N. 46 - Ottobre 2011
(LXXVII)
LA PELLE CHE ABITO
A PROPOSITO DI "IDENTITà"
di Giovanna D'Arbitrio
Il nuovo film di Almodòvar “La Pelle che Abito”, presentato al Festival di Cannes 2011 e ora candidato all’Oscar come miglior film straniero per la Spagna, si potrebbe definire un horror –thriller dalle tinte fosche e drammatiche in cui, tuttavia, l’impronta del grande regista riesce a innalzare la trama a significati più universali, suscitando inquietanti interrogativi.
Il
film,
liberamente
tratto
dal
romanzo
francese
“La
Tarantola”
di
Thierry
Jonquet,
racconta
la
cupa
storia
di
Robert
Ledgard
(A.
Banderas),
brillante
chirurgo
estetico,
che
si
trasforma
in
una
sorta
di
novello
Frankenstein,
quando
cerca
di
creare
in
laboratorio
una
pelle
transgenica
molto
resistente
per
curare
sua
moglie
gravemente
ustionata
in
un
incidente
d’auto.
Purtroppo
non
riesce
a
salvare
la
donna
che
si
uccide,
evento
che
sconvolge
inoltre
gravemente
l’equilibrio
psichico
della
figlia
la
quale,
dopo
aver
subito
uno
stupro,
si
suicida
a
sua
volta.
Con
lucida
follia
Robert
rapisce
il
giovane
stupratore,
lo
nasconde
in
casa
sua
con
l’aiuto
di
Marilia,
la
madre-governante(M.
Peredes),
si
vendica
trasformandolo
in
una
donna
(Vera,
interpretata
da
Elena
Anaya)
e,
usandolo
come
cavia,
riesce
così
a
portare
a
termine
anche
i
suoi
esperimenti.
Un
piano
perfetto
ma
che
fallirà
per
quel
quid
invisibile
e
imponderabile
che
è
nascosto
in
ogni
essere
umano,
quell’
“essenza”
che
non
può
mutare
col
mutare
della
“forma”.
Il
tema
predominante
del
film
è
dunque
quello
della
difesa
dell’identità:
in
un’epoca
che
sembra
voler
omologare
e
distruggere
diversità
culturali
e
spirituali
di
popoli
e
individui,
Almodòvar,
dunque,
ci
mette
in
guardia
contro
la
follia
collettiva
in
cui
sta
cadendo
l’umanità,
pilotata
da
un
progresso
scientifico
e
tecnologico
privo
di
scrupoli
al
servizio
di
denaro
e
potere,
non
sempre
usato
quindi
per
scopi
positivi
e
costruttivi.
Il
messaggio
è
chiaramente
messo
in
evidenza
nel
personaggio
di
Vera
che
lotta
strenuamente
per
conservare
la
propria
identità,
l’essenza
al
di
là
della
forma.
In
una
recente
intervista,
infatti,
il
regista
ha
affermato:
“è
un
film
duro….
Mi
interessa
raccontare
un
processo
di
resistenza
interiore.
Descrivere
un
angolo
inaccessibile
di
umanità
in
cui,
tra
un’angheria
e
una
negazione,
si
continui
ad
essere
se
stessi.”
Almodòvar
si è
poi
dichiarato
favorevole
alla
chirurgia
plastica,
ma
“con
le
dovute
cautele”.
Per
il
film
si è
documentato
consultando
esperti
medici
e
scienziati,
giungendo
alla
conclusione
che
la
gente
è
sempre
più
influenzata
dal
mondo
della
comunicazione
dove
“imperano
contenuti
grossolani,
urlati
con
oppressiva
volgarità…
una
perversione
che
contagia
e
minaccia
sia
forma
che
essenza”.
Il
film
non
ha
ricevuto
solo
critiche
positive,
poiché
alcuni
hanno
messo
in
rilievo
che
Almodòvar
in
esso
ricade
in
modo
ossessivo
negli
stessi
temi,
rapporto
uomo/donna,
maschile/femminile,
madre/figlio,
famiglia/società
e
così
via,
ma
non
si
può
negare
che
il
problema
della
difesa
dell’identità
è
trattato
in
modo
efficace:
si
esce
piuttosto
sconvolti
e
turbati
dalla
visione
di
”La
pelle
che
abito”,
ma
almeno
si è
indotti
a
riflettere
e a
discutere.
Bravi
gli
attori,
incisiva
e
netta
la
fotografia
di
J.
L.
Alcaine,
notevole
la
colonna
sonora
di
Alberto
Iglesias,
efficace
la
sceneggiatura
di
Pedro
Almodòvar:
un
film
da
vedere,
malgrado
gli
incubi
che
suscita.