N. 87 - Marzo 2015
(CXVIII)
Kei Nishikori
Il samurai della racchetta
di Francesco Agostini
Talento,
precisione,
dedizione:
il
popolo
giapponese
è
conosciuto
in
tutto
il
mondo
per
queste
peculiari
caratteristiche.
Dalla
tecnologia
all’industria
automobilistica,
passando
per
l’eccellente
sistema
scolastico,
questo
piccolo
paese
asiatico
ha
saputo
diventare
uno
dei
leader
mondiali,
guidando
in
molti
casi
l’economia.
Ma
il
Giappone,
negli
ultimi
anni,
sta
pian
piano
scalando
le
classifiche
di
uno
sport
ancora
poco
praticato
nel
Sol
Levante:
il
tennis.
A
chi
si
deve
questa
fulminea
escalation?
A
Kei
Nishikori,
vero
e
proprio
fiore
all’occhiello
del
vivaio
nipponico.
Fino
a
qualche
anno
fa
ben
pochi
avrebbero
scommesso
sul
suo
talento,
eppure
già
evidente
fin
da
subito,
forse
per
la
sua
struttura
fisica
non
proprio
robusta
e la
sua
bassa
statura.
Nishikori,
però,
ha
saputo
volgere
a
suo
favore
questi
suoi
difetti
in
pregi.
Il
nipponico,
infatti,
riesce
più
di
altri
ad
arrivare
sempre
in
anticipo
sulla
palla,
forte
di
un
gioco
di
gambe
eccezionale.
La
ragione
è
semplice:
il
baricentro
basso.
Kei
gioca
inoltre
un
tennis
d’attacco
da
fondocampo,
con
un
dritto
solido
e
penetrante
e
un’ottima
tecnica
di
base.
Il
suo
repertorio
è,
infatti,
molto
vasto:
smorzate,
rovesci
in
back
velenosissimi
e
pallonetti
precisi
sono
per
il
giapponese
pane
quotidiano.
In
pochi
anni
dunque,
Nishikori
è
riuscito
a
raggiungere
il
vertice.
Nonostante
le
luci
della
ribalta,
c’era
stato
un
momento
in
cui
si
era
creduto
che
non
potesse
andare
oltre
la
ventesima
posizione
nel
ranking
ATP
a
causa
dell’impatto
scioccante
con
i
giocatori
più
forti.
In
particolare
quello
con
il
suo
mito,
Federer,
verso
il
quale
si è
così
espresso:
“Il
mio
idolo
è
sempre
stato
Roger
Federer.
Per
me è
il
miglior
tennista
di
tutti
i
tempi.
Quando
ci
siamo
incontrati
a
Basilea
è
stato
semplicemente
troppo
forte
per
me.
È
dotato
di
un
talento
incredibile,
sa
far
bene
tutto,
sentivo
che
non
avevo
alcuna
possibilità
di
vincere.
È
stato
comunque
bello
osservare
da
vicino
il
livello
dei
migliori
giocatori
del
mondo.
Non
gli
ho
mai
chiesto
consigli
perché
ho
un
team
intorno
a me
che
ha
questo
compito,
ma
giocare
contro
di
lui
si
rivela
sempre
un'ottima
esperienza”.
È
passato
qualche
anno,
però
da
quella
dichiarazione
e
Nishikori
ha
fatto
il
tanto
agognato
salto
di
qualità:
ha
vinto
sette
titoli
in
carriera
e
nel
2014
è
riuscito
ad
arrivare
alla
finale
di
un
grande
Slam
come
gli
Us
Open.
Qui
però
è
stato
sconfitto
comodamente
da
un
veterano
del
cemento
come
Marin
Čilić,
che
lo
ha
liquidato
in
tre
set
ma,
in
fin
dei
conti,
per
la
prima
volta
in
vita
sua,
il
giapponese
ha
capito
di
poter
arrivare
veramente
vicino
a
vincere
un
trofeo
importante.
In
più,
è
diventato
numero
cinque
della
classifica
mondiale,
appena
dietro
mostri
sacri
come
Federer,
Nadal,
Djokovic
e
Wawrinka.
Il
salto
di
qualità,
comunque,
non
è
sorto
così
per
caso.
Dal
2014,
infatti,
l’allenatore
di
Kei
Nishikori
è un
ex
campione
che
ha
fatto
furore
negli
anni
novanta:
il
coriaceo
e
temibilissimo
Michael
Chang.
Grazie
a
lui
il
giapponese
è
maturato
e ha
sviluppato
quelle
qualità
che
erano
evidenti
nel
suo
allenatore
come
la
folle
determinazione
e la
volontà
di
non
abbattersi
mai,
nemmeno
nelle
situazioni
più
delicate.
Che,
unite
a un
pregevole
talento,
possono
diventare
un
mix
esplosivo.