[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

172 / APRILE 2022 (CCIII)


moderna

MALINCHE

LA DONNA AZTECA DAI TRE VOLTI

di Michela Stefani

 

L’opera del traduttore, si sa, è sempre stata cruciale nel corso della storia. In molte occasioni il traduttore è stato l’anello di congiunzione non solo tra lingue diverse, ma anche tra culture diverse, la prova tangibile della grande capacità di adattamento e assimilazione dell’uomo, la possibilità di interagire con il diverso, di comprenderlo e accettarlo.

 

Ogni volta che due culture si incontrano, grandi personalità sono destinate a emergere: re e regine potenti, condottieri alla guida di grandi eserciti, nobili e proprietari terrieri; tutte persone di grande influenza. Alle volte però la ricchezza più grande, l’arma più potente, è la perseveranza e la capacità di non abbattersi davanti alle difficoltà e agli eventi tragici della vita, ma trarre ispirazione da questi e trasformarli in punti di forza e d’onore.

 

Questo è quello che accadde, ormai secoli fa, a una donna azteca, nata principessa, vissuta schiava e diventata successivamente il volto e il simbolo, nel bene e nel male, dell’incontro-scontro tra la sua cultura di appartenenza, la cultura maya e quella spagnola.

 

Questa ragazza, conosciuta anche con il nobile nome in lingua nahuatl di Malintzin, nacque nel 1502 nella città-stato azteca chiamata Coatzacoalcos, nella provincia di Paynalla, nell’attuale stato di Veracruz. Alla morte del padre, nobile personalità di spicco della città, la giovane, che all’epoca aveva solo nove anni, dovette affrontare il primo grande trauma della sua vita: sua madre si risposò quasi subito e diede alla luce un figlio maschio.

 

La nascita di un erede mise la giovane principessa in una posizione precaria e pericolosa: la donna che l’aveva generata, incurante dello stretto rapporto familiare che le legava e in accordo con il nuovo marito, la dichiarò morta davanti alla società e la allontanò da tutto ciò che la bambina conosceva e amava, vendendola ad alcuni mercanti di schiavi maya di Xicalango, i quali, senza il suo consenso, la trascinarono fino a Tabasco.

 

Non sarà dunque una sorpresa sapere che la giovane, nella sua prima adolescenza, parlava già perfettamente le due lingue più diffuse dell’America Latina precolombiana: il nahuatl e il maya. Il destino della giovane indigena, apparentemente già segnato, era però destinato a cambiare nuovamente con l’arrivo dei conquistadores spagnoli.

 

In particolare questa parte della sua storia, quella di cui si hanno notizie più certe e concrete, viene raccontata da uno storiografo dell’epoca che visse sulla propria pelle l’arrivo degli spagnoli in Messico, l’incontro con la popolazione indigena locale e le successive guerre per la conquista del territorio latinoamericano, Bernal Díaz del Castillo.

 

Quest’uomo, inizialmente soldato sotto il comando del capitano Hernán Cortés, scrisse la Historia Verdadera de la Conquista de Nueva España in contrapposizione all’opera dello storiografo ufficiale di Cortés, Francisco López de Gómara, chiamata Historia General de las Indias, definendola poco precisa e per nulla veritiera.

 

Bernal racconta, con il suo inconfondibile stile colorito e carico di sentimento, la storia travagliata della ragazza, specificando come questo suo ritratto della giovane fosse il risultato di una serie di conversazioni avute con lei: «… desidero parlare di Doña Marina, di come durante la sua fanciullezza fosse gran signora di cittadine e vassalli. Le cose stavano così: suo padre e sua madre erano signori e caciques di un paese chiamato Painala […] morì il padre lasciandola molto piccola e la madre si sposò con un altro giovane cacique ed ebbero un figlio e, a quanto pareva, volevano bene al figlio che avevano avuto [...] diedero durante la notte la bambina ad alcuni indiani di Xicalango in modo che nessuno la vedesse e misero in giro la voce che fosse morta...»

 

Secondo lo storiografo questa ragazza, donata a Cortés dai capi di Tabasco come parte di un ricco bottino, venne immediatamente battezzata con il nome cristiano di Marina. Non passò molto tempo che gli spagnoli si resero conto del ruolo essenziale di interprete che una donna del genere potesse ricoprire e, complice il buon cuore della ragazza e il suo carattere mite e orientato alla comunicazione, Marina divenne presto un punto di riferimento per lo stesso Cortés, nonché sua amante. La coppia ebbe anche un figlio, di nome Martín.

 

Il rapporto tra la donna indigena e il più famoso tra i conquistadores era tanto stretto che i soldati iniziarono a chiamare il loro capitano con un soprannome curioso: «… dal momento che Doña Marina, la nostra interprete, stava sempre in sua compagnia, specialmente quando arrivavano ambasciatori o si avevano colloqui con caciques e lei li traduceva dalla lingua messicana, per questa ragione chiamavano Cortés “il capitano di Marina” e, per renderlo più breve, lo chiamarono Malinchi».

 

Il suo ruolo era veramente cruciale, tanto che alla fine Cortés le concesse un autentico gesto di riconoscenza nei confronti del suo valore e del suo ruolo, facendole sposare un conquistador di una certa importanza tra i suoi ranghi, tale Juan Xaramillo.

 

Marina però non era di certo una donna in balia degli eventi, priva di coscienza o opinione circa i grandi avvenimenti che l’avevano vista in parte protagonista: ben consapevole di com’era stata trattata dalla sua gente e ricordando di come la sua stessa madre l’aveva allontanata e venduta come schiava per mera convenienza politica, la ragazza amava il suo nuovo ruolo di interprete e favorita, facendo all’occasione propaganda positiva in favore dei conquistadores presso gli indigeni con i quali le capitava di parlare.

 

Sempre secondo i racconti di Bernal Díaz del Castillo, in un’occasione particolare la giovane, vedendo una madre con la figlia terrorizzate dalla presenza degli spagnoli, decise di consolare entrambe, spiegando loro quanto in realtà quegli uomini apparentemente tanto minacciosi fossero stati indulgenti e generosi, coprendola di onori e rendendola nuovamente una signora grazie a un matrimonio vantaggioso.

 

Quello di La Malinche, che spesso viene ricordata ancora oggi come una figura succube e traditrice, era un atteggiamento comprensibile, dopotutto: per lei si trattava di scegliere tra il popolo che l’aveva tradita e quello che le aveva dato un’occasione, una nuova possibilità di rimettersi in gioco. In tal senso, la sua lealtà nei confronti degli spagnoli ha non solo una logica, ma la rende molto umana, non più un nome ricorrente nei libri di storia, ma una figura reale di carne e sangue, simile a noi uomini del ventunesimo secolo.

 

Molto poco si conosce di lei e del suo destino successivo agli anni della conquista del Messico, anche se si sospetta che sia vissuta fino al 1530 circa: la donna scomparve dai registri storici e le sue spoglie non vennero mai ritrovate.

 

Donna dai tre volti, donna dai mille volti: tanto è stato detto e scritto su di lei e, con buona probabilità, la sua vera natura e quello che aveva nel cuore è andato perduto per sempre tra le pieghe del tempo.

 

Non ci resta dunque che pensare ancora una volta alla testimonianza di Bernal Díaz del Castillo che, dopo averla conosciuta, dopo averle parlato e averla vista vivere secondo le sue inclinazioni e decisioni, non cessò mai di definirla una «donna davvero eccelsa».

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Alvar Manuel, Americanismos en la ‘Historia’ de Bernal Díaz del Castillo, 1923-2001, 1970.

Amozurrutia Alina, 101 mujeres en la historia de Mèxico, Messico, Random House Mondadori, 2008.

Carrella Anna M., Malinche: l’aquila, il serpente e la farfalla, Roma 2012.

Díaz del Castillo Bernal, Histora Verdadera de la Conquista de Nueva España, edición, estudio y notas de Giullermo Serés, Real Academia Española, Madrid 2001.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]