N. 130 - Ottobre 2018
(CLXI)
kant e la filosofia del limite
l’essere dell’uomo come essere nel limite
di
Chiara
Bellucci
Nel
comune
vocabolario
e
modo
di
parlare,
il
termine
“limite”
è
necessariamente
connesso
a
un’imperfezione,
una
mancanza,
un
difetto
ed è
dunque
sempre
interpretato
in
accezione
negativa.
Nella
filosofia
trascendentale
kantiana,
tuttavia,
non
si
deve
per
forza
associare
il
limite
a
qualcosa
di
intrinsecamente
negativo.
La
stessa
definizione
di
limiti
e
confini
della
ragione
non
è
per
Kant
asserire
che
l’uomo
sia
stupido.
Innanzitutto
il
termine
limite
è
assolutamente
relativo.
In
relazione
a un
intelletto
angelico
o
divino,
l’intelletto
umano
è di
fatto
piccolo
e
scarsamente
funzionale,
ma
la
ragione
umana,
in
relazione
alla
sua
natura
costitutiva,
è
tutt’altro
che
piccola
e
poco
funzionale.
La
corretta
definizione
di
limite
è
fondamentale
nell’ambito
della
filosofia
teoretica
per
collocare
l’uomo
al
giusto
posto
in
rapporto
allo
scorrere
del
tempo
vita
e
della
sua
esistenza.
Già
Aristotele
nel
IV
secolo
a.C.
aveva
perfettamente
compreso
il
problema
e
scartato
dalla
definizione
di
limite
ogni
possibile
accezione
negativa.
Nella
Metafisica,
Libro
V,
Aristotele
introduce
il
concetto
di
limite
come
peras,
parola
greca
che
rimanda
all’italiano
“perimetro”,
“contorno”
e
“perimetrare”;
vale
a
dire
concetto
strettamente
relazionato
con
l’essenza
di
una
cosa,
con
l’eidos.
Il
limite
o
peras
è
infatti
ciò
che
conferisce
una
forma
alla
materia,
consentendo
di
dare
alla
materia
un’
individualità
specifica
e di
definirla
dal
punto
di
vista
ontologico,
iscrivendola
in
uno
spazio
e
dal
punto
di
vista
gnoseologico,
circoscrivendola
all’interno
di
limiti
semantici.
Senza
limite,
non
avremmo
la
forma
e
senza
forma
non
avremmo
conoscenza,
giacché
per
Aristotele
possiamo
conoscere
solo
sinoli,
in
altre
parole,
sintesi
di
un
elemento
formale
e di
un
elemento
materiale.
In
Aristotele
tuttavia
il
legame
tra
forma
e
materia
è di
natura
metafisica,
laddove
Kant
non
riconosce
alcun
presupposto
scientifico
nella
metafisica,
ma
come
Aristotele,
anche
Kant
sostiene
fermamente
che
accanto
a un
comune
significato
negativo
di
“limite”
statico,
ci
sia
un
addizionale
significato
positivo
di
limite
dinamico.
Se
consideriamo
la
genesi
della
Critica
della
Ragion
Pura,
originariamente
lo
scritto
si
chiamava
“Limiti
della
Sensibilità
e
dell’Intelletto”,
titolo
di
per
sé
negativo
nella
definizione/accezione
della
parola
“limite”.
Lo
stesso
Kant
aveva
avuto
tale
percezione,
da
cui
la
necessità
di
associare
alla
negatività
del
limite,
un
significato
pienamente
positivo.
In
parole
povere,
ciò
significava
per
Kant,
detenere
la
visione
del
“territorio
ragione”
nella
sua
totalità
e
riconoscerne
di
conseguenza
la
sua
struttura
critico-trascendentale.
Cerchiamo
di
capire
cosa
intenda
Kant
per
struttura
critico-trascendentale
e
perché
la
sua
filosofia
si
definisce
criticismo
kantiano.
Essendo
Kant
un
forte
pensatore,
era
piuttosto
presumibile
che
non
si
sarebbe
mai
accontentato
di
raccogliere
i
frutti
maturi
dell’Illuminismo
per
estremizzarli
poi
meramente.
Kant
ha,
in
effetti,
accolto
e
superato
l’Illuminismo.
L’illuminismo
ha
infatti
passato
al
vaglio
della
ragione
ogni
campo
dello
scibile
e
ora
Kant
decide
di
far
passare
la
ragione
in
persona
al
tribunale
di
se
stessa
per
riconoscerne
l’autonomia,
ovvero
la
sua
facoltà
legislatrice,
che
la
ragione
possiede
in
totale
autonomia,
aspetto
che
le
consente
di
obbedire
solo
a se
stessa
in
ambito
teoretico
e
pratico.
Tale
sublimazione
dell’Illuminismo
nel
Criticismo,
coincide
appunto
con
un
bilancio
critico
delle
facoltà
conoscitive
della
ragione
umana,
atte
a
fondare
una
filosofia
del
limite,
come
possibilità
di
conoscenza
a
priori,
dunque
a
prescindere
dall’esperienza,
capace
di
definire
campi,
ambiti
e
possibilità
delle
conoscenze
e
del
sapere
umano.
I
limiti
non
vanno
mai
intesi
dal
punto
di
vista
statico,
come
muri
dove
la
ragione
sbatte
e si
arresta,
ma
come
qualcosa
di
dinamico.
La
parola
“critica”
e
“crisi”
derivano
dal
greco
krino
che
significa
problematizzare,
giudicare,
ma
anche
trovare
una
soluzione
al
problema,
quindi
tutta
l’area
semantica
relativa
a
“crisi”
e
“critico”
è
vox
media
e
può
essere
intesa
tanto
negativamente,
quanto
positivamente
in
un
rapporto
di
distinzione/relazione
e
mai
di
sola
distinzione.
Abbiamo
chiarito
“criticismo”
e
ora
è la
volta
della
parola
“trascendentale”.
In
Kant
questo
termine
va
sempre
inteso
come
sinonimo
di
a
priori,
cioè
che
viene
prima
dell’esperienza.
I
famosi
giudizi
sintetici
a
priori
o
determinanti
della
ragione
pura,
sono
infatti
giudizi
che
apportano
una
conoscenza
che
non
deve
necessariamente
passare
per
la
sperimentazione
empirica.
La
stessa
ragione
è
per
Kant
una
forma
pura,
ossia
a
priori,
un
dispositivo
conoscitivo
connaturato
a
livello
costitutivo
e
genetico
in
ogni
essere
umano.
Attraverso
tale
dispositivo
riesco
a
conoscere
e
pensare,
che
in
Kant
sono
due
processi
ben
diversi.
La
ragione
come
forma
pura
viene
stampigliata
di
volta
in
volta
sulla
realtà
che
apporta
meri
contenuti,
creando
da
questa
forma,
n
forme
che
costituiscono
a
tutti
gli
effetti
la
nostra
griglia
interpretativa
del
reale.
Come
prima
dicevo,
Kant
è un
pensatore
estremamente
complesso
ed è
necessario
riflettere
bene
sulla
terminologia
che
usa
anche
perché
la
ricchezza
espressiva
della
lingua
tedesca
spesso
e
volentieri
non
è
facilmente
traducibile
in
italiano.
Quando
Kant
parla
di
ragione
pura
sta
parlando
di
un
dispositivo
conoscitivo
conformato
da
funzioni
e
processi
cognitivi
che
risponde
a
una
struttura
tripartita:
sensi
(intuito),
intelletto
(12
categorie
dell’Io
penso)
e
ragione
in
senso
stretto.
Dunque
la
ragione
kantiana
va
intesa
in
senso
lato
come
struttura
tripartita
e in
senso
stretto
come
ragione,
settore
in
cui
tra
l’altro
Kant
colloca
le
idee
di
Dio,
Anima
e
Mondo.
Già
chiarita
questa
prima
parte,
si
comprende
come
l’uomo
non
sia
affatto
limitato
negativamente,
ma
positivamente.
È
come
se
Kant
ci
stesse
dicendo
che
i
limiti
della
ragione
consentono
all’uomo
di
definire
cosa
e
come
può
conoscere
e
perciò
il
limite
diventa
fondamentale
per
un
possesso
completo
della
ragione
e
relativo
uso.
Pertanto
non
è
vero
che
Kant
ha
rinunciato
a
costruire
un
sistema
scientifico
di
conoscenze,
attraverso
la
filosofia
del
limite
e
poi
perché
avrebbe
dovuto
costruire
un
sistema
di
conoscenze,
quando
tali
conoscenze
già
c’erano
grazie
agli
esiti
della
rivoluzione
scientifica
a
cavallo
tra
1500
e
1600?
Come
giustamente
denota
Nicola
Abbagnano,
la
Critica
della
Ragione
Pura
può
essere
intesa
come
l’epistemologia
della
fisica
newtoniana,
non
nel
senso
che
Kant
è
l’equivalente
filosofico
di
quello
che
Newton
rappresenta
per
la
fisica,
ma
nell’accezione
sola
che
nel
sistema
kantiano
finalmente,
i
fondamenti
della
fisica
newtoniana
ritrovano
una
giustificazione
teoretica.
Ovviamente
ci
sono
profonde
differenze
tra
il
concetto
di
spazio
secondo
Newton
e il
recettore
puro
che
Kant
chiama
spazio,
ma
se
non
altro,
Kant
ha
salvato
Newton
dallo
scetticismo
dilagante
di
Hume,
per
il
quale
anche
il
rapporto
di
causa
effetto
rientrerebbe
nel
campo
dell’abitudine.
Con
Kant
il
rapporto
causa
effetto
risponde
alla
categoria
della
relazione
e
allora
è
concetto
puro,
come
pure
sono
le
categorie,
concetto
sulla
base
del
quale
costruire
poi
giudizi
validi
dal
punto
di
vista
scientifico.
La
filosofia
kantiana
riconosce
la
validità
della
fisica
di
Newton
con
la
sola
differenza
che
da
un
punto
di
vista
strettamente
filosofico,
essendo
“pura”
la
ragione,
le
leggi
che
Newton
asserisce
si
trovino
nella
natura,
secondo
Kant
risiedono
invece
nella
ragione
e
vengono
applicate
alla
realtà,
secondo
il
noto
principio
dell’Io
legislatore
della
natura,
meglio
conosciuto
come
rivoluzione
copernicana
di
Kant.
Lo
stesso
avverrà
per
la
ragione
pratica.
I
contenuti
provengono
dall’esterno
e la
ragione
li
mette
in
forma,
per
cui
la
ragione
orienta
tanto
la
vita
teoretica
quanto
quella
pratica,
anzi,
con
superiorità,
alla
fine,
della
ragione
pratica,
che
paradossalmente
chiama
in
causa
un
concetto
di
ragione
più
“pura”
di
quanto
la
ragione
teoretica
della
prima
critica
già
lo
sia.
Tutto
sta
pertanto
nel
modo
in
cui
si
intende
la
parola
“limite”.
La
lingua
tedesca
ha
due
possibilità
di
resa:
grenze
e
schranke.
Il
primo,
grenze,
rimanda
al
concetto
di
terminus
latino
ovvero
pietra
di
confine.
Il
secondo
al
concetto
di
limes
latino,
ovvero
confini
fortificati
dell’impero
romano.
Grenze
è
associato
a
uno
spazio
di
alterità,
a
una
zona
valicabile
a
differenza
di
schranke
che
fa
invece
pensare
a
una
negazione.
In
uno
spazio
di
alterità
si
presuppone
infatti
un
attraversamento,
un
confine
dinamico,
da
cui
l’etimologia
terminus,
che
rimanda
alla
radice
indoeuropea
“ter”
che
a
sua
volta
veicola
il
significato
di
transito
o
passaggio.
Dunque
grenze
prospetta
uno
spazio
di
distinzione/relazione,
laddove
schranke
esprime
solo
distinzione,
passaggio
negato
e
non
a
caso
il
limes
romano
divideva
il
mondo
romano,
dove
si
parlava
latino,
dal
mondo
dei
non-romani,
i
barbari,
che
in
primis
non
parlavano
latino
e
poi,
fermo
restando
che
avessero
una
qualche
cultura,
si
trattava
sempre
e
comunque
di
una
cultura
sicuramente
inferiore
a
quella
romana.
Soprattutto,
l’accezione
di
grenze
è
associata
al
concetto
di
linea-limite,
concetto
inconcepibile
in
una
pura
negazione
di
passaggio,
linea
che
in
quanto
tale,
sarà
composta
da
punti
molto
speciali
perché
posti
al
confine
tra
due
territori,
tra
due
semiosfere,
condividendo
ora
le
caratteristiche
dell’
al
di
qua
e
ora
le
caratteristiche
dell’al
di
là.
La
linea
limite
è
insomma
un
diaframma
comunicativo
tra
le
due
sfere
e
applicato
alla
filosofia
kantiana
è
chiaramente
il
confine
esistente
tra
fenomeno
e
noumeno.
In
termini
di
conoscenza
teoretica,
ciò
che
posso
conoscere
scientificamente
è il
mondo
fenomenico,
ma
la
presenza
di
quei
punti
al
confine,
mi
consente
di
pensare
il
noumeno,
ovvero
la
realtà
in
sé,
anche
se
non
posso
conoscerla,
perché
tutto
ciò
che
si
conosce
deve
passare
sempre
dalla
percezione.
Quindi
da
un
lato
avrò
l’intelletto
limitato
al
sensibile,
con
confini
mai
definitivi
ma
modificabili
in
termini
di
estensione,
per
il
fatto
che
nella
ragione
in
senso
stretto,
l’uomo
possiede
le
idee
di
Dio,
mondo
e
anima
di
cui
Kant
legittima
un
utilizzo
normativo
ma
non
costitutivo.
Ciò
significa
questo:
non
posso
conoscere
Dio,
perché
quando
dico
Dio,
nessun
dato
sensibile
attiva
i
ricettori
di
spazio
e
tempo,
quindi
nessuna
informazione
è
inviata
all’intelletto
perché
le
categorie
possano
uniformare
la
molteplicità
dei
dati
sensoriali
in
una
rappresentazione
universale.
Però
sono
libero
di
pensare
Dio,
perché
l’esistenza
non
è un
predicato.
A
differenza
dei
concetti
empirici,
a
cui
corrisponde
un
dato
sensibile
oggetto
di
scienza,
il
pensiero
vaga
senza
limiti.
Esiste
una
facoltà
teoretica
della
ragione
che
può
farsi
speculativa
nel
caso
del
pensiero.
Mondo
o
libertà
restituisce
la
globalità
dei
dati
esterni,
anima,
la
globalità
dei
dati
interni
e
Dio
la
globalità
dei
dati
interni
ed
esterni.
La
realtà
in
sé
esiste
e
posso
pensarla,
ma
non
conoscerla
da
un
punto
di
vista
teoretico
e
sono
proprio
quei
limiti
conoscitivi
che
mi
consentono
di
sapere
fino
a
che
punto
posso
conoscere
e
laddove
la
conoscenza
si
ferma
e si
aprono
le
infinite
possibilità
del
pensiero.
Come
nota
Nicola
Abbagnano,
il
noumeno
è un
concetto
limite,
un
promemoria
critico
che
orienta
la
ragione
e
rende
possibile
la
conoscenza.
In
questo
Kant
ha
nuovamente
superato
l’Illuminismo:
la
filosofia
critico-trascendentale
di
Kant,
postula
un
discorso
diverso
sulla
metafisica.
Per
Kant
la
metafisica
non
esiste
come
scienza,
ma è
legittimo
rispondere
alle
domande
metafisiche
dell’uomo,
perché
la
presenza
delle
idee
metafisiche
di
Dio,
Mondo
e
Anima
nella
ragione,
predispone
costituzionalmente
l’uomo
a un
anelito
verso
l’infinito.
Per
Kant
tali
idee
“metafisiche”
sono
giustificate
da
un
punto
di
vista
normativo,
come
idee
di
sintesi,
ma
non
costitutivo
del
reale,
da
cui
il
grande
errore
della
metafisica
di
aver
sempre
considerato
queste
idee
come
sostanze,
aspetto
che
porta
poi
ai
vari
paradossi
in
termini
di
antilogie
e
paralogismi.
Da
un
punto
di
vista
teoretico,
il
noumeno
non
si
conosce
ed è
impossibile
tentare
un
discorso
di
teologia
razionale,
ma
da
un
punto
di
vista
etico,
un
approccio
alla
metafisica
deve
essere
tentato
ed è
per
questo
che
l’Infinito
viene
nella
seconda
critica
restituito
all’uomo
attraverso
i
postulati
morali
di
Dio,
Anima
e
Mondo,
che
spiegano
il
teorema
della
legge
morale,
esattamente
come
in
matematica
i
postulati
o
assiomi
servono
per
spiegare
i
teoremi.
Dalle
due
critiche
emerge
un
essere
dell’uomo
come
essere
nel
limite,
ma
in
nessun
caso
il
limite
è
invalicabile
e
dunque
negativamente
inteso.
Consapevolezza
del
limite,
esperienza
del
limite,
etica
del
limite,
rimandano
tutti
a
una
concezione
del
limite
tanto
teoretica
quanto
pragmatica
che
consente
di
parlare
di
una
vera
antropologia
del
limite,
di
cui
il
soggetto
è
naturalmente
l’uomo.
In
un
contesto
del
genere
ha
perciò
senso
il
discorso
sul
dinamismo
del
limite
stesso,
perché
è il
limite
che
traduce
una
tale
antropologia
in
una
filosofia
reale
e
positiva
che,
in
accordo
a
una
concezione
scolastica
è
scienza
di
relazione
tra
i
vari
saperi,
ma
in
un’accezione
cosmica,
diventa
la
scienza
dei
fini
ultimi
della
ragione,
giustificando,
in
ultima
analisi,
un
incontrovertibile
primato
della
ragione
pratica
sulla
ragione
pura.
Riferimenti
bibliografici:
A.
Gargano,
Filosofia
contemporanea, Editoriale
scientifica,
Napoli
2014;
N.
Abbagnano,
G.
Fornero,
Filosofi
e
Filosofie
nella
Storia,
Volume
2,
Paravia,
Torino
1992;
A.
Gentile,
Filosofia
del
limite,
Editore,
Soveria
Mannelli
2012;
I.
Kant,
Che
cosa
significa
orientarsi
nel
pensiero,
Adelphi,
Milano
1996.