N°
172
/ APRILE 2022 (CCIII)
moderna
MALINCHE
LA DONNA AZTECA DAI TRE VOLTI
di Michela Stefani
L’opera del traduttore, si sa, è sempre stata
cruciale nel corso della storia. In molte occasioni
il traduttore è stato l’anello di congiunzione non
solo tra lingue diverse, ma anche tra culture
diverse, la prova tangibile della grande capacità di
adattamento e assimilazione dell’uomo, la
possibilità di interagire con il diverso, di
comprenderlo e accettarlo.
Ogni volta che due culture si incontrano, grandi
personalità sono destinate a emergere: re e regine
potenti, condottieri alla guida di grandi eserciti,
nobili e proprietari terrieri; tutte persone di
grande influenza. Alle volte però la ricchezza più
grande, l’arma più potente, è la perseveranza e la
capacità di non abbattersi davanti alle difficoltà e
agli eventi tragici della vita, ma trarre
ispirazione da questi e trasformarli in punti di
forza e d’onore.
Questo è quello che accadde, ormai secoli fa, a una
donna azteca, nata principessa, vissuta schiava e
diventata successivamente il volto e il simbolo, nel
bene e nel male, dell’incontro-scontro tra la sua
cultura di appartenenza, la cultura maya e quella
spagnola.
Questa ragazza, conosciuta anche con il nobile nome
in lingua nahuatl di Malintzin, nacque nel
1502 nella città-stato azteca chiamata
Coatzacoalcos, nella provincia di Paynalla,
nell’attuale stato di Veracruz. Alla morte del
padre, nobile personalità di spicco della città, la
giovane, che all’epoca aveva solo nove anni, dovette
affrontare il primo grande trauma della sua vita:
sua madre si risposò quasi subito e diede alla luce
un figlio maschio.
La nascita di un erede mise la giovane principessa
in una posizione precaria e pericolosa: la donna che
l’aveva generata, incurante dello stretto rapporto
familiare che le legava e in accordo con il nuovo
marito, la dichiarò morta davanti alla società e la
allontanò da tutto ciò che la bambina conosceva e
amava, vendendola ad alcuni mercanti di schiavi maya
di Xicalango, i quali, senza il suo consenso, la
trascinarono fino a Tabasco.
Non sarà dunque una sorpresa sapere che la giovane,
nella sua prima adolescenza, parlava già
perfettamente le due lingue più diffuse dell’America
Latina precolombiana: il nahuatl e il maya.
Il destino della giovane indigena, apparentemente
già segnato, era però destinato a cambiare
nuovamente con l’arrivo dei conquistadores
spagnoli.
In particolare questa parte della sua storia, quella
di cui si hanno notizie più certe e concrete, viene
raccontata da uno storiografo dell’epoca che visse
sulla propria pelle l’arrivo degli spagnoli in
Messico, l’incontro con la popolazione indigena
locale e le successive guerre per la conquista del
territorio latinoamericano, Bernal Díaz del
Castillo.
Quest’uomo, inizialmente soldato sotto il comando
del capitano Hernán Cortés, scrisse la Historia
Verdadera de la Conquista de Nueva España in
contrapposizione all’opera dello storiografo
ufficiale di Cortés, Francisco López de Gómara,
chiamata Historia General de las Indias,
definendola poco precisa e per nulla veritiera.
Bernal racconta, con il suo inconfondibile stile
colorito e carico di sentimento, la storia
travagliata della ragazza, specificando come questo
suo ritratto della giovane fosse il risultato di una
serie di conversazioni avute con lei: «… desidero
parlare di Doña Marina, di come durante la sua
fanciullezza fosse gran signora di cittadine e
vassalli. Le cose stavano così: suo padre e sua
madre erano signori e caciques di un paese chiamato
Painala […] morì il padre lasciandola molto piccola
e la madre si sposò con un altro giovane cacique ed
ebbero un figlio e, a quanto pareva, volevano bene
al figlio che avevano avuto [...] diedero durante la
notte la bambina ad alcuni indiani di Xicalango in
modo che nessuno la vedesse e misero in giro la voce
che fosse morta...»
Secondo lo storiografo questa ragazza, donata a
Cortés dai capi di Tabasco come parte di un ricco
bottino, venne
immediatamente battezzata con il nome cristiano di
Marina. Non passò molto tempo che gli spagnoli si
resero conto del ruolo essenziale di interprete che
una donna del genere potesse ricoprire e, complice
il buon cuore della ragazza e il suo carattere mite
e orientato alla comunicazione, Marina divenne
presto un punto di riferimento per lo stesso Cortés,
nonché sua amante. La coppia ebbe anche un figlio,
di nome Martín.
Il rapporto tra la donna indigena e il più famoso
tra i conquistadores era tanto stretto che i
soldati iniziarono a chiamare il loro capitano con
un soprannome curioso: «… dal momento che Doña
Marina, la nostra interprete, stava sempre in sua
compagnia, specialmente quando arrivavano
ambasciatori o si avevano colloqui con caciques e
lei li traduceva dalla lingua messicana, per questa
ragione chiamavano Cortés “il capitano di Marina” e,
per renderlo più breve, lo chiamarono Malinchi».
Il suo ruolo era veramente cruciale, tanto che alla
fine Cortés le concesse un autentico gesto di
riconoscenza nei confronti del suo valore e del suo
ruolo, facendole sposare un conquistador di
una certa importanza tra i suoi ranghi, tale Juan
Xaramillo.
Marina però non era di certo una donna in balia
degli eventi, priva di coscienza o opinione circa i
grandi avvenimenti che l’avevano vista in parte
protagonista: ben consapevole di com’era stata
trattata dalla sua gente e ricordando di come la sua
stessa madre l’aveva allontanata e venduta come
schiava per mera convenienza politica, la ragazza
amava il suo nuovo ruolo di interprete e favorita,
facendo all’occasione propaganda positiva in favore
dei conquistadores presso gli indigeni con i
quali le capitava di parlare.
Sempre secondo i racconti di Bernal Díaz del
Castillo, in un’occasione particolare la giovane,
vedendo una madre con la figlia terrorizzate dalla
presenza degli spagnoli, decise di consolare
entrambe, spiegando loro quanto in realtà quegli
uomini apparentemente tanto minacciosi fossero stati
indulgenti e generosi, coprendola di onori e
rendendola nuovamente una signora grazie a un
matrimonio vantaggioso.
Quello di La Malinche, che spesso viene ricordata
ancora oggi come una figura succube e traditrice,
era un atteggiamento comprensibile, dopotutto: per
lei si trattava di scegliere tra il popolo che
l’aveva tradita e quello che le aveva dato
un’occasione, una nuova possibilità di rimettersi in
gioco. In tal senso, la sua lealtà nei confronti
degli spagnoli ha non solo una logica, ma la rende
molto umana, non più un nome ricorrente nei libri di
storia, ma una figura reale di carne e sangue,
simile a noi uomini del ventunesimo secolo.
Molto poco si conosce di lei e del suo destino
successivo agli anni della conquista del Messico,
anche se si sospetta che sia vissuta fino al 1530
circa: la donna scomparve dai registri storici e le
sue spoglie non vennero mai ritrovate.
Donna dai tre volti, donna dai mille volti: tanto è
stato detto e scritto su di lei e, con buona
probabilità, la sua vera natura e quello che aveva
nel cuore è andato perduto per sempre tra le pieghe
del tempo.
Non ci resta dunque che pensare ancora una volta
alla testimonianza di Bernal Díaz del Castillo che,
dopo averla conosciuta, dopo averle parlato e averla
vista vivere secondo le sue inclinazioni e
decisioni, non cessò mai di definirla una
«donna
davvero eccelsa».
Riferimenti bibliografici:
Alvar Manuel, Americanismos en la ‘Historia’ de
Bernal Díaz del Castillo, 1923-2001, 1970.
Amozurrutia Alina, 101 mujeres en la historia de
Mèxico, Messico, Random House Mondadori, 2008.
Carrella Anna M., Malinche: l’aquila, il serpente
e la farfalla, Roma 2012.
Díaz del Castillo Bernal, Histora Verdadera de la
Conquista de Nueva España, edición, estudio y
notas de Giullermo Serés, Real Academia Española,
Madrid 2001.