberti,
banditi
dalla
città
e
tacciati,
nel
corso
di
un
processo
postumo,
di
eresia.
Al
di
là
dei
delitti
e
delle
accuse
a
cui
risulta
legato
il
nome
di
Farinata
degli
Uberti,
quel
che
emerge
dalle
cronache
di
quel
tempo
è il
profilo
di
un
uomo
dotato
di
una
personalità
fuori
dall’ordinario,
quasi
interamente
dedita
alla
passione
politica;
una
personalità
tanto
eccezionale
da
essere
rievocata
da
due
esponenti
della
parte
guelfa
(gli
stessi
Giovanni
Villani
e
Dante
Alighieri)
con
parole
che
ne
tradiscono
un
senso
di
velata
riverenza.
Riferimenti
bibliografici:
.
D.
Alighieri,
La
Divina
Commedia,
Inferno,
a
cura
di
N.
Sapegno,
Firenze
2004.
E.
Artifoni,
Città
e
comuni,
in
Storia
medievale,
Roma
1998.
A.
Cortonesi,
Il
Medioevo.
Profilo
di
un
millennio,
Roma
2008.
R.
M.
Dessi,
Guelfi
e
Ghibellini,
prima
e
dopo
la
battaglia
di
Montaperti(1246-1358),
Siena
2011.
G.
Villani,
Nuova
Cronica,
a
cura
di
G.
Porta,
Parma
1991.