contemporanea
A PROPOSITO DI
JORGE LUIS BORGES
TRA LUCI E OMBRE
di Giovanna D’Arbitrio
Jorge Luis Borges,
grande scrittore, poeta, saggista,
filosofo e accademico argentino, con le
sue opere ha contribuito alla
letteratura filosofica e al genere
fantastico. Il critico Ángel Flores
considerò Borges un esponente del
cosiddetto Realismo Magico,
definizione usata la prima volta nel
1925 dal critico tedesco Franz Roh
per descrivere l’insolito realismo,
caratterizzato da minuziosa ricerca di
dettagli dall’effetto straniante, dei
pittori della Nuova oggettività.
Borges in effetti famoso sia per i suoi
racconti fantastici, in cui ha saputo
coniugare idee filosofiche e metafisiche
con i classici temi del fantastico
(doppio, realtà parallele, slittamenti
temporali e quant’altro), sia per la sua
ampia produzione poetica in cui secondo
Claudio Magris si manifesta «l’incanto
di un attimo in cui le cose sembra
stiano per dirci il loro segreto».
Eppure ci si chiede come mai un
letterato di così grande spessore sia
stato affetto da una sorta di “cecità
spirituale”, non solo fisica, che
gli impedì di le scelte giuste quando
appoggiò le dittature di Videla e
Pinochet, scelte che pesarono come
macigni sulla sua immagine, anche se nel
1980 firmò una petizione in favore dei
desaparecidos, protestando contro le
violazioni dei diritti umani. Appaiono
significativi in tal senso i seguenti
versi: Soy ciego y nada sé, pero
preveo/Ques son mas los caminos (Son
cieco e niente so, ma intuisco/Che molte
sono le strade). E nel 1981,
parlando con un giornalista Uki Goni
di The Buenos Aires Herald che
gli chiedeva se avesse cambiato opinione
sul governo di Videla da lui definito
nel ‘76 un governo di gentiluomini”,
rispose: «La gente pensa che quello
che ho fatto l’ho fatto tardi. È vero.
Ma pensate a me come un cieco che non
legge i giornali e che non conosce molta
gente. Nel momento in cui sono stato
sicuro di quel che succedeva ho parlato.
E continuerò a parlare».
In effetti in un giorno di luglio del
1985, in un’aula del tribunale di Buenos
Aires, mentre 900 testimoni raccontavano
le atrocità commesse contro di loro
negli anni ‘70 e ‘80, documentate con
diecimila pagine di prove, lo scrittore
ormai ottantacinquenne stava là ad
ascoltare, finché non fu costretto ad
andar via per un grave malore e una
violenta crisi causata dall’orrore di
quei fatti.
Anche se
egli si definì spesso apolitico, in
realtà poi si comportò come uomo di
estrema destra, orgoglioso dei suoi
antenati militari: una volta definì la
democrazia un curioso abuso di
statistica. Per le sue scelte
politiche forse non fu ritenuto degno
del Premio Nobel, suscitando sempre
opinioni contrastanti o grande imbarazzo
in coloro che non le condividevano pur
ammirando le sue opere, come Gabriel
Garcia Marquez che si autodefinì “un
insaziabile lettore di Borges e suo
nemico politico”, oppure Alberto
Moravia che molto prevenuto e
riluttante perfino a conoscerlo di
persona, accettò poi un invito del
Corriere della Sera a incontrarlo nel
marzo 1981. Pare che alla fine abbia
affermato: «Peccato
che Borges non abbia voluto rispondere
alla mia domanda sull’effetto
liberatorio di Freud e di Marx. Questo
non toglie, però, che sia più simpatico
di quanto mi aspettassi».
Le opere ancor più sembrano rendere
evidente questo “sorprendente gap”
tra la sua arte e la vita pubblica:
mentre osannava ordine e disciplina di
governi conservatori, la sua anima
spaziava liberamente, quasi in modo
anarchico, in diversi campi dello
scibile umano, saccheggiando idee sia
nella cultura occidentale che orientale,
perfino sforando in quelli misterici e
magici con i temi del doppio, delle
realtà parallele, degli slittamenti
temporali, in un totale eclettismo che
comunque poi egli riusciva a trasformare
in contenuti e forma di grande
originalità.
Trasse ispirazione da tutte le
letterature europee, in particolare
quella inglese (Kipling, Stevenson, De
Quincey), da quella tedesca (saghe,
leggende, Schopenhauer, Heine, Kafka)
dai classici greci e latini, da
filosofia e religioni dell’Ovest e
dell’Est (cristianesimo,
protestantesimo, correnti gnostiche,
taoismo), dalla letteratura islamica (Le
Mille e Una Notte) e da tante altre
fonti.
Si definì allievo e seguace del filosofo
e poeta Macedonio Fernandez il
quale riteneva che «ogni situazione
percepita, per quanto insignificante
rispetto alla durata e all’intensità,
rappresenta la totalità
dell’interpretazione metafisica». In
parole più semplici si può dire sia lo
stesso concetto espresso da Oscar Wilde
secondo il quale ogni istante della vita
di un essere umano è espressione di
tutto ciò che è stato e che sarà.
Molti dicono che il suo particolare modo
di concepire il tempo derivasse in parte
da un episodio della sua infanzia quando
il padre gli illustrò il paradosso di
Zenone su “Achille e la tartaruga”
servendosi di una scacchiera. Anche il
mondo e la storia per Borges sono una
sorta di realtà virtuale, poco veritiera
e pertanto affermò: «Abbiamo sognato
il mondo resistente, misterioso,
visibile, ubiquo nello spazio e fermo
nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua
architettura tenui ed eterni interstizi
di assurdità, per sapere che è finto».
Fantasie visionarie, allucinazioni,
simboli, finzioni, assurdità e paradossi
caratterizzano la sua opera che trovò la
sua massima espressione nella poesia,
anche se furono il saggio e la narrativa
a procurargli riconoscimenti e fama a
livello internazionale.
E infine
ecco in breve la sua vita: nato a Buenos
Aires nel 1899, nel 1914 seguì i suoi
genitori in Europa, studiando in
Svizzera e poi in Spagna dove scrisse su
vari giornali. Nel 1925 incontrò
Victoria Ocampo (che sposerà 40 anni
dopo) e con lei stabilì una grande
intesa intellettuale. Lavorava
incessantemente, mentre la sua vista
peggiorava per una malattia ereditaria
agli occhi, manifestatasi già durante
l’infanzia. Malgrado ciò scrisse e
pubblicò Fervor de Buenos Aires,
Luna de Enfrente,
Cuaderno de San Martin.
Nel 1938 per un banale incidente in casa
fu sul punto di morire per setticemia,
ma nel periodo della malattia concepì
alcune tra le sue opere migliori,
Ficciones, raccolte e pubblicate
nel ‘44, Pierre Menard, autor del
Quijote (1948), El Aleph
(1949), Antiguas Literaturas
Germanicas (1950).
Nel 1975 cominciò a viaggiare con Maria
Kodana, sua ex alunna e segretaria,
divenuta sua seconda moglie alcune
settimane prima della morte, avvenuta a
Ginevra nel 1986 per un cancro al
fegato. Sulla sua tomba si legge una
frase tratta da un poema inglese del X
secolo: “And ne forhtedon na”
(“Giammai con timore”). Dietro alla
lapide ci sono due versi della Saga di
Volsunga (XIII secolo), cioè “Hannn
tekr sverthit Gram okk legger i methal
theira bert” (“egli prese la sua
spada, Gram, e pose il nudo metallo tra
i due”) con l’immagine di un drakkar
vichingo.
Borges ebbe molti premi e riconoscimenti
nazionali e internazionali e ha
influenzato molti scrittori che si
ispirarono alle sue opere. Tra gli
italiani ricordiamo Italo Calvino e
Umberto Eco che nel suo romanzo Il
Nome della Rosa, dà il nome di Jorge
de Burgos a uno dei personaggi
chiaramente riferibile a Borges.
E ci
sembra giusto concludere con i suoi
versi che descrivono il tormentato e
solitario percorso dell’Uomo sulla
Terra, creatura fragile e imperfetta
destinata spesso a sbagliare e a
soffrire: C’è tanta solitudine in
quell’oro./ La luna delle notti,
non è la luna/ Che vide il primo
Adamo./ I lunghi secoli della
veglia umana/ L’hanno colmata di
antico pianto./
Guardala.
È il tuo specchio. |