[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 154 / OTTOBRE 2020 (CLXXXV)


arte

KETTY LA ROCCA
PER UNA SCRITTURA VERBo-VISIVA
AL FEMMINILE

di Angelica Gatto

 

In punta di piedi   
Ho versato dell’acqua    
Nell’orecchio,
Ho atteso l’onda.  
          
Nessuna barca     
Contiene le mie mani,   
Ogni mio legno si schianta      
Dal mio caldo.
    

  
Ketty La Rocca, Inedito, 1971

 

In una breve biografia dedicata a Ketty La Rocca, Renato Barilli, che nel 1970 ne aveva curato un’importante personale presso la Galleria d’Arte 2000 di Bologna, scrive: “Qualche mese fa gli ambienti della ricerca di punta hanno dovuto lamentare la precoce scomparsa di Ketty La Rocca.

 

La giovane artista si era formata in seno alla pattuglia di operatori d’avanguardia attivi a Firenze, una pattuglia che da tempo si distingue per un grado di estremismo evidentemente polemico nei confronti di una città e di una cultura che continuano ad essere oppresse da una lontana grandezza, e da una presente e incombente accademia.”       

Gaetana La Rocca nasce a La Spezia nel 1938; nel 1956, dopo il matrimonio con Silvio Vasta, decide di trasferirsi definitivamente a Firenze, dove entra in contatto con l’ambiente d’avanguardia che in quegli anni anima la ricerca culturale della città. Attraverso l’amicizia con Lelio Missoni, La Rocca stabilisce contatti con il Gruppo ’70 di Pignotti, Miccini, Marcucci, Ori.

 

L’ambito di formazione dell’artista risente, nei primi anni Sessanta, del clima di dinamicità e apertura del dibattito sulle tematiche della cultura contemporanea legate inestricabilmente alla vivacità della sperimentazione della città di Firenze in quegli stessi anni: dalla fondazione del Gruppo ‘70 alla nascita della Radical Architecture italiana, formatasi nell’ambito della contestazione universitaria della Facoltà di Architettura, dalle prime azioni Fluxus di Giuseppe Chiari, alla musica elettronica di Pietro Grossi, primo violoncello nell’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino nonché pioniere della musica sperimentale contemporanea.     

 
La Rocca frequenta in questi anni i gruppi di studio organizzati privatamente da Grossi e poi il corso di Musica elettronica, il primo in Italia, da lui tenuto a partire dal 1965 presso il Conservatorio Luigi Cherubini. Nel 1961 - altro passaggio fondamentale nella ricostruzione delle linee direttrici della ricerca del tempo - esce a Milano L’antologia I Novissimi, poesie per gli anni ’60, sotto l’egida de Il Verri, rivista trimestrale fondata nel 1956 da Luciano Anceschi, stampata da Einaudi, curata da Alfredo Giuliani, con testi di Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta.         

A partire da questo fertile retroterra culturale La Rocca elabora la propria poetica, mantenendo una posizione autonoma all’interno della propria ricerca e configurando quella stessa autonomia come l’elemento propedeutico alla maturazione di un linguaggio espressivo del tutto personale.

Nel rapporto di interdipendenza che le opere di La Rocca vivono con il testo scritto è possibile evincere come gli appunti, le annotazioni, le dichiarazioni dell’artista divengano una parte integrante del suo percorso, inestricabilmente legati alla riflessione metalinguistica sui paradigmi della scrittura e, con essa, del linguaggio inteso come comunicazione.


La scrittura è per l’artista una pratica costante, uno strumento essenziale di ricerca: ricerca sulla scrittura e mediante la scrittura; attraverso di essa si palesa una corporeità che assume una nuova morfologia: non tanto il corpo inteso come medium sul quale inscrivere e circoscrivere delle azioni, bensì una forma immateriale di corporeità che si tramuta in un gesto-segno arricchito di volta in volta di nuovi significanti. La parola si fa corpo, ed entra a far parte dell’immagine assumendo un ruolo paritario.  

 

Attraverso l’adesione al Gruppo ’70 e alle pratiche legate alla poesia visiva, La Rocca matura una crescente consapevolezza del superamento della separazione tra linguaggio iconico e linguaggio verbale; con l’utilizzo di un duplice registro espressivo, allo stesso tempo verbale e visivo, l’artista preleva l’immagine massificata, obsoleta, scarnificata di un livello di significato ulteriore, e la ibrida, risemantizzandola, con il linguaggio: frasi, o più semplicemente singole parole, risuonano come moniti pronunciati dallo sguardo impietosamente consapevole dell’artista.

 

Alla metà degli anni Sessanta sono riconducibili alcune opere, politicamente connotate e forti di un afflato libertario, che mirano a denunciare lo stato di apparente liberazione dei costumi societari e il ruolo eteronormato della donna, spesso costretta a subire nuove forme di sudditanza e di subordinazione, più sottili, più bieche: l’addomesticamento operato su diversi livelli dai media e la mercificazione oggettuale dell’immagine femminile [Sana come il pane quotidiano, collage su cartoncino del 1965; Qualcosa di vecchio, 1964-65; Le scimmie impareranno a parlare?, 1964-65], il peso di una cultura di stampo cristiano-cattolico fortemente condizionante.

 

È nel confronto con i testi scritti di pugno da La Rocca, in parte conservati presso l’Archivio Michelangelo Vasta di Firenze, che è possibile ravvisare un’importante continuità tra pratica della scrittura, da intendersi come pratica privata attraverso la quale l’artista annota i suoi pensieri, i progetti, le dichiarazioni, e pratica del linguaggio, così come viene concepita all’interno dell’opera d’arte.

 

Nel testo in versi Una buona idea, comparso nel luglio-ottobre del 1966 sull’inserto Dopotutto per il n. 82-83 di Letteratura curato da Lamberto Pignotti ed Eugenio Miccini, La Rocca scrive: “(…) b) surgelare nel freezer gli ormoni / c) rendersi disponibile all’amplesso legittimo / (...) e) sentire il palpito del focolare domestico / (…)”.


Ci troviamo davanti a un alfabeto da risemantizzare con la ferma necessità di reclamare il proprio posto nel mondo e la propria volontà di dissociazione dall’intorpidimento collettivo.

 

In Non commettere sorpassi impuri, 1964-65, e Io sono Peter, una stampa plastificata su legno datata al 1964-65, l’attenzione di Ketty La Rocca si rivolge ulteriormente all’indagine della stigmatizzazione del linguaggio mediatico, anche a partire dalla messa in discussione dei poteri costituiti.

 

L’appiattimento del portato comunicativo del linguaggio stesso, il suo abbrutimento, divengono gli esempi eclatanti della volontà di ristabilire una dialettica proficua tra immagine e parola. Il valore di continuità ravvisabile tra queste opere e il contesto sociale al quale appartengono rientra nell’anamnesi stessa del lavoro, dimostra come l’opera e con essa l’artista siano attivi e consapevoli interpreti dei loro ruoli nel tempo.   

 

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Ketty La Rocca, Non commettere sorpassi impuri,

1964-65, collage plastificato, 100 x 65,5 x 1,5 cm.

Courtesy Archivio Ketty La Rocca, Firenze


In Sana come il pane quotidiano, citando provocatoriamente le parole del Pater Noster, il tema della condizione della donna nella società dei consumi è ricontestualizzato all’interno della cultura cattolica e tradizionale. Poche immagini ritagliate e fatte fluttuare su uno sfondo scuro definiscono una composizione che rivela sin da subito la chiara scelta espressiva compiuta dall’artista: il linguaggio, verbale e iconico insieme, deve essere conciso, diretto, laconico.   

 
L’ironia velata si arricchisce del messaggio sintetico e della polemica esplicita. In una società in cui tutto viene mercificato e dove tutto è impostato secondo una logica stringente che è quella del capitalismo, anche l’essere umano, e qui in primis la donna, subisce una reificazione; essa viene messa in vendita, proprio come il pane, alimento basilare di una dieta giornaliera.

 

La drammaticità dell’immagine vive nel contrasto con l’occhiello ritagliato in basso, dove una madre e i suoi figli mangiano del riso: la guerra e l’insondabile distanza (ovvero mancanza di comunicazione) tra il mondo “occidentale”, che si crogiola nelle comodità e negli eccessi, e una società che percepisce come inevitabilmente altra da sé.

 

È possibile qui comprendere il portato profondo del discorso condotto da Ketty La Rocca, in cui l’incomunicabilità è sempre strettamente legata alla percezione mancata dell’alto da sé e all’appiattimento del linguaggio, destinato a un’usura progressiva, a una perdita della capacità di definizione e comprensione profonda del reale.   

Come ha affermato l’artista, in un documento inedito conservato presso l’Archivio Michelangelo Vasta di Firenze, è proprio a questo punto che “[…] rileviamo quanto è essenziale alla comunicazione il lato affettivo-emotivo e non solamente quello cognitivo e di passaggio di informazioni […]” appartenenti alla parola e, con essa, al linguaggio.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Lucilla Saccà, Ketty La Rocca. I suoi scritti, Martano Editore, Torino 2005.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]