N. 102 - Giugno 2016
(CXXXIII)
karl
kraus,
a
ottant'anni
dalla
morte
una
penna
al
curaro
di
Giuseppe
Tramontana
A
osservarlo
in
foto
può
incutere
un
po’
di
timore
e
suscitare
un
po’
di
tenerezza.
Paura
perché
dietro
quegli
occhialetti
rotondi,
alla
Cavour,
saetta
uno
sguardo
gelido,
quasi
malvagio;
tenerezza
perché
sotto
quella
maschera
si
avverte
un’espressione
di
fragilità,
la
classica
insicurezza
del
primo
della
classe,
costretto
a
dire
sempre
cose
geniali,
incommensurabili,
inarrivabili,
senza
possibilità
di
sbagliare
o,
semplicemente,
di
essere
normale.
Eppure
per
quasi
quarant’anni
Karl
Kraus
dominò
il
mondo
viennese,
austriaco,
mitteleuropeo.
«Ancor
oggi
–
scrisse
quasi
trent’anni
fa
Italo
Alighiero
Chiusano
– la
sua
impronta
luminosa
ma
sulfurea
è
visibilissima
e
stimola
a
continue
rivisitazioni.
Buona
parte
della
storia
e
della
cultura
danubiana,
senza
il
passaggio
di
Karl
Kraus,
avrebbe
un
ben
diverso
sapore.
Cosa
che
non
si
può
dire
se
non
di
pochi».
Era
nato
a
Jičin,
in
Boemia,
il
28
aprile
1874
da
un
ricco
e
facoltoso
commerciante
ebreo
e
dalla
figlia
di
un
medico.
A
tre
anni
Karl
si
trasferì
con
la
famiglia
a
Vienna,
che
da
allora
divenne
la
sua
città-mondo,
ispirandogli
un
amore-odio
che
si
scatenerà
spesso
in
farsi
al
curaro
come:
«È
un’ingiustizia
parlare
sempre
male
di
Vienna
per
i
suoi
difetti:
anche
dei
suoi
pregi
val
la
pena
parlar
male».
A
scuola
era
un
alunno
modello,
ma
non
si
laureò
mai.
Il
primo
conflitto
serio
l’ebbe
con
l’insegnante
di
religione
ebraica,
molto
ortodosso.
E da
qui
maturerà
un
vivo
antisionismo
(con
ricadute,
a
tratti,
nell’antisemitismo)
che
nel
1911
lo
porterà
a
convertirsi
al
cattolicesimo.
Ma
la
sua
adesione
alla
Chiesa
di
Roma
durerà
solo
dodici
anni:
nel
1923
pubblicherà
la
notizia
della
sua
abiura!
Non
perché
fosse
diventato
ateo,
ma
per
voler
cercare
il
divino
a
modo
suo,
fuori
da
ogni
dogma
e
chiesa.
Amico,
da
giovane,
di
Hugo
von
Hofmannsthal,
suo
coetaneo,
frequentò
con
lui
il
caffè
Griensteidl,
ove,
sotto
l’egida
dello
scrittor
e
saggista
Hermann
Bahr,
si
riuniva
il
cenacolo
chiamato
Jung-Wien,
la
giovane
Vienna,
che
comprendeva
gente
del
calibro
di
Arthur
Schnitzler,
lo
stesso
Hofmannsthal,
Beer-Hofmann,
Salten
e
altri.
Molto
diversi
tra
loro,
costoro
avevano
tuttavia
in
comune
il
rifiuto
per
ogni
forma
di
naturalismo,
allora
in
auge.
Ma
Kraus
ne
prese
ben
presto
le
distanze
e,
un
giorno,
le
sue
frecce
avvelenate
colpiranno
anche
i
vari
Schnitzler,
e
Hofmannsthal:
«Miracoli
della
natura!
I
fiori
artificiali
del
signor
Hugo
von
Hofmannsthal
che
intorno
al
1895
erano
bagnati
di
rugiada,
ora
sono
appassiti».
Kraus,
quindi,
dopo
quelle
frequentazioni
giovanili
scelse
una
strada
lontana
dalla
estetizzazione
letteraria.
Provò
anche
a
fare
l’attore,
sentendo
–
non
a
torto
– in
sé
un
forte
impulso
a
recitare.
Ma
nel
1893,
nei
masnadieri
di
Schiller,
fa
fiasco.
Non
ritenterà
più,
anche
se
quell’esperienza
non
sarà
del
tutto
inutile,
visto
il
modo
in
cui
deciderà
di
far
conoscere
–
recitando
– il
suo
capolavoro
letterario,
Gli
ultimi
giorni
dell’umanità.
Tuttavia,
già
il
fallimento
non
dovette
essere
particolarmente
traumatico,
considerato
che,
già
da
un
annetto,
aveva
trovato
la
giusta
alternativa.
Infatti,
il
21
ottobre
1892
Kraus
aveva
tenuto
una
lettura
pubblica
di
testi
letterari,
ottenendo
un
grande
successo.
Ecco,
allora,
una
delle
strade
che
si
aprivano
davanti.
E
che
non
esiterà
a
battere.
Dall’alto
del
podio,
come
attore
unico,
metterà
tutte
le
risorse
di
una
voce
coltivata,
di
una
mimica
ricca
ed
espressiva,
di
un
magnetismo
e di
una
capacità
di
immedesimazione
straordinari
al
servizio
della
mediazione
o
ricreazione
letteraria,
poetica
intellettuale,
che
farà
di
ognuna
di
quelle
serate
(tra
Berlino
e
Vienna
ne
terrà
varie
centinaia)
un
avvenimento
non
solo
culturale,
ma
anche
mondano
e
spettacolare
di
eccezionale
valore.
Una
di
queste
serate
la
racconta
Elias
Canetti
ne
Il
frutto
del
fuoco.
Canetti,
spinto
calorosamente
dagli
Asriel,
famiglia
amica
della
buona
e
colta
borghesia
viennese,
si
reca
ad
assistere
a
una
lettura
pubblica
di
Kraus.
Gli
Asriel
hanno
cercato
di
prepararlo,
mettendogli
persino
tra
le
mani
una
copia
di
“Die
Fäckel”,
la
rivista
diretta
e
scritta
in
toto
da
Kraus,
che
tuttavia
egli,
sulle
prime,
non
apprezza.
Era
il
12
aprile
1924
e
«doveva
aver
luogo
–
scrive
Canetti
– la
trecentesima
lettura
di
Karl
Kraus.
Era
stata
prenotata
la
sala
grande
del
Konzerthaus.
E
neppure
quella,
dicevano,
sarebbe
stata
abbastanza
grande
per
contenere
tutti
gli
appassionati».
Canetti,
un
po’
scettico,
si
era
preparato
persino
delle
osservazioni
ironiche,
così
racconta.
Si
guardava
in
giro
incuriosito,
rivolgendo
la
propria
attenzione
soprattutto
alle
prime
file,
là
dove
trovava
posto
una
folta
schiera
di
donne
dell’alta
e
altissima
società
viennese.
«Quasi
subito
arrivò
Karl
Kraus
–
nota
lo
scrittore
–
che
fu
salutato
da
applausi
così
scroscianti
come
mai
li
avevo
sentiti,
neppure
ai
concerti.
Sembrò
– il
mio
occhio
non
era
ancora
esercitato
–
non
prestarvi
molta
attenzione,
indugiò
solo
un
poco,
in
piedi,
la
sua
figura
sembrava
lievemente
curva.
Quando
si
sedette
e
cominciò
a
parlare
fui
sorpreso
dalla
sua
voce,
nella
quale
vibrava
qualcosa
di
innaturale,
una
specie
di
prolungato
gracidio.
Ma
quell’impressione
si
dileguò
in
fretta,
la
voce
mutò
all’improvviso
e
seguitò
a
mutare
in
continuazione,
e
quasi
subito
rimasi
sbalordito
dalla
ricchezza
e
dalla
varietà
dei
suoi
toni
(...)
Il
silenzio
–
racconta
ancora
Canetti
–
era
assoluto,
ma
era
un
silenzio
starno,
come
quello
che
precede
una
tempesta.
Già
la
prima
battuta,
in
realtà
era
soltanto
un’allusione,
–
rammenta
ancora
-
venne
anticipata
da
risate
che
mi
spaventarono.
Suonavano
entusiastiche
e
fanatiche,
soddisfatte
e
minacciose
a un
tempo,
avevano
addirittura
preceduto
le
parole
alle
quali
si
riferivano
(...)
Non
erano
ascoltatori
isolati
a
ridere,
ridevano
molte
persone
insieme».
A
dire
il
vero,
Canetti
non
ricorda
cosa
avesse
detto
quella
sera
Kraus.
Tra
l’altro,
Kraus,
lui
lo
vedeva
male,
«un
volto
che
ringiovaniva
verso
il
baso,
così
mobile
che
non
si
poteva
fissare
su
nulla,
penetrante
ed
estraneo
come
quello
di
un
animale
mai
visto,
diverso
da
tutti
quelli
che
si
conoscevano».
Eppure
ci
ha
lasciato
una
vividissima
descrizione
del
pubblico
e
delle
modalità
di
proporsi
sul
palco
dello
scrittore
viennese:
«la
dinamica
di
quella
sala
–
annota
-
gremita
fino
all’ultimo
posto
sotto
l’effetto
della
voce
di
Kraus
–
era
sempre
presente
anche
quando
taceva
–
davvero
non
si
può
descrivere,
così
come
non
si
può
descrivere
l’Esercito
degli
spettri
delle
fiabe.
Ma
credo
che
sia
questa
l’immagine
che
meglio
la
può
rendere.
Ci
si
immagini
l’Esercito
degli
spettri
che
prende
posto
in
una
sala,
rinchiuso
da
colui
che
l’ha
evocato
e
guidato,
costretto
a
sedere
in
silenzio
e
poi
incessantemente
richiamato
alla
sua
vera,
selvaggia
natura.
Non
che
questa
visione
si
avvicini
molto
alla
realtà
–
puntualizza
Canetti
–
tuttavia,
poiché
non
ne
conosco
nessuna
che
sia
più
precisa,
rinuncio
a
dare
un’idea
di
com’era
Karl
Kraus
in
azione».
Oltre
alle
letture
della
sua
opera
principale,
Kraus,
tra
il
1892
e il
1936,
partecipò
a
numerose
conferenze
pubbliche
seguite
da
un
grande
pubblico.
In
questo
stesso
periodo
mise
in
scena
circa
700
esibizioni
durante
le
quali
lesse
drammi
di
Bertolt
Brecht,
Gerhart
Hauptmann,
Johann
Nestroy, Goethe
e
Shakespeare,
e
interpretò
anche
le
operette
di
Offenbach,
accompagnato
dal
piano,
cantando
e
calandosi
da
solo
in
tutti
i
ruoli.
Dopo
la
morte
della
madre,
nel
1897,
Karl
Kraus
venne
colpito
da
una
crisi
depressiva.
Assillato
dall’idea
della
morte,
cercò
di
gettarsi
a
capofitto
in
un’attività
che
lo
assorbisse
del
tutto.
Intraprese
la
strada
del
giornalismo,
dato
che
sapeva
scrivere
meravigliosamente
bene
e
con
rapidità,
aveva
un
occhio
critico
che
rasentava
la
malignità,
curioso
come
un
gatto
e
polemista
nato.
Accettò,
pertanto,
di
lavorare
come
redattore
del
settimanale
“Die
Wage”
(1898)
e lo
fece
con
tale
bravura
che
l’anno
successivo
il
maggior
quotidiano
viennese,
la
“Neue
Freie
Presse”,
gli
offrì
un
posto
di
redattore.
Ma
Kraus
non
accettò.
Anzi,
altamente
consapevole
del
proprio
talento
(«Quando
prendo
una
penna
in
mano
non
mi
può
succedere
nulla.
Il
destino
dovrebbe
prendere
nota»,
si
trovò
a
scrivere)
si
lanciò
in
un’impresa
apparentemente
senza
senso
e
senza
futuro:
pubblicare
una
rivista
tutta
sua.
E
quando
si
dice
“tutta”
vuol
dire
“tutta”:
una
rivista
nella
quale
lui
sarebbe
stato
il
deus
ex
machina
assoluto:
direttore,
impaginatore,
redattore...
il
solo
padrone
di
sé
stesso,
insomma.
Il
1°
aprile
del
1899
uscì
il
primo
numero
della
rivista:
si
chiamava
“Die
Fäckel”
(La
Fiaccola).
Il
fascicolo,
proprio
come
sognava
Kraus,
era
redatto
da
lui,
dalla
prima
all’ultima
parola.
Molto
spesso,
più
che
di
un
fascicolo
si
tratta
di
un
volumetto,
un
libro.
In
futuro,
“Die
Fäckel”
avrà
molti
collaboratori
di
vaglia,
da
August
Strindberg
a
Frank
Wedekind,
da
Detlev
von
Liliencron
a
Peter
Altenberg,
ma
poi
Kraus
tornerà
al
suo
primo
intento:
farsela
da
solo,
quella
rivista,
cosa
che
avverrà
nel
1911.
E la
rinnovata
scelta
Karl
la
motiverà
con
una
delle
sue
famose
rasoiate:
«Non
ho
più
collaboratori.
Ero
invidioso
di
loro.
Mi
facevano
perdere
dei
lettori
che
volevo
perdere
io
stesso».
E
così
andrà
avanti
fino
all’ultimo
numero,
quello
del
febbraio
1936.
Morirà
il
12
giugno
di
quello
stesso
anno
per
un
attacco
cardiaco.
Quella
stramba
iniziativa,
avversata
da
molti,
anche
potenti,
così
originale
e,
sembrava,
destinata
al
fallimento
più
completo,
durò
invece
ben
37
anni.
Insomma,
un
giornalista
principe,
un
polemista
di
livello
assoluto.
Ma
Kraus
che
accettò
e
teorizzò
i
concetti
di
polemica,
di
denuncia,
di
satira,
farebbe
un
bel
salto
mortale
nella
tomba
se
si
sentisse
definire
giornalista.
Perché?
«Perché
–
spiega
Chiusano
–
del
giornalismo,
della
stampa
quotidiana
o
periodica,
aveva
orrore,
e le
imputava
la
degenerazione
suicida
ch’egli
ravvisava
nella
civiltà
moderna.
La
stampa,
per
Kraus,
è un
mostro
apocalittico,
la
“magia
nera”
che
provocherà
la
“fine
del
mondo”»:
«ciò
che
la
lue
ha
risparmiato
–
scrive
in
effetti
Kraus
–
viene
devastato
dalla
stampa».
E
ancora:
«Non
avere
un
pensiero
e
saperlo
esprimere,
è
questo
che
fa
di
uno
un
giornalista».
Oppure:
«Il
giornale
sopprime
costantemente
la
verità,
in
quanto
le
dà
delle
parole».
Più
chiaro
di
così?
Molto
sensibile
al
valore
della
parola
e
alle
sue
potenzialità
ovviamente
non
gli
sfuggiva
la
responsabilità
che
ricadeva
sui
mezzi
di
comunicazione
– la
stampa,
a
quel
tempo
–
nell’imposizione
di
verità
false,
menzognere,
nella
banalizzazione
di
fatti,
eventi,
nella
volgarizzazione
del
mondo
e
degli
accadimenti:
il
tutto
per
favorire
pigrizia
mentale
e,
di
conseguenza,
apatia
ed
accettazione
supina
e
acritica
delle
scelte
del
potere.
Nelle
pagine
della
“Fäckel”,
nei
suoi
aguzzi
aforismi
e
naturalmente
ingiusti
(
«L’aforisma
non
coincide
mai
con
la
verità:
o è
una
mezza
verità
o è
una
verità
e
mezzo»),
che
raccolse
via
via
in
volumi
(Detti
e
contraddetti,
1909;
Pro
domo
et
mundo,
1912;
Di
notte,
1918),
Kraus
non
si
stancò
mai
di
accusare
questo
tipo
di
giornalismo,
facendone
risalire
la
responsabilità
ad
Heinrich
Heine,
maestro
dell’elzeviro
pungente,
della
nota
politica
acuta,
della
requisitori
culturale
illuminante,
ma
spesso
fazioso
e
scorretto.
I
giornali
contemporanei
sarebbero
i
suoi
epigoni,
i
suoi
posteri,
anzi
le
sue
conseguenze
(Heine
und
die
Folgen,
1910).
Tuttavia
anche
il
geniale
e
originale
Kraus
aveva
avuto
un
mastro,
a
dimostrazione
del
vecchio
brocardo
che
vuole
che
nulla
nasca
dal
nulla,
nemmeno
il
genio.
Il
suo
amico
e
maestro
di
giornalismo
era
stato
il
battagliero
Maximilian
Harden
(1861-1927).
Alla
rivista
di
Harden,
“Die
Zukunft”
(L’avvenire),
Kraus
si
era
ispirato
per
la
sua
Fiaccola.
La
rottura
con
Harden,
tuttavia,
si
consumò
nel
1909,
quando,
in
seguito
allo
scandalo
sulla
presunta
omosessualità
del
principe
Eulenburg,
Harden
assunse
un
tono
moralistico
alquanto
stucchevole,
almeno
agli
occhi
di
Kraus.
Il
quale
se
ne
indignò
e
ruppe
clamorosamente
con
il
suo
mentore,
che
da
quel
momento
tratterà
con
assoluto
disprezzo.
È un
atteggiamento
che
Kraus,
tra
l’altro,
non
terrà
solo
verso
Harden,
ma
verso
tutti
i
falsi,
ipocriti
e
moralisti
ed è
proprio
questa
sua
allergia
verso
tali
atteggiamenti
che
lo
poterà
alla
rottura
con
la
Chiesa
cattolica.
Come
testimonia
il
suo
libro
Morale
e
criminalità
(1908),
Kraus
aveva
in
orrore
il
moralismo
sessuale
della
borghesia
asburgica,
così
pronta
a
peccare
in
segreto,
ma
ancor
più
pronta
a
scandalizzarsi
in
pubblico.
Secondo
lo
scrittore,
il
comportamento
sessuale
restava
cosa
privatissima,
che
nessun
giudice
o
poliziotto
poteva
e
doveva
permettersi
di
sorvegliare
o
scrutare
dal
buco
della
serratura
per
poi
chiedere
una
condanna
in
sede
penale.
Fu
in
virtù
di
moralismo
libertario
che
egli
avversò
anche
il
matrimonio
borghese
(«La
camera
matrimoniale
è la
convivenza
di
brutalità
e di
martirio»)
e la
conseguente
famiglia
(«Il
genio
ha
il
difetto
di
venire
da
una
famiglia,
e
può
compensarlo
soltanto
se
non
ne
lascia
nessuna»).
A
questo
punto,
viste
le
sue
posizione
in
tema
di
sesso
e
sessualità
più
o
meno
frustrata,
sarebbe
naturale
pensare
ad
un
suo
interesse
per
la
psicanalisi.
Ma
così
non
fu.
Anzi.
Le
sue
frecciate
contro
la
nuova
scienza
dell’inconscio
furono
sempre
maligne
e lo
stesso
Freud
non
ne
fu
esente.
Del
resto
furono
molti
a
non
piacergli
o a
piacergli
solo
per
breve
tempo.
A
giro,
il
suo
disprezzo,
oltre
che
i
citati
Harden
e
Hofmannsthal,
colpirà
la
poetessa
Else
Lasker-Schuler
e
suo
marito
Hertwarth
Walden.
Per
un
po’,
a
Berlino,
saranno
i
suoi
migliori
amici
e la
loro
rivista,
“Der
Sturm”,
quasi
l’alter
ego
della
Fiaccola.
Poi
Kraus
romperà
con
loro.
Per
sempre.
Stessa
storia
con
lo
scrittore
Franz
Werfen.
Passerà
anche
nei
suoi
confronti
dalla
stima
più
accesa
all’odio
più
viscerale
e
riuscirà
persino
a
rompere
con
il
proprio
editore
reo
di
aver
pubblicato
un
dramma,
da
lui
giudicato
orribile,
dello
stesso
Werfen.
E
quanti
processi
nel
corso
degli
anni...
Venne
denunciato
e
trascinato
in
tribunale
da
Hermann
Bahr,
stanco
degli
attacchi
al
suo
cenacolo
letterario.
Kraus
ne
uscirà
sconfitto.
Vincerà
invece
la
causa
contro
un
altro
mordacissimo
critico,
Alfred
Kerr.
Poi
Kraus
prese
di
mira
un
giornalista
molto
influente
e
corrotto,
Bekessy
e
tanto
lo
bersagliò
sulle
sue
scorrettezze
e
malefatte
che
Bekessy,
nel
1926,
fu
costretto
a
fuggire
a
Parigi.
Ma
non
furono
solo
costoro
le
vittime
dei
suoi
strali.
Innumerevoli
furono
gli
artisti,
scrittori,
giornalisti,
pittori,
attori
stroncati
dalle
sue
arguzie,
dalla
sua
penna
intinta
nel
veleno.
Si
va
dal
regista
Max
Reinhardt
all’attore
Moissi,
dal
musicista
Richard
Strauss
al
poeta
Stefan
George,
dal
teatrante
politico
Erwin
Piscator
allo
scrittore
Max
Brod.
Furono
tra
i
suoi
preferiti
e li
esaltò
nei
suoi
saggi
o ne
lesse
le
opere
nelle
sue
pubbliche
esibizioni,
il
commediografo
Frank
Wedekind
e il
drammaturgo
Gerhart
Hauptmann,
il
poeta
Georg
Trakl
e il
pittore
Oskar
Kokoschka,
l’autore
di
schizzi
letterari
Peter
Altenberg
e
l’ancor
poco
conosciuti
Bertolt
Brecht.
In
campo
politico,
Kraus
diede
segni
inquietanti
quando
si
schierò
dalla
parte
degli
antidreyfusardi
durante
la
revisione
del
processo
di
revisione
a
carico
di
Alfred
Dreyfus,
il
capitano
d’artiglieria
francese,
condannato
ingiustamente
per
spionaggio
a
causa
delle
sue
origine
ebraiche.
Poi,
per
qualche
anno,
fu
vicino
al
socialismo.
Ma,
dopo
un
po’,
optò
per
la
nobiltà
e il
clero,
da
quel
conservatore
che
in
fondo
era:
temeva
che
il
parlamentarismo
portasse
l’Austria
e
l’Europa
alla
distruzione
(
«Il
parlamentarismo
è l’incasermamento
della
prostituzione
politica»).
Eppure,
il
1914
trovò
in
lui
uno
dei
più
lucidi
interpreti
di
ciò
che
la
guerra
avrebbe
provocato
nel
mondo
(
«Io
piango
per
i
sopravvissuti»).
Alla
guerra
dedicò
la
sua
opera
più
importante,
geniale
e
unica,
quasi
mostruoso
nella
sua
stranezza
e
diversità:
Gli
ultimi
giorni
dell’umanità
(1922).
Si
tratta
di
un
dramma
colossale
in
cinque
atti
e
209
scene,
più
un
prologo
in
dieci
scene
e un
epilogo,
per
un
totale
di
più
di
800
pagine.
Un’opera
teatrale
negazione
del
teatro.
Specchio
della
personalità
del
suo
autore,
un
uomo
che
amò
contraddire
e
contraddirsi.
«Un
panorama
cosmico
della
guerra
–
secondo
la
definizione
di
Italo
Alighiero
Chiusano
–
che
l’autore
si
augurava
di
vedere
rappresentato
su
un
teatro
di
Marte».
Sul
palcoscenico
passano
centinaia
di
figure
e
figurette,
dal
venditore
di
giornali
all’imperatore
Francesco
Giuseppe,
che
parlano,
parlano,
si
confrontano,
sproloquiano
(in
particolare,
i
generali)
e,
attraverso
di
loro,
si
rivela
la
guerra,
il
marcio
che
c’è
in
essa
e
nell’umanità
intera.
E
poi
vi
sono
le
citazioni
testuali,
anzi
il
montaggio
delle
citazioni:
un
modo
nuovo
di
fare
teatro
e
letteratura,
«se
parole
come
“teatro”
e
“letteratura”,
di
fronte
a un
testo
così,
avessero
ancora
un
senso»
(I.A.
Chiusano).
Terminato
il
conflitto,
Kraus
si
schierò
con
la
socialdemocrazia
e
tenne
persino
delle
letture
nei
circoli
operai.
E
quando,
nel
1927,
il
capo
della
polizia
Schober
provocò
una
strage
facendo
sparare
su
un
gruppo
di
dimostranti
che
avevano
appiccato
il
fuoco
al
palazzo
di
giustizia,
Kraus
fece
affiggere
per
le
strade
un
violentissimo
manifesto
contro
di
lui.
Pochi
anni
dopo,
in
Germania,
prese
il
potere
Adolf
Hitler.
Kraus,
che
per
ogni
giornalista
banale,
per
ogni
politicante
sciocco
o
corrotto
aveva
trovato
parole
di
fuoco
e di
sdegno,
nel
caso
di
Hitler
se
ne
uscì
con
la
famosa
battuta:
«Hitler
non
mi
ispira
neanche
una
parola».
Troppo
famosa
per
essere
solo
una
boutade.
In
realtà,
grazie
al
suo
straordinario
fiuto
giornalistico
e
alla
non
inferiore
capacità
rabdomantica
di
decifrare
messaggi
e
scavare
nella
lingua,
egli
comprese
tutto,
comprese
il
pericolo
che
si
annidava
nel
nazismo,
in
quei
vampiri
in
camici
bruna.
E ne
uscì
un
libello
che
però
verrà
pubblicato
postumo:
La
terza
notte
di
Valpurga.
Tuttavia
è
nell’ultraconservatore
Engelbert
Dollfuss
che
ripose
la
sua
fiducia,
vedendo
in
lui
l’unico,
in
Austria,
capace
di
fermare
le
orde
naziste.
Ma
Dollfuss,
il
25
luglio
1934,
morì
per
mano
nazista
nel
tentativo
di
difendere
il
suo
governo
da
un
colpo
di
stato,
orchestrato
appunto
dalle
camicie
brune.
Due
anni
dopo,
il
12
giugno
1936,
un
mortale
attacco
cardiaco
gli
evitò
di
vedere
le
detestate
divise
naziste
calpestare
il
suolo
austriaco.
Per
ciò
che
concerne
il
Kraus
intimo,
ebbe
un
amore
travolgente
per
una
giovane
attrice,
Annie
Kalmar,
che
però
morì
nel
1901
di
tubercolosi.
Kraus
ne
difese
sempre
strenuamente
la
memoria
dalle
insinuazioni
moralistiche
degli
odiati
giornali.
Un
altro
grande
amore
fu
quello
per
Sidonie
Nadherny
von
Borutin,
una
gentildonna
conosciuta
nel
1914,
Trascorse
nella
tenuta
di
lei
in
Boemia
alcune
delle
settimane
più
serene
della
sua
vita.
Fu
anche
sul
punto
di
sposarla,
ma
un
intervento
del
poeta
Rainer
Maria
Rilke
mandò
all’aria
il
tutto:
era
il
1918.
Negli
ultimi
giorni
di
vita
gli
diede
assistenza
Helene
Kann
che
lo
aveva
conosciuto
e
gli
era
stata
amica
fin
dal
1904.
Caso
più
unico
che
raro:
di
conservare
le
amicizie
a
Kraus
non
era
importato
mai
nulla.
Così
come
di
riuscire
simpatico.
Era
libero.
Anche
dai
vincoli
dell’amicizia.
Oggi,
Kraus
viene
letto
poco.
Complice
anche
uno
stile
difficile
–
volutamente
difficile
(rivolto
al
critico
e
commediografo
Hermann
Bahr,
bersaglio
deli
suoi
attacchi,
ebbe
a
scrivere:
«se
capisce
una
sola
frase
dell’articolo,
ritratterò
tutto»).
Eppure
proprio
oggi
Karl
Kraus,
la
sua
ironia
tagliente,
la
sua
lungimiranza
sociale
e
politica,
il
suo
anticonformismo
e la
sua
lucida
spregiudicatezza
sarebbero
molto
utili.
«Kraus
–
come
scrive
Jonathan
Franzen
–
era
un
fustigatore
del
giornalismo
usa
e
getta,
tenace
paladino
della
compenetrazione
di
forma
e
contenuto,
e
per
i
suoi
seguaci
il
suo
stile
denso
e
intrinsecamente
cifrato
costituiva
una
gradita
barriera
d’accesso».
Nel
momento
storico
attuale,
saturo
di
mass
media,
maniaco
della
tecnologia
e
ossessionato
dalla
forma,
dall’apparire,
la
pena
di
Kraus,
quella
penna
intinta
nel
veleno,
avrebbe
più
cose
da
dirci
di
molti
suoi
e
nostri
contemporanei.
Lui
stesso
era
ben
consapevole
del
paradosso:
era
un
profeta
lungimirante
che
scriveva
di
ciò
che
gli
si
presentava
sotto
agli
occhi.
Parlava
a
noi:
ma
noi,
per
riuscire
a
sentirlo,
dobbiamo
riprenderlo
in
mano
e
fare
un
piccolo
sforzo
di
comprensione
e
condivisione.
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