N. 49 - Gennaio 2012
(LXXX)
karachi
memon hotel
di Miro Gabriele
È
notte.
I
cuccioli
di
Karachi
guaiscono.
Piccoli
cani
dall’occhio
triste
e
dal
colore
indefinibile,
così
gracili
e
spauriti
da
sembrare
tutti
dei
cuccioli,
basta
uno
sguardo
per
farli
fuggire.
Girano
per
le
stradine
del
vecchio
quartiere.
A
volte
qualcuno
prova
a
spingersi
sulla
via
principale,
davanti
a un
chai-shop
pieno
di
odori,
ma
viene
subito
scacciato.
La
notte
si
radunano
in
piccoli
gruppi,
si
fanno
coraggio,
vagano
tra
i
rifiuti
rovistando.
I
guaiti
risuonano,
deboli
e
malinconici,
ai
piedi
dell’albergo.
Di
giorno,
l’ombra
di
una
piccola
moschea,
ricavata
fra
un
albero
e un
muro
sbrecciato,
concede
per
un
po’
la
sensazione,
più
volte
perduta
e
ritrovata,
di
strana
tranquillità
nella
folla
del
mercato.
Una
parete
di
maioliche
verdi
che
luccica
fra
i
rami,
disegni
geometrici
accanto
ai
quali
è
piacevole
sostare,
ignorando
lo
scenario
confuso
del
quartiere
e
delle
sue
case
senza
colore,
forate
come
vecchi
nidi
di
uccelli.
Da
qui
le
donne
velate
di
nero
si
sporgono
sulla
polvere
alzata
da
uno
straniero,
solo
fra
la
gente,
ma
con
l’esaltazione
di
bere
un’aria
mobile
e
diversa,
passando
dal
sole
accecante
all’ombra,
dove
si
impastano
centinaia
di
ciapati.
Sotto
una
tettoia,
un
uomo
accovacciato
sui
talloni
lavora
con
gesti
rapidissimi
le
sfoglie
tonde
e
sottili
del
pane,
le
fa
ruotare
per
aria
come
un
giocoliere,
fra
nuvole
di
farina.
Mi
chino
sul
pane
caldo
ammucchiato
accanto
all’entrata,
provando
ogni
volta
nel
ripetersi
del
gesto,
minuscoli
brividi,
sottili
sensazioni
di
gioia.
Dentro
il
locale
il
fumo
dei
curries
forma
una
specie
di
nebbia,
c’è
silenzio
intorno
ai
tavoli,
e
sguardi
tesi
con
durezza
dal
fondo
di
queste
vite
di
mercanti.
L’allegria
disarmante
degli
indiani
trasformata
in
compostezza,
in
una
quotidiana,
rassegnata
attesa
davanti
al
tè
bollente.
Qualche
breve
sorriso
si
allarga
dietro
il
bancone,
fra
i
pentoloni
del
cibo,
e
insieme
alle
monete
scambio
parole
cortesi
col
padrone
del
locale.
Poi
forse
ricorderà
solo
la
mia
camicia
straniera
di
spalle,
mentre
esco
dalla
sala
per
confondermi
nella
luce.
I
dromedari,
inginocchiati
sull’altro
marciapiede,
osservano
tranquilli
la
strada,
e la
danza
veloce
delle
mosche
intorno
a
loro.
Davanti
al
Memon
hotel,
un
vecchio
dalla
barba
grigia
ha
allineato
su
uno
scatolone
di
metallo
sei
o
sette
bicchieri
di
tè:
pesca
dentro
con
un
mestolino,
e
riempie
di
liquido
opaco
i
bicchieri
che
scintillano
l’uno
accanto
all’altro.
Mi
fermo,
come
ogni
volta,
per
un
momento
di
solidarietà
col
suo
povero
commercio.
E’
sempre
lì,
su
quel
tratto
di
marciapiede
in
mezzo
ai
passanti,
serve
il
tè
bollente
con
occhi
stanchi
e
distratti,
come
per
un’abitudine
ormai
inevitabile.
I
bicchieri
scottano,
non
riesco
quasi
a
tenerli
fra
le
dita.
L’uomo,
che
senza
prestarmi
molta
attenzione
mi
ha
riconosciuto,
li
afferra
senza
problema,
e mi
precede
in
silenzio
su
per
le
scale
dell’albergo,
dimostrandomi
simpatia
con
questo
piccolo
servizio.
Umanità
schiva,
ma
sempre
capace
di
gesti
d’affetto,
velati
di
dolore
però,
quasi
di
dramma.
Una
sera
su
un
autobus,
per
strade
che
già
brillano
delle
piccole
luci
dei
mercati,
incontriamo
un
giovane
commerciante
conosciuto
in
uno
dei
soliti
vagabondaggi.
Vende
tappeti
non
lontano
dall’albergo,
in
un
magazzino
lungo
e
buio
come
una
caverna,
rischiarato
tutto
il
giorno
dalla
luce
elettrica,
lui
è in
fondo
alla
bottega
sdraiato
in
mezzo
alla
merce.
La
sua
aria
svagata
e
sorridente
ci
fa
coraggio,
gli
raccontiamo
di
noi:
rimasti
senza
una
lira
in
attesa
dell’aereo,
con
l’unica
sicurezza
di
una
stanza
d’albergo
pagata
in
anticipo.
M’aspetto
un
po’
d’imbarazzo,
frasi
di
circostanza,
ma
il
giovane
abbandona
la
sua
spavalda
allegria,
infila
una
mano
in
tasca
e
tira
fuori
un
biglietto
da
cinquanta
rupie.
L’autobus
corre
con
fracasso
nella
notte
tiepida,
lui
deve
chinarsi
un
po’
per
farsi
sentire,
porgendoci
i
soldi
dice
in
un
soffio:
“Don’t
forget
me”.
Dietro
i
finestrini
i
volti
ormai
si
confondono,
e io
mi
affretto
a
nascondere
nel
buio
le
mie
“solitarie,
vergognosissime
lacrime”.
Non
essendoci
altro
da
fare
in
questa
città,
se
non
osservare
il
multiforme
brulichio
della
vita,
un
pomeriggio
ce
ne
andiamo
verso
il
porto.
Arriviamo
con
passo
calmo,
attenti
alle
ruote
dei
carri
e
delle
biciclette
che
ci
sfiorano,
dopo
stradoni
senza
fine
e
muri
calcinati
dal
sole.
C’è
una
piazzetta
e la
solita
confusione,
la
luce
del
sole
si
infila
lungo
il
viale,
fino
a
traboccare
su
un
grande
arco
in
mattoni
rossi.
Gente
senza
meta,
come
sperduta,
scorre
fra
i
cancelli
dell’ingresso
con
i
suoi
stracci
svolazzanti.
Tre
o
quattro
persone,
sedute
per
terra
sotto
l’arco,
ci
guardano
passare,
nella
loro
antica
distanza,
ci
osservano
senza
una
scossa,
con
impercettibile
curiosità,
avvolte
dentro
i
lenzuoli.
La
polvere
si
alza,
vortica
per
strada,
sfiora
gli
uomini
e i
vecchi
muri
rossi
abbandonati
dagli
inglesi.
Oltre
i
cancelli
si
aprono
come
grandi
bocche
oscure
le
porte
dei
magazzini.
Uomini
a
torso
nudo
con
stracci
in
testa,
si
agitano
nella
luce
implacabile
caricando
vecchi
camion.
Dietro
l’angolo
di
un
deposito
spunta
il
profilo
di
una
nave,
con
le
lamiere
che
luccicano
al
sole.
Tra
sacchi
accatastati
e
rotoli
di
corda
si
svolgono
le
formalità
di
imbarco.
Un
paio
di
doganieri
controllano
i
passaporti
su
tavoli
improvvisati,
poggiano
i
moduli
di
registrazione
su
sacchi
di
juta.
Come
noi
due
qualche
mese
fa,
un
gruppetto
di
europei
fa
la
fila
a
questa
strana
dogana,
con
i
bagagli
pieni
di
visioni
e di
vestiti
leggeri.
Dormiranno
sui
teloni
che
ricoprono
il
portello
della
stiva,
insieme
ai
passeggeri
indiani
e
pakistani,
circondati
da
grosse
reti
appese
a
mo’
di
tende.
Si
stringeranno
gli
uni
agli
altri,
piedi
e
teste
sconosciuti,
nel
sonnolento
rollio
della
navigazione.
Il
terzo
giorno
spunterà
la
penisola
di
Bombay,
in
un’alba
lattiginosa,
con
i
grattacieli
ancora
indistinti
nella
nebbia
del
primo
mattino.
L’enorme
città
sarà
come
un
punto,
una
piccola
isola
sperduta,
in
un
bianco
che
confonde
mare
e
cielo.
E
ora,
nell’informe
spazio
asiatico
che
inghiotte
il
nostro
girovagare,
siamo
spinti
dalla
luce
declinante
fino
a un
porticciolo
secondario.
C’è
una
tettoia
di
metallo
e le
panchine
in
ombra,
battelli
carichi
di
passeggeri
alzano
pigri
riflussi
sull’onda
sporca.
In
fondo,
sul
braccio
di
terraferma
a
sinistra,
grandi
alberi
superstiti
e
vecchi
capannoni,
quasi
palafitte,
segnano
una
linea
verde
sul
fianco
della
caletta.
C’è
odore
di
nafta
e di
palude,
l’ultimo
fianco
di
Karachi
si
spinge
in
mare
con
i
moli
anneriti.
Un
cielo
pallido
e
gigantesco
sembra
scendere
fino
a
terra,
la
vita
pullula
inesorabile
alla
fine
della
sterminata
pianura
pakistana,
uomini,
pietre
e
animali,
accomunati
dallo
stesso
inconoscibile
destino.
Il
sole
si
frantuma
sull’acqua,
con
riflessi
plumbei,
la
luce
scintilla
sul
soffitto
della
tettoia
e su
di
me,
seduto
immobile
sullo
schienale
di
una
panchina
ad
osservare
tutto
questo.
Giorno
e
notte
si
alternano
sui
vecchi
quartieri,
sulla
valle
di
tetti
confusi
come
tendoni
di
bazar,
le
litanie
dei
muezzin
percorrono
albe
e
tramonti
con
regolarità
ineluttabile.
Negli
angoli
sperduti
della
città,
i
mendicanti
ai
piedi
dei
palazzi
intrecciano
disperati
rosari,
le
barbe
si
coprono
di
polvere.
L’abbandono
all’unità
divina
ha
modi
ossessivi,
ma
pieni
talvolta
di
una
formale
dolcezza,
di
un
perduto
balsamo
rituale.
Cullati
dalla
cantilena
li
ho
visti
pregare
ovunque:
stesi
sull’asfalto
sotto
gli
aerei,
o
genuflessi
dietro
porte
d’albergo,
intangibili,
assenti.
Il
giorno
del
nostro
arrivo,
salendo
le
scalette
del
Memon
Hotel,
quasi
scavate
nel
muro,
in
una
semioscurità
da
sotterraneo,
notammo
un
rapido
movimento
sul
pianerottolo
del
primo
piano.
Sembrava
qualcuno
chino
a
pulire
per
terra,
ma
fatti
pochi
passi
ci
accorgemmo
che
in
quell’angolo
fra
i
muri
si
pregava.
Due
uomini,
curvi
nella
penombra
fra
le
scale
e le
latrine,
uno
accanto
all’altro
su
una
piccola
stuoia,
eseguivano
religiosamente
le
loro
flessioni.
L’inattesa
epifania
del
sacro,
accanto
a
gente
che
entrava
e
usciva
dai
bagni
in
umili
atti
di
igiene,
dichiarava
la
fede
nell’uguaglianza
spirituale
di
ogni
gesto,
unica
possibilità
di
scampo
dall’assurdità
della
vita.
Non
mi
accadrà
mai
di
sfiorare
quei
calcagni
nudi,
quelle
schiene
ondeggianti
contro
un
muro,
senza
pensare
che
è
una
delle
poche
immagini
di
pace
nella
città,
un
attimo
di
tregua
al
centro
del
caos.
La
sera
ce
ne
stiamo
stesi
sui
letti,
nel
nostro
nido
di
uccelli
al
secondo
piano,
mentre
la
piccola
finestra
profonda,
quasi
una
feritoia
sopra
il
tavolino,
scolorisce
nel
muro
bianco
e i
rumori
si
allontanano.
Accumuliamo
silenzi
ad
occhi
aperti,
bucce
di
arance
e di
banane
sul
nostro
viaggio
che
volge
al
termine.
Allungo
un
braccio
in
questa
cella
nuda,
così
angusta
che,
se
pure
i
letti
sono
accostati
alle
pareti,
posso
toccare
quello
di
Marco;
dico
qualcosa,
ma è
già
addormentato.
Resto
a
fissare
il
bordo
superiore
della
feritoia
davanti
a
me,
il
soffio
di
luce
che
piano
piano
si
ritrae,
fino
a
svanire
in
un
rettangolo
nero.
Per
qualche
ora
la
notte
stende
un
velo
su
questo
accampamento
senza
fine.
Non
si
ode
alcun
rumore,
solo
l’abbaiare
dei
cani,
morbido
e
lontano.
Sto
già
sognando,
ancora
cosciente,
nel
vuoto
della
notte,
nel
lungo
cono
fluttuante
del
tempo,
prima
di
addormentarmi.