[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

164 / AGOSTO 2021 (CXCV)


contemporanea

A PROPOSITO DI JORGE LUIS BORGES

TRA LUCI E OMBRE

di Giovanna D’Arbitrio

 

Jorge Luis Borges, grande scrittore, poeta, saggista, filosofo e accademico argentino, con le sue opere ha contribuito alla letteratura filosofica e al genere fantastico. Il critico Ángel Flores considerò Borges un esponente del cosiddetto Realismo Magico, definizione usata la prima volta nel 1925 dal critico tedesco Franz Roh per descrivere l’insolito realismo, caratterizzato da minuziosa ricerca di dettagli dall’effetto straniante, dei pittori della Nuova oggettività. Borges in effetti famoso sia per i suoi racconti fantastici, in cui ha saputo coniugare idee filosofiche e metafisiche con i classici temi del fantastico (doppio, realtà parallele, slittamenti temporali e quant’altro), sia per la sua ampia produzione poetica in cui secondo Claudio Magris si manifesta «l’incanto di un attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto».

 

Eppure ci si chiede come mai un letterato di così grande spessore sia stato affetto da una sorta di “cecità spirituale”, non solo fisica, che gli impedì di le scelte giuste quando appoggiò le dittature di Videla e Pinochet, scelte che pesarono come macigni sulla sua immagine, anche se nel 1980 firmò una petizione in favore dei desaparecidos, protestando contro le violazioni dei diritti umani. Appaiono significativi in tal senso i seguenti versi: Soy ciego y nada sé, pero preveo/Ques son mas los caminos (Son cieco e niente so, ma intuisco/Che molte sono le strade). E nel 1981, parlando con un giornalista Uki Goni di The Buenos Aires Herald che gli chiedeva se avesse cambiato opinione sul governo di Videla da lui definito nel ‘76 un governo di gentiluomini”, rispose: «La gente pensa che quello che ho fatto l’ho fatto tardi. È vero. Ma pensate a me come un cieco che non legge i giornali e che non conosce molta gente. Nel momento in cui sono stato sicuro di quel che succedeva ho parlato. E continuerò a parlare».

 

In effetti in un giorno di luglio del 1985, in un’aula del tribunale di Buenos Aires, mentre 900 testimoni raccontavano le atrocità commesse contro di loro negli anni ‘70 e ‘80, documentate con diecimila pagine di prove, lo scrittore ormai ottantacinquenne stava là ad ascoltare, finché non fu costretto ad andar via per un grave malore e una violenta crisi causata dall’orrore di quei fatti.

 

Anche se egli si definì spesso apolitico, in realtà poi si comportò come uomo di estrema destra, orgoglioso dei suoi antenati militari: una volta definì la democrazia un curioso abuso di statistica. Per le sue scelte politiche forse non fu ritenuto degno del Premio Nobel, suscitando sempre opinioni contrastanti o grande imbarazzo in coloro che non le condividevano pur ammirando le sue opere, come Gabriel Garcia Marquez che si autodefinì “un insaziabile lettore di Borges e suo nemico politico”, oppure Alberto Moravia che molto prevenuto e riluttante perfino a conoscerlo di persona, accettò poi un invito del Corriere della Sera a incontrarlo nel marzo 1981. Pare che alla fine abbia affermato: «Peccato che Borges non abbia voluto rispondere alla mia domanda sull’effetto liberatorio di Freud e di Marx. Questo non toglie, però, che sia più simpatico di quanto mi aspettassi».

 

Le opere ancor più sembrano rendere evidente questo “sorprendente gap” tra la sua arte e la vita pubblica: mentre osannava ordine e disciplina di governi conservatori, la sua anima spaziava liberamente, quasi in modo anarchico, in diversi campi dello scibile umano, saccheggiando idee sia nella cultura occidentale che orientale, perfino sforando in quelli misterici e magici con i temi del doppio, delle realtà parallele, degli slittamenti temporali, in un totale eclettismo che comunque poi egli riusciva a trasformare in contenuti e forma di grande originalità.

 

Trasse ispirazione da tutte le letterature europee, in particolare quella inglese (Kipling, Stevenson, De Quincey), da quella tedesca (saghe, leggende, Schopenhauer, Heine, Kafka) dai classici greci e latini, da filosofia e religioni dell’Ovest e dell’Est (cristianesimo, protestantesimo, correnti gnostiche, taoismo), dalla letteratura islamica (Le Mille e Una Notte) e da tante altre fonti.

 

Si definì allievo e seguace del filosofo e poeta Macedonio Fernandez il quale riteneva che «ogni situazione percepita, per quanto insignificante rispetto alla durata e all’intensità, rappresenta la totalità dell’interpretazione metafisica». In parole più semplici si può dire sia lo stesso concetto espresso da Oscar Wilde secondo il quale ogni istante della vita di un essere umano è espressione di tutto ciò che è stato e che sarà.

 

Molti dicono che il suo particolare modo di concepire il tempo derivasse in parte da un episodio della sua infanzia quando il padre gli illustrò il paradosso di Zenone su “Achille e la tartaruga” servendosi di una scacchiera. Anche il mondo e la storia per Borges sono una sorta di realtà virtuale, poco veritiera e pertanto affermò: «Abbiamo sognato il mondo resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e fermo nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità, per sapere che è finto». Fantasie visionarie, allucinazioni, simboli, finzioni, assurdità e paradossi caratterizzano la sua opera che trovò la sua massima espressione nella poesia, anche se furono il saggio e la narrativa a procurargli riconoscimenti e fama a livello internazionale.

 

E infine ecco in breve la sua vita: nato a Buenos Aires nel 1899, nel 1914 seguì i suoi genitori in Europa, studiando in Svizzera e poi in Spagna dove scrisse su vari giornali. Nel 1925 incontrò Victoria Ocampo (che sposerà 40 anni dopo) e con lei stabilì una grande intesa intellettuale. Lavorava incessantemente, mentre la sua vista peggiorava per una malattia ereditaria agli occhi, manifestatasi già durante l’infanzia. Malgrado ciò scrisse e pubblicò Fervor de Buenos Aires, Luna de Enfrente, Cuaderno de San Martin.

 

Nel 1938 per un banale incidente in casa fu sul punto di morire per setticemia, ma nel periodo della malattia concepì alcune tra le sue opere migliori, Ficciones, raccolte e pubblicate nel ‘44, Pierre Menard, autor del Quijote (1948), El Aleph (1949), Antiguas Literaturas Germanicas (1950).

 

Nel 1975 cominciò a viaggiare con Maria Kodana, sua ex alunna e segretaria, divenuta sua seconda moglie alcune settimane prima della morte, avvenuta a Ginevra nel 1986 per un cancro al fegato. Sulla sua tomba si legge una frase tratta da un poema inglese del X secolo: “And ne forhtedon na” (“Giammai con timore”). Dietro alla lapide ci sono due versi della Saga di Volsunga (XIII secolo), cioè “Hannn tekr sverthit Gram okk legger i methal theira bert” (“egli prese la sua spada, Gram, e pose il nudo metallo tra i due”) con l’immagine di un drakkar vichingo.

 

Borges ebbe molti premi e riconoscimenti nazionali e internazionali e ha influenzato molti scrittori che si ispirarono alle sue opere. Tra gli italiani ricordiamo Italo Calvino e Umberto Eco che nel suo romanzo Il Nome della Rosa, dà il nome di Jorge de Burgos a uno dei personaggi chiaramente riferibile a Borges.

 

E ci sembra giusto concludere con i suoi versi che descrivono il tormentato e solitario percorso dell’Uomo sulla Terra, creatura fragile e imperfetta destinata spesso a sbagliare e a soffrire: C’è tanta solitudine in quell’oro./ La luna delle notti, non è la luna/ Che vide il primo Adamo./ I lunghi secoli della veglia umana/ L’hanno colmata di antico pianto./ Guardala. È il tuo specchio.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]