[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

188 / AGOSTO 2023 (CCXIX)


contemporanea

A PROPOSITO DI  José Saramago
VERO CIECO è chi non vuol vedere 

di Gaetano Cellura

 

Il romanziere portoghese salutò così l’arrivo della globalizzazione: «Che sia mondiale o europea, è un totalitarismo». Avvertimento rivolto a noi e anzitutto ai governi che avrebbero dovuto regolamentarla anziché lasciarla senza freni, fomite delle più diffuse planetarie disuguaglianze sociali, d’impoverimento dei popoli e indebolimento delle democrazie.

 

Vedeva lontano Saramago, come sarebbe stato il millennio che bussava alle porte: le istituzioni del suo Paese e quelle dell’Unione europea condizionate dalle intromissioni del Fondo monetario internazionale. I cittadini trasformati in clienti.

 

E quanto vedesse davvero lontano, in grado con la sua mente visionaria di prevedere gli avvenimenti l’abbiamo capito con la pandemia del 2020, richiamando in quei giorni alla nostra memoria il suo romanzo Cecità. Che venticinque anni prima l’ha come anticipata.

 

Per Pilar del Rio, che forse meglio di tutti l’ha conosciuto, leale è l’aggettivo che più gli si addiceva. Josè Saramago (1922-2010) era un uomo “leale”. Lealtà intesa come “attitudine di fermezza rispetto agli amici, alle cause in cui credeva”. Al fianco delle Madri di Plaza de Mayo, dell’Esercito zapatista, dei palestinesi, e “contro la pena di morte ovunque”.

 

Pilar aveva trentasei anni quando si sono conosciuti: un figlio, un fidanzato e un divorzio alle spalle. Giornalista e grande lettrice, rimase folgorata dal romanzo L’anno della morte di Riccardo Reis. E volle conoscerne l’autore. Non per intervistarlo ma per fargli i complimenti. Si incontrarono in un bar di Lisbona, dopo una telefonata, e Saramago fu molto gentile. Pilar del Rio ha raccontato che, prima di congedarsi, andarono a leggere delle poesie sulla tomba di Pessoa, il poeta che proclama la nostra insignificanza. Poi lui le telefonò, le mandò delle lettere e un giorno le chiese se potevano incontrarsi di nuovo. Fu l’incontro decisivo, nonostante vi fossero tra di loro quasi trent’anni di differenza. Lui sentì la terra tremargli sotto i piedi; lei chiese al proprio fidanzato di non vedersi più.

 

Pilar, che dopo la morte di Saramago ne ha curato l’opera e la traduzione in lingua spagnola, ricorda la loro vita nell’isola di Lanzarote: le risate con gli amici che venivano a trovarli, tra cui Gabo Márquez, il paesaggio vulcanico e solitario che ispirava il marito romanziere, le sue parole sul pianeta Terra, da rispettare come la Cappella Sistina, il suo essere rimasto lo stesso uomo anche dopo l’assegnazione del Nobel, che non si aspettava, la ferma opposizione alla censura e il giudizio sulle cose del mondo: «Siamo ciechi» – diceva – «ciechi che, vedendo, non vedono».

 

Dei suoi romanzi la personale preferenza è per L’uomo duplicato, il romanzo del professore che insegna la storia “a gambe all’aria”, dal presente verso il passato. Non perché sia il migliore: ma perché riprende uno dei motivi più originali della letteratura mondiale e del romanzo ottocentesco in specie. Il motivo del “doppio” – caro a Stevenson, a Dostoevskij, a Nietzsche («E d’improvviso, amica! Ecco che l’uno divenne due – e Zarathustra mi passò vicino»). Ma anche perché Saramago ci spiega l’alterazione repentina dell’umore (dovuta alla somatizzazione di quella patologia psichica nota come ira dei miti) e i differenti tipi di temperamenti umani: il collerico come prodotto della bile bianca, il melanconico di quella nera, il flemmatico e il sanguigno rispettivamente (e ovviamente) collegati alla flemma e al sangue.

 

Romanziere allegorico e dallo stile anticonvenzionale e personalissimo – periodi molto lunghi, pagine e pagine senza punti e di sole virgole –, Saramago ha saputo rappresentare, dietro allegorie e metafore, la realtà più vera e nascosta: e meglio di molti riconosciuti scrittori realisti.

La realtà che, senza essere ciechi, non vediamo. Non vogliamo vedere. Prudente nell’opera letteraria, non lo è stato affatto nelle prese di posizione contro lo Stato d’Israele e contro i grandi della terra del suo tempo.

 

All’età di dieci anni vide sul Século la fotografia di Dollfluss, il Cancelliere austriaco che assisteva sorridente a una sfilata di truppe nel suo paese. Non aveva idea di cosa fosse un Cancelliere, non poteva sapere che l’anno successivo Dollfluss sarebbe stato assassinato da congiurati delle SS austriache travestiti da soldati austriaci, ma si stupiva di vederlo “tanto bassino”.

 

Qualche tempo dopo un’altra immagine nella prima pagina di un giornale lo colpì. Colpì il bambino che Saramago ancora era. “Il disegno precisissimo di una mano in posizione di afferrare qualcosa”. Era la mano di Salazar, il dittatore del suo paese. “Una mano di ferro in un guanto di velluto” si leggeva nel titolo. Le immagini di Dollfluss sorridente al passaggio delle truppe, ignaro della fine che lo aspetta, e della mano di ferro coperta dalla “morbidezza del velluto ipocrita”, lo scrittore portoghese le ricorderà per tutta la vita.

 

«Salazar, Mussolini, Hitler» – dice nelle sue Piccole memorie – «erano della stessa pasta, cugini della stessa famiglia, uguali nella mano di ferro, diversi solo nello spessore del velluto e nel modo di stringere».

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]