attualità
KONFERENTSIYA
UN FILM SUI SOPRAVVISSUTI AI FATTI DEL TEATRO DUBROVKA
di Leila Tavi
Konferentsiya
(Конференция, Conference) è un film di
Ivan I. Tverdovskij (Ива́н Ива́нович
Твердовский), in concorso alla
settantasettesima edizione del Festival
Internazionale del Cinema di Venezia,
nella sezione Giornate degli Autori
(Venice Days).
Si tratta di un’opera prima del giovane
filmmaker moscovita sulla paura, sulla
sindrome post-traumatica e
sull’espiazione della colpa. Il film
narra del dramma che tormenta una
famiglia di sopravvissuti a diciassette
anni dalla strage avvenuta il 26 ottobre
2002 nel teatro Dubrovka (Дубро́вка) di
Mosca, dove 850 spettatori furono presi
in ostaggio la sera del 23 ottobre,
mentre andava in scena il musical
Nord-Ost (Норд-О́ст).
L’azione fu organizzata da un gruppo di
militanti armati ceceni, fedeli al
movimento separatista e composto anche
da vedove nere, donne kamikaze chiamate
«Shahidki», il plurale di shahidka
(шахи́дка), termine che lega il
suffisso femminile russo alla parola
araba shahid, «martire» (شَهيد).
Proprio come una martire ci appare la
protagonista all’inizio del film, come
una figura ieratica, una monaca
ortodossa, che con la sua veste nera
integrale richiama alla memoria una
vedova nera cecena. Natasha Samokhina
non ha preso i voti da ragazza, ha un
passato da madre e da moglie. Nel giorno
dell’assalto al Dubrovka la donna era lì
con la sua famiglia.
Come ogni anno ha chiesto un
appuntamento al direttore del teatro per
affittare la sala e riunirsi con i
parenti delle vittime, per ricordare i
morti e coloro che, pur essendo
sopravvissuti, sono rimasti invalidi a
causa delle esalazioni del gas
utilizzato dagli Specnaz (спецназ) per
stordire i ribelli e poter, così, far
irruzione nel teatro.
Nel riempire il formulario che il
direttore le ha chiesto di compilare per
richiedere l’affitto della sala, Natasha
Samokhina vorrebbe inserire come
motivazione “momento di lutto” o
“commemorazione funebre”, ma il
contratto di affitto del teatro non lo
prevede. Il direttore sottolinea che
gestisce una struttura commerciale e che
la suora non può aspettarsi che sia
interrotta la programmazione del teatro
per un evento che comprende essere di
tipo umanitario, ma che non può essere
gratuito, farà un prezzo di favore e un
biglietto ridotto, ma la suora deve
barrare la casella conferenza, non ci
sono eccezioni alla tipologia di eventi
prevista dal contratto.
Pochi vogliono ricordare, pochi vanno
alla commemorazione, a eccezione di
quella in ricorrenza dei 15 anni,
addirittura con la troupe della
televisione di Stato, che ha fatto un
reportage, ricorda Natasha Samokhina con
un’altra donna che ha perso un suo caro
nell’attacco del 2002 e che ogni anno
l’aiuta a organizzare l’evento
commemorativo al Dubrovka.
Durante le scene del film si avverte la
compostezza della sofferenza del popolo
russo, che subisce in silenzio senza
elaborare il lutto, senza analizzare le
circostanze, perché quello che lo Stato
fa non può essere contestato, si accetta
passivamente e anche il sacrificio della
perdita di centinaia di ostaggi uccisi
dal gas lanciato dagli Specnaz è il
prezzo da pagare alla Patria.
Al vigilante del teatro, Galya la figlia
di Natasha si presenta come ostaggio, ma
l’ingresso è consentito solo nei giorni
stabiliti, non si entra senza
autorizzazione, non si entra senza
essere in lista. All’entrata, come in
tutti i luoghi pubblici di Mosca, il
controllo con il metal detector. Galya
acquista un biglietto per la
commemorazione, fila 8 posto 26, come
allora. Appena seduta non resiste,
scappa in bagno, le manca l’aria, apre e
chiude convulsamente la finestra,
ossessivamente. Anche il padre di Galya
è rimasto gravemente paralizzato dagli
effetti del gas.
Nel ricordo degli ostaggi, è evocato
Aslan, uno dei ribelli che durante il
sequestro, nel film si dice, salì sul
palco con una radio urlando che i media
russi erano colpevoli di censurare la
verità dei fatti sulla questione cecena
e una combattente shaidka, dal
soprannome Ira, ma dal nome Gulchatai,
con una cintura esplosiva, l’unica
ribelle con il volto scoperto, giovane
dal tipico viso ceceno, che ti può
capitare di incontrare per la strada o
al mercato, racconta durante il film una
superstite.
Poi il ricordo di Ol’ga Romanova (Ольга
Романова), che il 24 settembre riuscì a
eludere il cordone di sicurezza e a
introdursi nel teatro per tentare di
convincere i ribelli a lasciare liberi
gli ostaggi e che divenne la prima delle
oltre cento vittime di quell’assalto.
Qualcuno tra il pubblico ricorda il
lancio di vivande e di snack dal palco,
come “trofei”, così come li chiamavano i
militanti, poi il ricordo di quando con
lo scotch i ribelli hanno legato a due
sedie posizionate schiena contro schiena
sul palco delle confezioni di cibo a
dell’esplosivo, con quel tipico
gracchiante rumore del nastro adesivo,
un rumore che ti rimane addosso. Mentre
costruivano la loro scenografia di
morte, tra scatole di conserva e fili
presi dall’impianto di illuminazione,
troneggiava il vessillo nero con le
scritte in arabo della Cecenia libera.
Alcuni astanti hanno ancora impresso
nella memoria la quindicenne che tra i
ribelli, completamente coperta dal
burqa, si comportava in modo sereno,
come se si trattasse di una normale
situazione della vita quotidiana. La
ragazza era l’unica a parlare con gli
ostaggi, raccontando di aver perso suo
padre e suo fratello per mano dei
soldati in russi in Cecenia, mentre a
Mosca la gente si divertiva andando al
cinema o a teatro.
Nel silenzio, l’immagine della sala
minata con bombe rudimentali, bombole a
gas, mentre un giovane terrorista,
appena diciottenne, si trastullava, come
niente fosse, con i cellulari degli
ostaggi, impilati sul fondo della sala,
ormai muti, dopo aver squillato
incessantemente il primo giorno della
presa in ostaggio. A lui piaceva, di
tanto in tanto, rispondere a quelle
disperate chiamate, parlare con le
famiglie degli ostaggi, sempre in tono
arrogante. Gli piaceva fare domande agli
ostaggi terrorizzati sui modelli dei
cellulari e giocare ai videogame che vi
erano installati. Aveva distribuito ai
suoi compagni alcuni cellulari e si
divertivano a chiamarsi tra di loro.
Il ragazzo era anche uno degli addetti
al controllo dei bagni, ad accompagnare
gli ostaggi dalla sala ai bagni. Due
donne riuscirono a fuggire dai bagni,
così le donne furono costrette a
utilizzare la fossa dell’orchestra come
bagno. Nonostante le minacce di uccidere
dieci ostaggi per ogni fuggitivo, i
militanti non fecero nulla dopo la fuga
delle due donne. A un tratto il silenzio
si era fatto profondo, tanto da
diffondere un senso di tranquillità tra
gli ostaggi, che riuscirono ad
addormentarsi, una calma interrotta dal
rumore di una bottiglia fracassata. Poi
il tentativo di uomo di colpire una
shaidka con un frammento della
bottigiia di vetro che aveva rotto, la
reazione di lei e le grida di dolore
della ragazza colpita al posto
dell’uomo, ferita gravemente al ventre.
Infine la scarica di mitragliatrice
sull’uomo da parte di un altro
militante.
Nella penombra dell’enorme sala
semivuota, accanto ai pochi convenuti,
sono posizionati sulle poltrone solo dei
manichini gonfiabili, di colore bianco a
rappresentare le vittime, nero i
terroristi e blu le persone che non sono
potute intervenire alla commemorazione.
L’asfissiante atmosfera sembra una messa
in scena teatrale, dove il rumore
incessante di un porta vivande che è
trasportato giù per la scala centrale
sembra il rumore del passo marziale di
militari che irrompono nella sala a
sorpresa.
Nessun eroe, nessun supereroe, solo
l’assedio e l’angoscia, la lunga agonia
prima della fine allora, la frustrazione
di non arrivare fino alla fine oggi, di
non riuscire ancora dopo tanti anni a
elaborare il lutto, il senso di colpa,
mentre nel profondo dell’anima i
sopravvissuti si trascinano i loro
errori.
Una memoria collettiva nel film di
Tverdovskij, un’espiazione che non
arriva per delle vittime che a tratti si
sentono carnefici. Qualcuno chiede delle
due donne che sono riuscite a scappare
dai bagni, con grande sorpresa dei
presenti, una delle donne è lì. Nel
tentativo di portare a termine la sua
personale espiazione, una dolorosa
confessione, Natasha fa bloccare le
porte ai pochi rimasti con lei per
arrivare fino in fondo, perché ogni
volta che succede una disgrazia i Russi
stanno in silenzio senza far niente,
troppo spaventati per dire qualcosa,
come morti, paralizzati dalle loro
paure, per questo sono perseguitati
dalle disgrazie, una dopo l’altra.
Mentre il direttore e il vigilante
cercano di entrare a forza per
sgomberare la sala, ormai a notte fonda,
Natasha racconta finalmente la sua
dolorosa storia e il suo passato di
madre di famiglia torna a galla a
sconvolgere l’apparente impercettibile
volto della pia donna.
Tra le vittime della sparatoria e del
fentanyl anche trentatre ceceni,
nell’ennesima azione punitiva nei
confronti di un popolo ribelle che la
Russia cerca di sottomettere dai tempi
del condottiero Shaykh Mansur Ushurma
nel Settecento. |