contemporanea
A PROPOSITO DI José Saramago
VERO CIECO è chi non vuol vedere
di Gaetano Cellura
Il romanziere portoghese salutò così
l’arrivo della globalizzazione: «Che
sia mondiale o europea, è un
totalitarismo». Avvertimento rivolto
a noi e anzitutto ai governi che
avrebbero dovuto regolamentarla anziché
lasciarla senza freni, fomite delle più
diffuse planetarie disuguaglianze
sociali, d’impoverimento dei popoli e
indebolimento delle democrazie.
Vedeva lontano Saramago, come sarebbe
stato il millennio che bussava alle
porte: le istituzioni del suo Paese e
quelle dell’Unione europea condizionate
dalle intromissioni del Fondo monetario
internazionale. I cittadini trasformati
in clienti.
E quanto vedesse davvero lontano, in
grado con la sua mente visionaria di
prevedere gli avvenimenti l’abbiamo
capito con la pandemia del 2020,
richiamando in quei giorni alla nostra
memoria il suo romanzo Cecità.
Che venticinque anni prima l’ha come
anticipata.
Per Pilar del Rio, che forse meglio di
tutti l’ha conosciuto, leale è
l’aggettivo che più gli si addiceva.
Josè Saramago (1922-2010) era un uomo
“leale”. Lealtà intesa come “attitudine
di fermezza rispetto agli amici, alle
cause in cui credeva”. Al fianco delle
Madri di Plaza de Mayo, dell’Esercito
zapatista, dei palestinesi, e “contro la
pena di morte ovunque”.
Pilar aveva trentasei anni quando si
sono conosciuti: un figlio, un fidanzato
e un divorzio alle spalle. Giornalista e
grande lettrice, rimase folgorata dal
romanzo L’anno della morte di
Riccardo Reis. E volle conoscerne
l’autore. Non per intervistarlo ma per
fargli i complimenti. Si incontrarono in
un bar di Lisbona, dopo una telefonata,
e Saramago fu molto gentile. Pilar del
Rio ha raccontato che, prima di
congedarsi, andarono a leggere delle
poesie sulla tomba di Pessoa, il poeta
che proclama la nostra insignificanza.
Poi lui le telefonò, le mandò delle
lettere e un giorno le chiese se
potevano incontrarsi di nuovo. Fu
l’incontro decisivo, nonostante vi
fossero tra di loro quasi trent’anni di
differenza. Lui sentì la terra tremargli
sotto i piedi; lei chiese al proprio
fidanzato di non vedersi più.
Pilar, che dopo la morte di Saramago ne
ha curato l’opera e la traduzione in
lingua spagnola, ricorda la loro vita
nell’isola di Lanzarote: le risate con
gli amici che venivano a trovarli, tra
cui Gabo Márquez, il paesaggio vulcanico
e solitario che ispirava il marito
romanziere, le sue parole sul pianeta
Terra, da rispettare come la Cappella
Sistina, il suo essere rimasto lo stesso
uomo anche dopo l’assegnazione del
Nobel, che non si aspettava, la ferma
opposizione alla censura e il giudizio
sulle cose del mondo: «Siamo ciechi»
– diceva – «ciechi che, vedendo, non
vedono».
Dei suoi romanzi la personale preferenza
è per L’uomo duplicato, il
romanzo del professore che insegna la
storia “a gambe all’aria”, dal presente
verso il passato. Non perché sia il
migliore: ma perché riprende uno dei
motivi più originali della letteratura
mondiale e del romanzo ottocentesco in
specie. Il motivo del “doppio” – caro a
Stevenson, a Dostoevskij, a Nietzsche («E
d’improvviso, amica! Ecco che l’uno
divenne due – e Zarathustra mi passò
vicino»). Ma anche perché Saramago
ci spiega l’alterazione repentina
dell’umore (dovuta alla somatizzazione
di quella patologia psichica nota come
ira dei miti) e i differenti tipi di
temperamenti umani: il collerico come
prodotto della bile bianca, il
melanconico di quella nera, il
flemmatico e il sanguigno
rispettivamente (e ovviamente) collegati
alla flemma e al sangue.
Romanziere allegorico e dallo stile
anticonvenzionale e personalissimo –
periodi molto lunghi, pagine e pagine
senza punti e di sole virgole –,
Saramago ha saputo rappresentare, dietro
allegorie e metafore, la realtà più vera
e nascosta: e meglio di molti
riconosciuti scrittori realisti.
La realtà che, senza essere ciechi, non
vediamo. Non vogliamo vedere. Prudente
nell’opera letteraria, non lo è stato
affatto nelle prese di posizione contro
lo Stato d’Israele e contro i grandi
della terra del suo tempo.
All’età di dieci anni vide sul Século
la fotografia di Dollfluss, il
Cancelliere austriaco che assisteva
sorridente a una sfilata di truppe nel
suo paese. Non aveva idea di cosa fosse
un Cancelliere, non poteva sapere che
l’anno successivo Dollfluss sarebbe
stato assassinato da congiurati delle SS
austriache travestiti da soldati
austriaci, ma si stupiva di vederlo
“tanto bassino”.
Qualche tempo dopo un’altra immagine
nella prima pagina di un giornale lo
colpì. Colpì il bambino che Saramago
ancora era. “Il disegno precisissimo di
una mano in posizione di afferrare
qualcosa”. Era la mano di Salazar, il
dittatore del suo paese. “Una mano di
ferro in un guanto di velluto” si
leggeva nel titolo. Le immagini di
Dollfluss sorridente al passaggio delle
truppe, ignaro della fine che lo
aspetta, e della mano di ferro coperta
dalla “morbidezza del velluto ipocrita”,
lo scrittore portoghese le ricorderà per
tutta la vita.
«Salazar,
Mussolini, Hitler» – dice nelle sue
Piccole memorie – «erano della
stessa pasta, cugini della stessa
famiglia, uguali nella mano di ferro,
diversi solo nello spessore del velluto
e nel modo di stringere».
|