arte
KETTY LA ROCCA
PER UNA SCRITTURA VERBo-VISIVA
AL FEMMINILE
di Angelica Gatto
In punta di piedi
Ho versato dell’acqua
Nell’orecchio,
Ho atteso l’onda.
Nessuna barca
Contiene le mie mani,
Ogni mio legno si schianta
Dal mio caldo.
Ketty La Rocca, Inedito, 1971
In una breve biografia dedicata a
Ketty La Rocca, Renato Barilli, che
nel 1970 ne aveva curato un’importante
personale presso la Galleria d’Arte 2000
di Bologna, scrive: “Qualche mese fa gli
ambienti della ricerca di punta hanno
dovuto lamentare la precoce scomparsa di
Ketty La Rocca.
La giovane artista si era formata in
seno alla pattuglia di operatori
d’avanguardia attivi a Firenze, una
pattuglia che da tempo si distingue per
un grado di estremismo evidentemente
polemico nei confronti di una città e di
una cultura che continuano ad essere
oppresse da una lontana grandezza, e da
una presente e incombente
accademia.”
Gaetana La Rocca nasce a La Spezia nel
1938; nel 1956, dopo il matrimonio con
Silvio Vasta, decide di trasferirsi
definitivamente a Firenze, dove entra in
contatto con l’ambiente d’avanguardia
che in quegli anni anima la ricerca
culturale della città. Attraverso
l’amicizia con Lelio Missoni, La Rocca
stabilisce contatti con il Gruppo ’70
di Pignotti, Miccini, Marcucci, Ori.
L’ambito di formazione dell’artista
risente, nei primi anni Sessanta, del
clima di dinamicità e apertura del
dibattito sulle tematiche della cultura
contemporanea legate inestricabilmente
alla vivacità della sperimentazione
della città di Firenze in quegli stessi
anni: dalla fondazione del Gruppo ‘70
alla nascita della Radical Architecture
italiana, formatasi nell’ambito della
contestazione universitaria della
Facoltà di Architettura, dalle prime
azioni Fluxus di Giuseppe Chiari, alla
musica elettronica di Pietro Grossi,
primo violoncello nell’orchestra del
Maggio Musicale Fiorentino nonché
pioniere della musica sperimentale
contemporanea.
La Rocca frequenta in questi anni i
gruppi di studio organizzati
privatamente da Grossi e poi il corso di
Musica elettronica, il primo in Italia,
da lui tenuto a partire dal 1965 presso
il Conservatorio Luigi Cherubini. Nel
1961 - altro passaggio fondamentale
nella ricostruzione delle linee
direttrici della ricerca del tempo -
esce a Milano L’antologia I
Novissimi, poesie per gli anni ’60,
sotto l’egida de Il Verri,
rivista trimestrale fondata nel 1956 da
Luciano Anceschi, stampata da Einaudi,
curata da Alfredo Giuliani, con testi di
Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani,
Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini,
Antonio Porta.
A partire da questo fertile retroterra
culturale La Rocca elabora la propria
poetica, mantenendo una posizione
autonoma all’interno della propria
ricerca e configurando quella stessa
autonomia come l’elemento propedeutico
alla maturazione di un linguaggio
espressivo del tutto personale.
Nel rapporto di interdipendenza che le
opere di La Rocca vivono con il testo
scritto è possibile evincere come gli
appunti, le annotazioni, le
dichiarazioni dell’artista divengano una
parte integrante del suo percorso,
inestricabilmente legati alla
riflessione metalinguistica sui
paradigmi della scrittura e, con essa,
del linguaggio inteso come
comunicazione.
La scrittura è per l’artista una pratica
costante, uno strumento essenziale di
ricerca: ricerca sulla scrittura e
mediante la scrittura; attraverso di
essa si palesa una corporeità che assume
una nuova morfologia: non tanto il corpo
inteso come medium sul quale
inscrivere e circoscrivere delle azioni,
bensì una forma immateriale di
corporeità che si tramuta in un
gesto-segno arricchito di volta in volta
di nuovi significanti. La parola si fa
corpo, ed entra a far parte
dell’immagine assumendo un ruolo
paritario.
Attraverso l’adesione al Gruppo ’70
e alle pratiche legate alla poesia
visiva, La Rocca matura una
crescente consapevolezza del superamento
della separazione tra linguaggio iconico
e linguaggio verbale; con l’utilizzo di
un duplice registro espressivo, allo
stesso tempo verbale e visivo, l’artista
preleva l’immagine massificata,
obsoleta, scarnificata di un livello di
significato ulteriore, e la ibrida,
risemantizzandola, con il linguaggio:
frasi, o più semplicemente singole
parole, risuonano come moniti
pronunciati dallo sguardo impietosamente
consapevole dell’artista.
Alla metà degli anni Sessanta sono
riconducibili alcune opere,
politicamente connotate e forti di un
afflato libertario, che mirano a
denunciare lo stato di apparente
liberazione dei costumi societari e il
ruolo eteronormato della donna, spesso
costretta a subire nuove forme di
sudditanza e di subordinazione, più
sottili, più bieche: l’addomesticamento
operato su diversi livelli dai media e
la mercificazione oggettuale
dell’immagine femminile [Sana come il
pane quotidiano, collage su
cartoncino del 1965; Qualcosa di
vecchio, 1964-65; Le scimmie
impareranno a parlare?, 1964-65], il
peso di una cultura di stampo
cristiano-cattolico fortemente
condizionante.
È nel confronto con i testi scritti di
pugno da La Rocca, in parte conservati
presso l’Archivio Michelangelo Vasta di
Firenze, che è possibile ravvisare
un’importante continuità tra pratica
della scrittura, da intendersi come
pratica privata attraverso la quale
l’artista annota i suoi pensieri, i
progetti, le dichiarazioni, e pratica
del linguaggio, così come viene
concepita all’interno dell’opera d’arte.
Nel testo in versi Una buona idea,
comparso nel luglio-ottobre del 1966
sull’inserto Dopotutto per il n.
82-83 di Letteratura curato da
Lamberto Pignotti ed Eugenio Miccini, La
Rocca scrive: “(…) b) surgelare nel
freezer gli ormoni / c) rendersi
disponibile all’amplesso legittimo /
(...) e) sentire il palpito del focolare
domestico / (…)”.
Ci troviamo davanti a un alfabeto da
risemantizzare con la ferma necessità di
reclamare il proprio posto nel mondo e
la propria volontà di dissociazione
dall’intorpidimento collettivo.
In Non commettere sorpassi impuri,
1964-65, e Io sono Peter, una
stampa plastificata su legno datata al
1964-65, l’attenzione di Ketty La Rocca
si rivolge ulteriormente all’indagine
della stigmatizzazione del linguaggio
mediatico, anche a partire dalla messa
in discussione dei poteri costituiti.
L’appiattimento del portato comunicativo
del linguaggio stesso, il suo
abbrutimento, divengono gli esempi
eclatanti della volontà di ristabilire
una dialettica proficua tra immagine e
parola. Il valore di continuità
ravvisabile tra queste opere e il
contesto sociale al quale appartengono
rientra nell’anamnesi stessa del lavoro,
dimostra come l’opera e con essa
l’artista siano attivi e consapevoli
interpreti dei loro ruoli nel tempo.
.
Ketty La Rocca, Non commettere
sorpassi impuri,
1964-65, collage plastificato, 100 x
65,5 x 1,5 cm.
Courtesy Archivio Ketty La Rocca,
Firenze
In Sana come il pane quotidiano,
citando provocatoriamente le parole del
Pater Noster, il tema della
condizione della donna nella società dei
consumi è ricontestualizzato all’interno
della cultura cattolica e tradizionale.
Poche immagini ritagliate e fatte
fluttuare su uno sfondo scuro
definiscono una composizione che rivela
sin da subito la chiara scelta
espressiva compiuta dall’artista: il
linguaggio, verbale e iconico insieme,
deve essere conciso, diretto,
laconico.
L’ironia velata si arricchisce del
messaggio sintetico e della polemica
esplicita. In una società in cui tutto
viene mercificato e dove tutto è
impostato secondo una logica stringente
che è quella del capitalismo, anche
l’essere umano, e qui in primis
la donna, subisce una reificazione; essa
viene messa in vendita, proprio come il
pane, alimento basilare di una dieta
giornaliera.
La drammaticità dell’immagine vive nel
contrasto con l’occhiello ritagliato in
basso, dove una madre e i suoi figli
mangiano del riso: la guerra e
l’insondabile distanza (ovvero mancanza
di comunicazione) tra il mondo
“occidentale”, che si crogiola nelle
comodità e negli eccessi, e una società
che percepisce come inevitabilmente
altra da sé.
È possibile qui comprendere il portato
profondo del discorso condotto da Ketty
La Rocca, in cui l’incomunicabilità è
sempre strettamente legata alla
percezione mancata dell’alto da sé e
all’appiattimento del linguaggio,
destinato a un’usura progressiva, a una
perdita della capacità di definizione e
comprensione profonda del reale.
Come ha affermato l’artista, in un
documento inedito conservato presso
l’Archivio Michelangelo Vasta di
Firenze, è proprio a questo punto che
“[…] rileviamo quanto è essenziale alla
comunicazione il lato affettivo-emotivo
e non solamente quello cognitivo e di
passaggio di informazioni […]”
appartenenti alla parola e, con
essa, al linguaggio.
Riferimenti bibliografici:
Lucilla Saccà, Ketty La Rocca. I suoi
scritti, Martano Editore, Torino
2005. |