N. 57 - Settembre 2012
(LXXXVIII)
Jim Crow
da giullare a oppressore
di Elisabetta Soro.
I,
too,
sing
America.
I am
the
darker
brother...
I,
too,
am
America.
(I,
Too
di
Langston
Hughes)
Quando
verso
la
fine
del
XV
secolo
i
primi
schiavi
provenienti
dall’Africa
e
dai
Caraibi
sbarcarono
per
la
prima
volta
sul
continente
americano,
vennero
indirizzati
principalmente
verso
le
grandi
piantagioni
del
Sud
per
la
coltivazione
del
cotone.
A
quell’epoca
nessuno
avrebbe
potuto
immaginare
che
quella
che
allora
veniva
considerata
“merce”
a
basso
costo,
diversi
secoli
dopo
sarebbe
diventata
uno
dei
maggiori
problemi
della
nazione.
L’abolizione
della
schiavitù
e la
nascita
di
una
fiorente
industria
negli
Stati
Uniti,
non
risolse
di
fatto
il
problema
degli
afroamericani:
la
fine
della
schiavitù
non
portò
con
sé
l’uguaglianza
dei
diritti
civili,
poiché
la
maggioranza
bianca
continuò
a
difendere
i
propri
privilegi
praticando
la
separazione
delle
razze,
e
negando
di
fatto
ai
neri
di
usufruire
delle
stesse
possibilità
in
ogni
ambito
politico
e
sociale.
Cenni
storici
Nel
1860
la
popolazione
degli
Stati
Uniti
contava
poco
più
di
trentun
milioni
di
abitanti
di
cui
quasi
quattro
milioni
ancora
in
condizione
di
schiavitù.
Era
il
Sud
a
vantare
il
triste
primato
di
detenzione
di
schiavi
che,
a
quei
tempi,
erano
per
la
maggior
parte
di
proprietà
dei
ricchi
latifondisti.
Durante
questo
periodo
le
relazioni
tra
razze
erano
fissate
da
schemi
ben
precisi
e
chiari
a
tutti.
Con
la
sempre
maggiore
diffusione
di
gruppi
abolizionisti
e
iniziative
a
favore
dell’affrancamento
nelle
varie
comunità
nel
Nord
del
paese,
la
situazione
andò
mutando
rapidamente.
Nel
1831
a
Boston
venne
pubblicato
per
la
prima
volta
The
Liberator,
un
settimanale
diretto
da
William
Lloyd
Garrison,
che
nei
suoi
35
anni
di
vita,
fino
alla
fine
della
Guerra
Civile,
si
distinse
per
il
suo
intransigente
sostegno
all’immediata
e
completa
emancipazione
di
tutti
gli
schiavi
negli
Stati
Uniti.
I
principali
motivi
di
critica
riguardavano
l’eccessiva
mole
di
lavoro
a
cui
gli
schiavi
erano
costretti,
la
separazione
dalle
famiglie
e la
mancanza
di
possibilità
di
crescita
culturale.
I
sostenitori
della
schiavitù,
dal
canto
loro,
la
giustificavano
come
strumento
per
strappare
gli
schiavi
alla
barbarie
in
cui
vivevano,
per
metterli
in
contatto
con
una
realtà
più
evoluta,
per
garantirgli
un
lavoro
e
per
aiutarli
spiritualmente
grazie
alla
conversione
al
cristianesimo.
Pochi
anni
dopo
il
partito
antischiavista
dei
“free
soilers”
scese
in
campo
durante
le
elezioni
del
1848
ottenendo
un
buon
risultato
di
voti
e
quattro
anni
dopo
venne
pubblicato
quello
che
ancora
oggi
viene
definito
il
best
seller
dell’Ottocento:
il
romanzo
di
Harriet
Beecher
Stowe,
La
capanna
dello
zio
Tom.
Uscito
all’indomani
dell’approvazione
della
Fugitive
Slave
Law,
che
decretava
il
dovere
di
denuncia
degli
schiavi
fuggiti
e la
loro
restituzione
ai
legittimi
proprietari,
il
romanzo
ebbe
un
profondo
impatto
sugli
atteggiamenti
nei
confronti
della
schiavitù.
La
storia
di
questo
schiavo
nero
tanto
buono
quanto
devoto
al
suo
padrone
che
muore
perché
si
rifiuta
di
diventare
un
aguzzino
nei
confronti
di
altri,
sembrò
fare
breccia
nel
cuore
di
tanti
americani
e
contribuì
efficacemente
ad
accrescere
lo
sdegno
generale
verso
gli
stati
schiavisti.
Anche
se
non
tutti
apprezzarono
la
storia
della
Stowe
(lo
scrittore
afroamericano
James
Baldwin
nel
suo
saggio
pubblicato
nel
Partisan
Review
nel
1949
e
intitolato
Everybody’s
Protest
Novel
lo
definì
senza
mezzi
termini
“un
pessimo
libro”),
la
scrittrice
riuscì
a
sollevare
un
dibattito
nazionale
sulla
situazione
di
prevaricazione
che
si
stava
vivendo.
La
risposta
del
Sud
fu
immediata,
con
la
pubblicazione
di
romanzi,
saggi
e
volumi
in
difesa
della
schiavitù
che
raffiguravano
da
un
lato
lo
schiavista
come
un
gentiluomo,
in
Slavery
in
the
United
States,
e
dall’altro
gli
schiavi
come
dei
privilegiati
inseriti
in
un
sistema
di
protezione
ideato
per
le
classi
più
deboli
al
fine
di
eliminare
l’anarchia
economica
e la
competizione
tra
poveri.
Numerose
persone
tuttavia
cominciarono
a
contravvenire
alle
leggi
che
obbligavano
a
riconsegnare
gli
schiavi
fuggiaschi
ai
loro
padroni,
organizzando
persino
dei
veri
e
propri
percorsi
di
fuga
assistiti.
Memorabile
è
quello
del
1859,
quando
John
Brown
e i
suoi
uomini
fecero
irruzione
nel
territorio
della
Virginia
nel
tentativo
di
liberare
e
armare
gli
schiavi.
Catturati
e
processati
vennero
impiccati
divenendo
martiri
della
libertà
per
i
loro
compatrioti
nordisti.
Nel
1861,
alla
vigilia
della
Guerra
Civile,
divenne
presidente
degli
Stati
Uniti
Abraham
Lincoln,
un
deciso
sostenitore
della
tesi
unitaria
e
antischiavista.
Approfittando
dei
poteri
straordinari
accordati
al
presidente
in
tempo
di
guerra,
il
1°
gennaio
1863
Lincoln
proclamò
l’affrancamento
dalla
schiavitù.
Gli
afroamericani,
che
avevano
preso
parte
a
tutte
le
guerre
fino
ad
allora
combattute
negli
Stati
Uniti,
ora
più
che
mai
sentivano
di
avere
uno
scopo
preciso:
lottare
per
la
libertà.
All’indomani
del
richiamo
alle
armi
di
Lincoln,
furono
numerosi
i
neri
che
in
tutto
il
Nord
si
offrirono
volontari.
Forse
perché
i
bianchi
erano
convinti
che
gli
africani
mancassero
di
coraggio,
forse
perché
secondo
i
vertici
militari
la
loro
presenza
avrebbe
portato
più
danni
che
benefici,
o
forse
per
il
timore
che
armati
avrebbero
potuto
insorgere
contro
i
loro
comandanti,
sta
di
fatto
che
ovunque
furono
respinti.
Il
Dipartimento
della
Guerra
non
sembrava
avere
intenzione
di
arruolare
delle
truppe
nere.
Ma
mano
che
la
guerra
proseguiva,
tuttavia,
si
fece
necessario
avere
un
numero
sempre
maggiore
di
soldati
e
alcuni
comandanti
decisero
di
arruolare
gli
schiavi
fuggiti
e
quelli
in
cerca
di
asilo
(i
Contrabands),
uno
stato
giuridico
che
impediva
loro
di
essere
restituiti
ai
loro
proprietari.
A
luglio
del
1862
(un
anno
dopo
lo
scoppio
della
Guerra),
il
Congresso
approvò
un
disegno
di
legge
che
autorizzava
l’utilizzo
delle
truppe
nere
e il
loro
immediato
arruolamento.
Furono
180.000
i
soldati
neri
che
servirono
nelle
fila
dell’Unione,
costituendo
circa
il
10%
del
totale
delle
truppe
federali,
e
quasi
29.000
servirono
nella
marina,
costituendo
quasi
il
25%
dei
marinai
dell’Unione.
Anche
le
donne
afroamericane
diedero
il
loro
contributo
agli
sforzi
bellici,
lavorando
negli
ospedali
o
nei
campi
militari.
Molte
si
spostarono
nelle
aree
liberate
del
Sud
per
creare
delle
scuole
e
aiutare
gli
schiavi
emancipati
a
ottenere
un’istruzione
e la
cittadinanza.
Sogni
e
speranze
del
popolo
nero
sembravano
farsi
più
vicini.
Durante
il
periodo
della
Ricostruzione
successiva
alla
fine
della
Guerra
Civile,
diversi
afroamericani
parteciparono
per
la
prima
volta
nella
storia
degli
Stati
Uniti
e
con
un
discreto
successo
alle
elezioni
politiche
nel
Sud.
Furono
eletti
sedici
neri
nel
Congresso
e
due
di
questi
andarono
al
Senato.
Dei
sedici,
tredici
erano
ex-schiavi.
Sotto
la
loro
influenza
furono
portate
all’attenzione
della
politica
diverse
riforme
tra
cui
quelle
riguardanti
l’istruzione
pubblica
e
diverse
modifiche
al
sistema
penale
e
giudiziario
del
paese.
Ma
alla
fine
della
guerra
si
aprirono
per
unionisti
(i
vincitori)
e
confederati
(i
vinti)
scenari
molto
diversi.
Malgrado
quattro
anni
di
combattimenti
il
Nord,
infatti,
era
diventato
un
paese
prospero
e il
benessere
aveva
cambiato
le
condizioni
di
vita
dei
suoi
abitanti.
Proliferarono
nuove
industrie
specie
nell’ambito
ferroviario
e
della
produzione
di
ferro,
legname
e
petrolio.
Coloro
che
per
contro
avevano
servito
nelle
file
confederate
al
loro
rientro
a
casa
trovarono
desolazione
e
rovina.
Il
Sud
fortemente
provato
dalla
guerra
riprese
lentamente
le
sue
attività.
I
grandi
proprietari
terrieri,
impoveriti
dalla
svalutazione
del
denaro,
dall’affrancamento
degli
schiavi
e
rovinati
dalle
imposizioni
vessatorie
degli
stati
vincitori,
si
videro
costretti
a
frazionare
i
loro
possedimenti
a
vantaggio
di
piccoli
proprietari
e
anche
per
gli
schiavi
liberati
la
situazione
sembrò
improvvisamente
peggiorare.
Privi
spesso
di
mezzi
di
sussistenza
difficilmente
venivano
reintegrati
nelle
vaste
coltivazioni
del
Sud
e
molti
decisero
di
migrare
al
Nord
in
cerca
di
fortuna.
Ma
la
competizione
per
la
ricerca
di
un
lavoro
stava
diventando
anche
nelle
città
settentrionali
motivo
di
crescente
violenza.
Inoltre
era
netta
la
differenza
tra
i
neri
colti
del
Nord
e i
contadini
neo-emancipati
del
Sud.
I
primi
erano
maggiormente
interessati
a
ottenere
i
diritti
politici
e
civili
negatigli.
Gli
ex-schiavi
del
Sud
che,
invece,
conoscevano
solo
il
lavoro
duro
nelle
piantagioni
e
nelle
fattorie,
avevano
come
obiettivo
primario
l’ottenimento
di
una
terra
per
il
proprio
sostentamento
e
l’indipendenza
economica.
Tutti
gli
altri
diritti
dipendevano
da
questo.
Durante
la
Ricostruzione
diversi
propositi
erano
stati
fatti
per
procurare
a
ogni
schiavo
liberato
“quaranta
acri
di
terra
e un
mulo”
e
prima
che
Lincoln
venisse
assassinato,
c’era
l’effettiva
possibilità
che
le
terre
confiscate
ai
proprietari
delle
piantagioni
che
avevano
appoggiato
gli
sforzi
bellici
del
Sud
venissero
ridistribuite
agli
ex-schiavi.
Ma
la
politica
dell’Unione
sulle
terre,
anche
prima
della
fine
della
guerra,
era
alquanto
diversa.
Invece
che
assegnare
agli
schiavi
affrancati
una
terra
di
loro
proprietà
gli
venne
chiesto
di
firmare
dei
contratti
di
lavoro
con
degli
avventurieri
nordisti
ai
quali
le
piantagioni
erano
state
date
in
locazione
per
sostenere
le
truppe
federali.
Molti
di
questi
locatari
erano
più
interessati
a
fare
soldi
che
ad
aiutare
gli
schiavi
affrancati,
e
gli
ex-schiavi
spesso
si
ritrovavano
a
lavorare
tanto
duramente
quanto
durante
il
periodo
della
schiavitù
per
dei
salari
ridicoli.
Quando
Andrew
Johnson,
eletto
vicepresidente
di
Abraham
Lincoln,
gli
successe
alla
massima
carica,
gli
ex-schiavi
delle
campagne
videro
sfumare
davanti
a sé
ogni
speranza.
La
politica
di
Johnson
fu,
infatti,
quella
di
restituire
le
piantagioni
ai
vecchi
proprietari.
Pensava
che
questo
fosse
l’unico
modo
per
spianare
al
Sud
la
strada
per
il
suo
ritorno
nell’Unione
riducendo
al
minimo
le
ostilità.
Sfortunatamente
furono
gli
afroamericani
a
fare
le
spese
di
questa
politica.
Molti
ex-schiavi
finirono
per
lavorare
come
mezzadri,
imbrigliati
in
un
sistema
che
li
portò
giorno
dopo
giorno
all’indebitamento.
Inoltre
gruppi
di
razzisti,
esasperati
dalla
sconfitta
e
dalla
precaria
situazione
lavorativa,
si
organizzarono
in
sette
come
il "Ku
Klux
Klan"
e
osteggiarono
con
vere
e
proprie
persecuzioni
i
neri
che
tentavano
di
far
valere
i
propri
diritti
da
cittadini
liberi.
Ben
presto
si
cercarono
nuove
forme
di
limitazione
alla
libertà
dei
neri
e la
segregazione
prese
il
posto
delle
catene.
Le
leggi
sulla
segregazione
vennero
introdotte
contemporaneamente
all’esclusione
degli
afroamericani
dai
registri
elettorali.
In
Louisiana,
per
citare
un
esempio,
nel
1896
erano
registrati
nelle
liste
elettorali
130.344
neri,
nel
1900
ce
n’erano
solamente
5.320.
L’intimidazione
e
l’inganno
furono
le
forme
più
adottate
per
costringere
i
cittadini
afroamericani
a
rinunciare
al
loro
diritto.
Le
leggi
di
Jim
Crow
Gli
anni
che
vanno
dal
1877
al
1900
furono
un
periodo
di
nuove
persecuzioni
a
danno
della
popolazione
nera
degli
Stati
Uniti,
sia
nel
Nord
che
nel
Sud
del
paese.
Il
partito
repubblicano,
garante
per
la
libertà
dei
neri,
revocò
il
suo
supporto
nel
1877
sotto
la
presidenza
di
Rutherford
Birchard
Hayes
e
diede
così
al
Sud
bianco
la
libertà
di
decidere
come
comportarsi
con
la
popolazione
afroamericana
ivi
residente.
Abbandonati
dal
governo
federale
e
privati
del
supporto
del
Nord,
i
neri
del
Sud
vennero
ben
presto
condotti
all’impotenza
politica,
oppure
forzati
con
l’intimidazione
e
l’inganno
a
sostenere
delle
linee
politiche
che
andavano
palesemente
contro
i
loro
interessi.
La
privazione
dei
diritti
civili,
portata
avanti
attraverso
la
prepotenza
e la
violenza,
fu
gradatamente
soppiantata
nel
Sud
dall’esclusione
legale
degli
afroamericani
dal
processo
politico.
Il
Mississippi
nel
1890
fu
il
primo
stato
ad
applicare
delle
nuove
restrizioni
al
voto
imponendo
a
ogni
richiedente
di
interpretare
una
parte
della
costituzione
a
gradimento
di
un
ufficiale
di
stato.
Sebbene
a
prima
vista
il
nuovo
provvedimento
non
richiamasse
in
alcun
modo
la
discriminazione
razziale,
era
chiaramente
inteso
e
utilizzato
per
eliminare
i
neri
dalle
liste
elettorali.
Altri
stati
pian
piano
aggiunsero
una
clausola
di
“buona
condotta”
alla
loro
costituzione,
richiedendo
alcuni
che
ciascun
iscritto
alle
liste
elettorali
avesse
una
raccomandazione
da
un
cittadino
di
fiducia
(cioè
un
bianco),
altri
aggiungendo
una
clausola
del
“nonno”
che
stabiliva
che
se
il
nonno
di
un
aspirante
elettore
aveva
votato
nel
1860,
non
era
necessario
soddisfare
i
soliti
requisiti
di
voto,
oppure,
in
alternativa,
un
decreto
che
diceva
che
solo
i
cittadini
bianchi
potevano
partecipare
alle
primarie,
il
che
eliminava
a
tutti
gli
effetti
gli
afroamericani
dalla
vita
politica
nel
Sud
monopartitico.
Alcune
di
queste
restrizioni
sono
state
eliminate
solamente
con
il
Federal
Voting
Act
del
1965.
Insieme
alla
negazione
dei
diritti
civili
giunse
anche
la
segregazione
legalizzata.
Molti
abitanti
del
Sud,
sia
neri
che
bianchi,
appoggiavano
la
separazione
delle
razze
che
aveva
caratterizzato
la
maggior
parte
della
vita
durante
la
Ricostruzione.
Negli
atti
del
Convegno
Nazionale
degli
afroamericani
del
Texas
del
1883
si
legge
che
il
comitato
si
espresse
a
favore
della
separazione
delle
strutture
pubbliche
purché
queste
fossero
realmente
uguali
a
quelle
dei
bianchi
e
non
di
qualità
inferiore.
Ma
il
timore
della
possibile
perdita
dei
propri
privilegi
portò
i
bianchi
ad
imporre
legalmente
delle
restrizioni
alle
attività
degli
afroamericani.
I
primi
casi
di
leggi
segregazioniste
vennero
applicate
nel
campo
del
sistema
educativo.
La
segregazione
sui
mezzi
di
trasporto
arrivò
successivamente,
anche
se
alcuni
stati
del
Sud,
come
la
Florida,
già
nel
1877
prevedevano
che
in
treno
ci
fossero
scompartimenti
separati
per
le
due
razze.
Denominate
“leggi
di
Jim
Crow”
questi
nuovi
ordinamenti
giudiziari
si
rifacevano
ai
“Codici
Neri,”
i
Black
Codes,
imposti
tra
il
1865
e il
1866
che
controllavano
ogni
aspetto
civile
e
legale
della
vita
degli
afroamericani.
Secondo
i
codici,
gli
afroamericani
avevano
l’obbligo
di
lavorare
senza
possibilità
di
scelta
del
luogo
o
del
lavoro
stesso
e se
disoccupati
venivano
accusati
di
vagabondaggio
e
arrestati.
Dei
lavoratori
veniva
regolata
l’intera
giornata
con
orari
di
lavoro,
doveri
e
codici
di
comportamento.
Secondo
i
Black
Codes,
gli
afroamericani
non
avevano
il
permesso
di
spostarsi
da
una
città
all’altra
a
meno
che
non
avessero
un’autorizzazione
scritta.
Dal
1866
i
Black
Codes
furono
aboliti
perché
giudicati
dagli
Ufficiali
Federali
troppo
crudeli.
Ma
pochi
anni
dopo
a
questi
subentrarono
in
forma
quasi
analoga
le
leggi
di
Jim
Crow.
Il
motivo
che
associa
il
nome
“Jim
Crow”
ai
“Black
Codes”
va
ricercato
nell’ambito
teatrale:
Come
listen
all
you
galls
and
boys,
I's
just
from
Tuckyhoe,
I'm
goin
to
sing
a
little
song.
My
name
is
Jim
Crow...
Queste
parole
sono
tratte
dalla
danza
Jump
Jim
Crow
scritta
e
musicata
nel
1828
da
Thomas
Dartmouth
Rice,
meglio
conosciuto
come
“Daddy”
Rice.
Rice,
un
attore
in
cerca
di
fama,
si
trovò
quasi
per
caso
a
interpretare
la
parte
di
un
africano
che
cantava
questa
canzone.
Alcuni
testimoni
dell’epoca
parlano
di
un
vecchio
schiavo
nero
claudicante,
altri
di
un
giovane
straccione.
Ma
poco
importa.
Ciò
che
conta
è
che
nel
1832
Rice
apparve
sul
palcoscenico
nei
panni
di
“Jim
Crow”,
un
personaggio
tanto
esaltato
quanto
stereotipato.
Rice
fu
uno
dei
primi
a
vestire
i
panni
di
un
personaggio
afroamericano,
utilizzando
del
sughero
bruciato
per
annerire
la
sua
pelle.
L’interpretazione
di
Rice
sul
palcoscenico
fu
così
brillante
ed
esilarante
che
gli
assicurò
il
tanto
agognato
successo
portandolo
da
Louisville
a
Cincinnati
a
Pittsburg,
a
Philadelphia
e
infine
a
New
York.
In
seguito,
a
grande
richiesta,
si
esibì
anche
a
Londra
e
Dublino.
Da
quel
momento
“Jim
Crow”
divenne
un
personaggio
di
repertorio
negli
spettacoli
di
varietà
dei
menestrelli
(una
delle
prime
forme
originarie
americane
di
intrattenimento)
insieme
agli
omologhi
“Jim
Dandy”
e
“Zip
Coon”.
Il
pubblico
euroamericano
sembrava
divertito
dal
ritratto
dell’africano
cantante,
ballerino
e
buffone
e
gli
spettacoli
facevano
puntualmente
il
tutto
esaurito.
Sulle
orme
di
Rice,
giustamente
considerato
il
“Padre
dei
Menestrelli
d’America”,
nel
1843
nacquero
i
“menestrelli
della
Virginia”
che
con
violini,
tamburini
e
banjos
imitarono
le
danze
e i
canti
africani
aprendosi
così
la
strada
del
successo.
Il
personaggio
di
“Jim
Crow,”
pigro,
furbo,
imbroglione,
bugiardo
e
ladro,
divenne
col
tempo
l’emblema
dell’afroamericano
come
lo
vedevano
gli
euroamericani
e
ovviamente
la
crescente
popolarità
degli
spettacoli
dei
menestrelli
non
fece
altro
che
favorire
la
diffusione
della
nuova
connotazione
del
termine.
Il
teatro
di
Rice
e
dei
suoi
imitatori
contribuì
a
divulgare
la
convinzione
che
gli
afroamericani
fossero
dei
fannulloni,
sciocchi,
geneticamente
tarati,
la
cui
specie
subumana
li
rendeva
indegni
di
integrazione.
Daddy
Rice,
il
Jim
Crow
originale,
divenne
ricco
e
famoso
grazie
alle
sue
abilità
da
menestrello.
Tuttavia,
condusse
una
vita
stravagante
e
morì
povero
a
New
York
il
19
settembre
1860.
Anche
gli
spettacoli
dei
menestrelli,
che
videro
l’apice
del
loro
successo
tra
il
1850
e il
1870,
persero
via
via
di
importanza
per
scomparire
del
tutto
con
l’avvento
degli
spettacoli
cinematografici
e
poi
della
radio.
Il
nome
“Jim
Crow”,
invece,
continuò
ad
assumere
nuovi
significati
fino
al
1877,
anno
in
cui
vennero
approvate
una
serie
di
statuti
e
leggi
che
segregavano
gli
afroamericani
e
che
operarono
principalmente,
ma
non
esclusivamente,
negli
stati
del
Sud
e in
quelli
limitrofi
fino
alla
metà
del
1960.
Forse
non
è
proprio
un
caso
che
l’epiteto
di
“Jim
Crow”
abbia
assunto
in
seguito
questa
triste
connotazione
segregazionista
dato
che
il
Jim
Crow
teatrale
rappresentava
l’africano
ribelle
che
si
opponeva
alla
figura
servile,
buona
e
infantile
dei
“negri”
degli
anni
della
schiavitù.
Le
“leggi
di
Jim
Crow”
erano
la
chiara
dimostrazione
dell’intenzione
dei
bianchi
di
relegare
e
tenere
ai
margini
della
società
l’africano
pericoloso
e
sovversivo.
La
necessità
di
trovare
una
qualche
giustificazione
all’abominio
della
schiavitù
e
della
segregazione
spingeva
gli
americani
ad
avventurarsi
nel
terreno
della
pseudo-scienza.
Da
qui
le
tesi
della
predominanza
di
una
razza
sull’altra.
Ministri
cattolici
e
teologi
sostenevano
che
i
bianchi
erano
il
popolo
prescelto
da
Dio,
i
neri
erano
condannati
ad
essere
i
loro
servi,
e
che
Dio
sosteneva
la
segregazione
razziale.
Craniologi,
eugenisti,
frenologi,
e
darwinisti,
tentavano
di
trovare
teorie
che
dimostrassero
la
naturale
inferiorità
degli
afroamericani
rispetto
agli
euroamericani,
specie
a
livello
intellettuale.
L’economia
della
piantagione
si
basava
su
una
forza
lavoro
gratuita,
quindi
anche
i
politici
dovevano
sostenere
la
segregazione
razziale,
con
comizi
sui
pericoli
che
un’integrazione
avrebbe
causato:
l’imbastardimento
della
razza
bianca
tra
gli
altri.
Anche
i
giornalisti
ebbero
un
ruolo
determinante
nella
già
precaria
situazione,
fomentando
l’odio
delle
folle
nei
confronti
degli
afroamericani
con
la
pubblicazione
di
articoli
denigratori.
Ad
Atlanta
nel
1906
si
verificò
una
vergognosa
sommossa
razzista
che
durò
parecchi
giorni.
Una
folla
inferocita
e
incontrollata,
accesa
da
vaghi
e
inconsistenti
articoli
sulla
stampa
che
farneticavano
di
donne
bianche
violentate,
infuriò
per
le
strade
picchiando
per
strada
gli
uomini
di
colore
e
violentando
le
donne
afroamericane
per
vendetta.
Morti,
case
distrutte,
beni
saccheggiati
furono
le
tristi
conseguenze
di
questo
increscioso
episodio.
I
pregiudizi
e
l’ideologia
degli
euroamericani
alimentavano
naturalmente
il
tessuto
socio-culturale
che
sostenne
le
“leggi
di
Jim
Crow”
per
un
periodo
così
lungo.
Gli
americani
erano
convinti
della
loro
supremazia
sugli
afroamericani
in
tutte
le
manifestazioni
umane
più
importanti:
l’intelligenza,
l’etica
e il
comportamento
civile.
La
paura
delle
unioni
interrazziali
che
avrebbero
portato
alla
distruzione
della
razza
bianca
rendeva
necessario
l’uso
della
violenza
per
mantenere
l’ordine
morale
ed
evitare
che
si
verificassero
episodi
così
spiacevoli.
Da
qui
la
pratica
del
linciaggio,
la
forma
più
estrema
di
violenza
razziale
che
serviva
da
controllo
sociale
e
intimidazione
al
tempo
stesso.
Il
linciaggio
era
un
evento
abbastanza
comune
nelle
zone
di
frontiera
dell’Ovest
e
nel
Sud.
Ma
mentre
nell’Ovest
del
paese
era
di
solito
conseguenza
dell’assenza
di
tutori
dell’ordine
o
della
loro
debolezza,
al
Sud
vi
si
ricorreva
in
palese
disprezzo
della
legge,
spesso
dopo
un
regolare
processo
e
una
condanna,
per
soddisfare
la
passione
di
alcuni.
Secondo
alcune
indagini
del
periodo
basate
principalmente
sui
resoconti
apparsi
sui
quotidiani
del
tempo,
dal
1°
gennaio
1885
al
1°
giugno
1916
il
numero
dei
linciaggi
ai
danni
degli
afroamericani
furono
2.843,
senza
contare
tutti
gli
episodi
sfuggiti
alla
cronaca.
Di
solito
i
bianchi
giustificavano
la
pratica
del
linciaggio
come
un
mezzo
per
difendere
le
loro
donne
dalle
aggressioni
a
sfondo
sessuale
dei
neri.
Ma
una
ricerca
ha
rivelato
che
nel
periodo
tra
il
1889
e il
1918
solo
un
caso
di
linciaggio
su
sei
era
da
mettere
in
relazione
con
episodi
di
stupro
o
tentato
stupro,
che
la
maggior
parte
delle
persone
accusate
erano
innocenti,
e
che
almeno
una
cinquantina
di
neri
vittime
di
linciaggio
erano
donne,
alcune
addirittura
incinta.
In
realtà
le
cause
che
più
spesso
davano
origine
a un
linciaggio
erano,
nell’ordine,
l’assassinio,
il
furto
e
altri
reati
ai
danni
della
proprietà,
veri
o
presunti
che
fossero.
Spesso
durante
un
linciaggio
si
verificavano
episodi
di
sadismo
con
torture
e
mutilazioni.
Molte
vittime
del
linciaggio
venivano
alla
fine
impiccate
o
sparate,
alcuni
bruciati
al
rogo,
altri
bastonati,
scuoiati
o
smembrati.
W.E.B.
Du
Bois,
attivista,
storico,
saggista,
editore,
poeta
e
direttore
responsabile
per
25
anni
del
periodico
The
Crisis,
l’organo
ufficiale
che
faceva
capo
alla
National
Association
for
the
Advancement
of
the
Colored
People
(NAACP
-
l’Associazione
Nazionale
per
il
Progresso
della
Gente
di
Colore),
diede
ampio
spazio
all’interno
della
sua
rivista
alle
cronache
di
incidenti
a
sfondo
razziale,
particolarmente
a
quelli
di
natura
violenta.
Vivide
descrizioni
di
linciaggi,
sommosse,
gruppi
di
prigionieri
incatenati
gli
uni
agli
altri
e
costretti
ai
lavori
forzati
riempivano
mensilmente
le
pagine
del
giornale.