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N. 50 - Febbraio 2012 (LXXXI)

la banda non si arrende
la banda della magliana ieri e oggi

di Laura Novak


 

Sembra che nell’anno appena passato la nostra Roma non abbia davvero avuto pace. Nel corso del 2011a Roma sono stati commessi 33 omicidi, comprese le due vittime dell’ultimo novembre, freddate a pochi metri da dove morì Pier Paolo Pasolini. Cifre che, per la nostra città, vengono considerate dalle autorità competenti, da capogiro. Ma a destare l’allarme sembra essere stata più che altro la storia criminale di alcune delle vittime di questo 2011.

 

Per la maggior parte pregiudicati, ben conosciuti alle forze dell’ordine, sembrano ricondurre tutti ad un'unica entità sepolta da anni: la Banda della Magliana. Cercando di evitare falsi allarmismi o veloci congetture, ci sono dei dati,  però, inequivocabili. Il giovane Flavio Simmi, incensurato, prima gambizzato nel mese di febbraio e poi ucciso in pieno giorno all’inizio di luglio 2011 nel quartiere nettamente borghese di Prati, è il figlio di un gioielliere romano, citato come un ex aderente della Banda della Magliana e, a quanto sembra, coinvolto nella celebre operazione Colosseo del 1993, che, di fatto, decapitò l’intero organigramma della Banda. Nonostante  il padre della vittima abbia sempre disconosciuto  la conoscenza di certi ambienti e non sia mai stato condannato per nessun reato attinente alla famigerata banda, la notizia dell’esecuzione del figlio ha segnato notevolmente la cronaca nera romana di questi ultimi mesi.

 

Per non parlare delle ultime due vittime di novembre, uccise sul lungomare di Ostia; appartenenti alla cosiddetta batteria (bande di quartiere) di Ostia ed affiliati negli anni addietro alla Banda della Magliana, sarebbero stati coinvolti nella morte di delinquente di nome Paolo Frau, ex braccio destro di quel ben più famoso Renatino de Pedis, storico boss della Banda anni ’70-80.

 

Era dall’inizio degli anni ’90 e dall’operazione Colosseo che la Banda non era più così tragicamente in “voga”. Negli ultimi anni un revival scenico ha riportato alla luce misteri e segreti di un’organizzazione criminale forse da sempre sottovalutata. Lo ammetto senza remore: anche io l’ho visto tutto d’un fiato ed ora è sistemato nella mia videoteca, in attesa di essere rivisto. Un prodotto commerciale, di certo, ma con un’ inaspettata qualità e sensatezza cinematografica.

 

Il serial “Romanzo Criminale” di per sé racconta la realtà, sapientemente mescolata a quello che non è esistito: fatti, eventi, personaggi mai davvero reali, ma fortemente realistici. A differenza del film di Michele Placido e del libro capostipite del magistrato Massimo De Cataldo, i toni del serial convincono e stravincono.

 

La galera, la strada, il bar e la bisca, le case e le abitudini dei protagonisti ricalcano in maniera sapiente i luoghi e i momenti storici di una Roma anni ’70 lacerata a metà; da una parte i “coatti” reietti ed arrabbiati, che criminalizzano i quartieri più popolari e malfamati e, dall’altra, la borghesia romana modaiola, patinata, travolta appieno dalla disco music e dalla cocaina. I guai iniziano per Roma quando le due sfere diventano pericolosamente dipendenti dalla loro interrelazione.
 
Certamente Il Libanese, il Dandy ed il Freddo, che nella realtà dei fatti avevano ben altri appellativi, non sono mai stati belli, attraenti, né tantomeno uomini di onore. Non sono mai stati legati da un’amicizia adolescenziale o legati da un doppio filo rosso, fatto di fratellanza e tradimenti. Quell’anima, umana e complessa, che trasuda dai protagonisti del serial, forse, non è mai davvero esistita. Eppure il serial tv, molto più del film, ha centrato l’obiettivo, inanellando ottime recensioni e ottimi ascolti, creando un nuovo filone noir italiano, ispirato alla cronaca nera.
 
Il fenomeno del serial ha creato, suo malgrado, una pericolosa tendenza alle idolatria e un imbarazzante merchandising di dubbio gusto. Dai busti raffiguranti i quattro protagonisti, piazzati nel mezzo del quartiere Eur, come lancio della prima puntata, agli accendini marchiati Libanese o Il Freddo, in vendita in qualsiasi negozio di tabacchi. Per questo e per molto altro va ricordato, senza paura o falsi miti, il passato non troppo lontano della nostra città, segnato dal sangue e dalla violenza.
 
La vera banda nasce dal sodalizio di azioni e dinamiche di varie batterie (bande di quartiere) della Roma anni ’70. La città eterna è da sempre inespugnabile. Napoli, Palermo, la Calabria e le indiscusse casate mafiose, che ne occupano i suoli, sono lontani anni luce dalla nostra città eterna. Roma non vuole altri padroni, ha già il suo padrone esclusivo, che da millenni la domina: il potere.
 
In una sorta di libero mercato all’aperto, la Roma di borgata si buca, si intossica e si deruba, mentre la Roma borghese si riempie le narici di polvere bianca, compra donne e auto sportive, si svende al consumismo di massa. La patria in quegli anni è invasa dalle correnti studentesche, da quelle femministe, da quelle abortiste e divorziste. I cosiddetti anni di piombo generano nell’animo dell’italiano onesto, orrore e sconsolata solitudine. Le istituzioni si destreggiano tra Mafia e Massoneria, preparano su tavoli pregiati manovre e strategie, schiacciando sotto il proprio controllo il popolino, impaurito dal nero fascista e dal rosso sangue delle BR.
 
Franco Giuseppucci (nella finzione il Libanese) è più che un ragazzo quando, all’interno della sua Batteria del Trullo/Magliana, diventa un rapinatore. Vicino a lui Maurizio Abbatino (nella finzione Il Freddo),  killer su commissione. Quando Giuseppucci, vera mente dietro alla nascita della banda allargata, incontra la criminalità della batteria di Trastevere e Testaccio, inizia un connubio, che diventerà storico, con altri due criminali Renatino - Enrico De Pedis (nella finzione Il Dandy) e Danilo Abbruciati (nella finzione Nembo Kid).
 
In questo modo le loro attitudini diventarono funzionali una all’altra, allargando esponenzialmente il raggio d’azione della banda. Mentre da una parte Renatino riusciva a tessere relazioni importanti con uomini politici ed ambienti clericali e Abbruciati rivestirà perfettamente il ruolo di tramite tra la banda e la Mafia, anche in virtù della sua amicizia con il boss Pippo Calò, dall’altra parte Giuseppucci e Abbatino istituivano un possente e consolidato giro di armi (ritrovate anni dopo nei sotterranei del ministero della Sanità, magazzino personale della Banda), di droga e racket. La nascita di un’unica unità criminale cambiò drasticamente lo scenario romano di quegli anni. Neppure la Mafia siciliana o quella napoletana era riuscita a sovvertire la gerarchia naturale di quartiere che regnava a Roma.
 
La prima vera azione congiunta è rappresentata dal rapimento del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, nel novembre del 1977. Il corpo del duca, ucciso per aver visto in volto uno dei suoi carcerieri, non verrà mai ritrovato. Per il suo riscatto la banda, all’epoca priva di De Pedis perché in carcere, incassò dalla famiglia del duca la cifra di 2 miliardi di lire. I soldi, “scottanti” perché facilmente rintracciabili, vennero spartiti solo in parte nelle cosiddette “stecche” tra i partecipanti al rapimento; per la prima volta in assoluto a Roma la maggior parte di un incasso criminale venne destinata a un unico fondo comune e investito in attività di puro riciclaggio. A differenza delle singole batterie di quartiere la banda accresce improvvisamente il proprio potere, arrivando prima a gestire tutte le scommesse ippiche della zona ed in seguito il succulento mercato del gioco d’azzardo. I cani sciolti della malavita locale iniziarono a rimettersi alla volontà di unico e più influente capo.
 
Con l’utilizzo della pratica dell’omicidio dimostrativo, più in voga nella Mafia piuttosto che nelle piccole batterie dedite alle rapine, la Banda, soprannominata della Magliana (per la provenienza di molti dei suoi aggregati) allunga velocemente le mani sulla città.
A differenza delle altre organizzazioni criminali, ogni componente della Banda, nessuno escluso, ha sempre impugnato le armi e portato a compimento ogni attività criminale, anche la più feroce, in prima persona.
 
La gerarchia al suo interno, piuttosto che piramidale, si può definire orizzontale. Ogni membro apparteneva ad un batteria e di quella zona ne era responsabile. Lo spaccio diventò ovviamente l’introito più corposo. Attraverso una fitta rete di spacciatori di medio livello (cavalli) venivano seguiti gli spacciatori/consumatori più piccoli (formiche) che, schiavi del loro stesso vizio, “spingevano” l’eroina in strada o all’interno del loro circolo di amicizie tossiche. I proventi venivano nuovamente dimezzati, per poi essere rinvestiti in attività collaterali, alcune pulite, altre meno.
 
La sua notevole influenza sul panorama criminale romano, porta la banda ad intrattenere rapporti d’affari da una parte con la Camorra e le cosche mafiose di Palermo, dall’altra con i servizi segreti italiani. Della loro attività criminale, dei legami tra i partecipanti alla banda, dei lasciti di Giuseppucci e della guerra sanguinaria successiva al suo omicidio, sappiamo molto.
 
Ferito mortalmente a Piazza San Cosimato, Giuseppucci muore dopo aver guidato fino all’ospedale, il 13 settembre 1980. Ad ucciderlo furono i due fratelli Proietti, appartenenti ad una famiglia di piccoli criminali affiliata alla banda, ma mai completamente assoggettati. La morte di Giuseppucci, di fatto, porta la Banda ad una disgregazione violenta. Con lui, la mente , il motivatore, muore anche il sodalizio tra batterie. In quel momento la batteria di Testaccio e Trastevere, da sempre guidata da De Pedis e Abbruciati, inizia a scontrarsi con quella della Magliana, ora in mano ad Abbatino. Mentre De Pedis lentamente assume un ruolo fondamentale per gli affari della Banda, Maurizio Abbatino, in rotta di collisione con il suo stile evanescente e opulento, viene arrestato (guarda caso) nel 1986. In prima linea, nel frattempo, era morto anche Danilo Abbruciati. Nel 1982, proprio mentre a Milano sta gambizzando il banchiere Roberto Rosone la sua arma si inceppa e muore sotto i colpi mirati della guardia giurata della banca.
 
Ma chi era Roberto Rosone? Vicepresidente del gruppo bancario Banco Ambrosiano, da qualche tempo, osteggiava il via libera ad un ingente prestito che Roberto Calvi, presidente del gruppo e membro della loggia sovversiva P2, aveva promesso a Flavio Carboni, affiliato a Pippo Calò. Il Banco Ambrosiano, all’epoca, era anche la principale fonte di denaro (a prestito perduto) per lo IOR di Cardinal Marcinkus. Quando anche Roberto Calvi muore sotto la mannaia della banda, appeso al ponte dei Frati neri di Londra, lo scandalo dello Ior valica le mura vaticane, travolgendo il Banco Ambrosiano, Roma e l’intera banda. L’alta finanza vaticana da sempre in stretto rapporto con la batteria di De Pedis è ormai al collasso. Setacciando il fango che deriva dal crac di Marcinkus, fa capolino, guarda caso, anche un altro dei grandi casi irrisolti del nostro paese, datato 1983: la scomparsa della quattordicenne e cittadina vaticana, Emanuela Orlandi.
 
Dopo anni di oblio e piste mai definitive, come quella dei lupi grigi turchi, la sparizione della giovane ritorna agli onori della cronaca nera nel 2009 a seguito delle dichiarazione di Patrizia Minardi, ex amante di Renatino ed ex maitresse di lusso. Secondo la sua testimonianza, il rapimento di Emanuela sarebbe stato incaricato proprio dal De Pedis, su richiesta del Cardinal Marcinkus. La giovane sarebbe stata tenuta prigioniera in un appartamento della banda in zona Monteverde, a Roma, per poi essere consegnata, dopo qualche mese, al Gianicolo ad un prete in una Bmw scura. Le motivazioni, secondo la Minardi, sarebbero da ricercare in una guerra di potere tra il cardinale e qualcuno di più potente. Un messaggio, un avvertimento. Le indicazioni della Minardi, che rimangono per gli inquirenti farraginose, potrebbero però rendere più fluido e comprensibile il legame tra la Banda della Magliana ed i misteri italiani più oscuri di quel periodo.
 
Così come le bollenti dichiarazioni del super pentito Maurizio Abbatino, arrestato nel gennaio del 1992 a Caracas. La sua verità rappresenta, di fatto, la pietra tombale per l’intero gruppo e la base per la successiva operazione Colosseo. Abbatino era fuggito in Venezuela dopo l’evasione da un ospedale del 1986. Aveva tentato di rifarsi una vita, dirà ai magistrati. Le congiunture politiche e sociali cambiano alla luce del pentimento di Abbatino.
 
Il rapimento Moro fu la prima ed eccezionale occasione per entrare in intenso contatto con la politica, attraverso un sistema di favori e ricatti; tramite i servizi segreti, gli illustri abitanti dei palazzi romani, chiesero alla banda di ritrovare il Presidente, possibilmente ancora vivo. Secondo Abbatino, però, le intenzioni dei vertici della Dc di allora cambiarono repentinamente; dopo alcune settimane, infatti, la Banda ubbidì silenziosamente all’ordine di smettere di cercare il Presidente.
 
La banda, di fatto, non aderì mai completamente e dichiaratamente ad una fazione politica netta. La sfera più intransigente, ad ogni modo, era rappresentata da un’ala neofascista nera, legata alla figura del Prof. Aldo Semerari, teorico del fascio, psichiatra rinomato. La stretta conoscenza con il Prof. Semerari garantiva di certo, in caso di incarcerazione, illuminati pareri psichiatrici pilotati. Ma, soprattutto, la ricollega (senza se e senza ma) alla stazione di Bologna e a quel maledetto 02 agosto del 1980, quando una devastante deflagrazione uccide 85 persone e ne mutila quasi 200; attentato per cui Semerari, decapitato dalla Mafia nel 1982, fu indagato, ritenuto colpevole e poi prosciolto.
 
Sono invece 4 proiettili, rinvenuti nell’armeria privata della Banda e dei fascisti romani presso i sotterranei del Ministero della Salute, che riconducono ad un altro omicidio eccellente del 1979: Carmine Mino Pecorelli. Carmine Pecorelli, giornalista e membro anch’esso della P2, fu il fondatore della rivista OP (Osservatorio Politico). Avvocato dedito al giornalismo d’assalto, da tempo scavava nel delitto Moro ed era ormai ragionevolmente vicino alla pubblicazione di nuovo materiale clamoroso. Tre anni dopo, nel 1982, ecco l’esecuzione del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, amico intimo e, si ritiene, fonte privilegiata di Pecorelli di un fascicolo inedito del memoriale Moro, rinvenuto in un covo delle Br.
 
Abbiamo appreso come la scia di sangue non sia mai tanto delineata da ricondurre sempre a chi, al dove e al perché di un delitto. Spesso di quella stessa scia non si riesce ad individuare l’origine, né, tantomeno, la fine. Rimane a noi, nonostante gli anni trascorsi e il lontano ricordo dei tempi che furono, continuare a documentarci, a conoscere e comprendere anche quello che appare oscuro e tanto complesso. Non c’è nulla nella realtà di quegli anni che sia minimamente vicino a quanto la finzione scenica ci ha rappresentato. Nulla. Nemmeno i nomi. Di vero rimangono le vittime consapevoli e quelle inconsapevoli. Di vero e potente rimangono le domande che, da anni, sono molte e sempre le stesse. Spigolose, complesse, che fanno molta paura. Ma, rileggendo tutta la storia della Banda della Magliana, le sue amicizie e le sue inimicizie, c’è una domanda che appare fondamentale per comprenderne fino in fondo il ruolo: La Banda dominò davvero Roma solo per “merito”, per volontà e determinazione di un gruppo di delinquenti comuni della borgata romana? “Andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant'Apollinare”. Così una voce anonima parla a Chi L’ha Visto durante una puntata sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.

Forse un’ illuminante risposta?



 

 

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