N. 80 - Agosto 2014
(CXI)
un'utopia lunga un secolo
Jean
Jaurès
e il
pacifismo
di
Giuseppe
Tramontana
Parigi,
il
31
luglio
1914,
è
una
città
accaldata
e
appiccicosa.
Un’estate
normale,
in
fondo,
per
la
capitale
francese,
sommersa
nell’afa
in
questo
periodo
dell’anno.
In
un
caffè
di
Montmartre,
il
Café
du
Croissant,
un
uomo
sta
finendo
di
cenare.
È
seduto
accanto
alla
finestra
aperta,
quella
che
dà
sulla
strada,
per
respirare
un
po’.
Ha
65
anni,
è
barbuto,
elegante
di
una
eleganza
dimessa
ed è
famoso,
in
quel
caffè,
di
cui
è un
abituale
frequentatore,
per
essere
sempre
gentile
e
disponibile
anche
e
soprattutto
coi
camerieri.
Una
cosa,
quest’ultima,
già
allora
abbastanza
rara
per
un
uomo
politico
quale
lui
era.
Alle
21.40
di
quel
31
luglio
1914
un
giovane
di
29
anni,
tale
Raoul
Villain,
fanatico
nazionalista
aderente
alla
Lega
dei
Giovani
Amici
dell’Alsazia-Lorena
(e
perciò
favorevole
alla
guerra
contro
la
Germania),
si
affaccia
dall’esterno
e
spara
due
colpi
di
pistola
contro
quell’uomo
seduto
al
tavolo.
Muore
così
Jean
Jaurès,
l’emblema
del
pacifismo
francese
in
quella
concitata
estate
del
1914,
quando
il
mondo
si
sta
preparando
alla
carneficina
della
Prima
Guerra
Mondiale.
Grande
combattente,
Jaurès.
Laureato
in
filosofia,
autore
di
una
Storia
socialista
della
Rivoluzione
francese,
in
10
volumi,
e di
vari
studi
sul
pensiero
socialista
francese
e
tedesco,
aveva
lottato
per
la
giornata
lavorativa
delle
otto
ore,
approdando
ad
un
socialismo
umanitario,
la
cui
necessità
fu
ribadita
in
un’intensa
attività
giornalistica
svoltasi
sui
quotidiani
Le
Matin,
La
lanterne,
La
petite
république
e,
soprattutto,
L’Humanité,
di
cui
proprio
in
quel
1914
era
stato
uno
dei
fondatori.
Nei
suoi
articoli
Jaurès
aveva
cercato
di
contrastare
le
teorie
razziste
serpeggianti
negli
strati
reazionari
della
stampa
e
del
mondo
politico
francesi,
intervenendo
sui
problemi
più
gravi
del
momento
per
le
istituzioni
repubblicane
della
Francia:
aveva
denunciato
lo
scandalo
di
Panama
(1892),
condannato
gli
attentati
anarchici
e
deplorato
l’ascesa
politica
–
corredata
da
cotanto
tentativo
di
colpo
di
stato
-
del
generale
Boulanger.
Jaurès
aveva
difeso
le
istituzioni
repubblicane
da
chiunque
le
attaccasse,
compresa
quella
parte
del
clero
cattolico
che,
influenzata
da
Leone
XIII,
aveva
auspicato
un’apertura
a
destra
per
abolire
la
stessa
repubblica
parlamentare.
Durante
l’affaire
Dreyfus,
Jaurès
si
era
opposto
alla
linea
rigida
di
Jules
Guesde,
il
vecchio
capo
del
massimalismo
socialista
che
considerava
la
vicenda
un
conflitto
interno
della
borghesia.
Egli,
invece,
aveva
rivolto
un
preciso
invito
agli
operai
affinché
non
rimanessero
estranei
a
quella
storia
nella
quale
venivano
calpestati
i
diritti
dei
cittadini
da
parte
delle
alte
sfere
militari.
La
lotta
operaia
contro
lo
sfruttamento
della
borghesia
avrebbe
ricevuto
anzi
nuovo
vigore,
qualora
si
fosse
svolta
nel
quadro
del
sistema
costituzionale
della
Repubblica.
La
tesi
di
Jaurès
aveva
prevalso,
conducendo
alla
riabilitazione
dell’ufficiale
ebreo
da
parte
del
governo
Waldeck-Rousseau,
il
quale,
nel
1899,
aveva
inaugurato
un
nuovo
corso
nella
storia
della
Terza
Repubblica
per
il
sostegno
dei
radicali
e la
partecipazione
al
suo
governo
del
socialista
Alexandre
Millerand.
Fra
il
1905
e lo
scoppio
della
guerra
mondiale
Jaurès
si
batté
contro
le
conquiste
coloniali
e le
iniziative
belliciste
della
diplomazia
francese,
proponendo
un
pacifismo
che,
oltre
a
riscuotere
largo
consenso
tra
i
lavoratori,
portò
il
partito
socialista
francese
nelle
elezioni
legislative
dell’aprile
1914
a
circa
1
milione
e
400.000
voti.
Era
un
convinto
pacifista,
Jaurès
e
non
si
rassegnò
all’inevitabilità
della
guerra.
E
così
fu
fino
alla
fine
dei
suoi
giorni.
Proprio
la
mattina
di
quel
fatidico
31
luglio
di
cento
anni
fa,
Jaurès
aveva
incontrato
il
sottosegretario
agli
Esteri
francese
Abel
Ferry,
che,
a
bruciapelo,
gli
aveva
detto:
“La
guerra
è
ormai
inevitabile!”.
Il
socialista
non
si
era
scomposto,
assicurandogli
che
avrebbe
continuato
a
lottare
per
la
pace:
“né
guerra
né
rassegnazione,”
aveva
ripetuto,
autocitandosi
da
uno
scritto
del
1887.
“Stia
attento
– lo
aveva
avvertito
Ferry
– la
faranno
fuori
al
primo
angolo
di
strada,”
inconsapevole
del
fatto
che
quell’angolo
–
quello
tra
Rue
de
Montmartre
e
Rue
du
Croissant
–
era
stato
già
scelto
da
Raoul
Villain
per
portare
a
termine
il
suo
progetto
omicida.
Cosa
resta
oggi
di
Jaurès?
Tanto,
a
cominciare
dall’utopia
di
un
mondo
pacificato,
giusto
e
libero.
Resta
–
travasata
in
innumerevoli
associazioni
e
uomini
e
donne
di
buona
volontà
- la
voglia
di
non
arrendersi
alla
logica
della
forza
bruta,
cercando
di
far
valere
la
forza
delle
idee
e
del
buon
senso.
Resta
anche
il
giornale,
L’Humanité.
E
val
la
pena
ricordarlo
proprio
oggi,
31
luglio
2014,
data
dell’ultima
uscita
(sperando
che
sia
solo
una
sospensione)
dell’Unità.
Ma
resta
soprattutto
il
suo
messaggio
pacifista.
“Ogni
popolo
sta
portando
una
fiaccola
ed
alla
fine
si
scatenerà
un
incendio,”
ebbe
a
dire
in
quei
concitati
giorni
dell’estate
1914.
La
previsione
si
rivelò
corretta.
L’incendio
avrebbe
divorato
almeno
10
milioni
di
vite
umane.
E
questo
per
restare
a
quella
tragica
estate.
Ma,
Jaurès
disse
anche
un’altra
cosa
che,
a
più
lunga
scadenza:
“il
capitalismo
porta
la
guerra
come
la
nube
porta
la
tempesta”.
Oggi,
nell’epoca
del
neoliberalismo
truculento
e
trionfante,
sembrano
parole
desuete,
anacronistiche,
persino
ingenue.
Eppure,
forse,
varrebbe
la
pena
rifletterci
un
po’
su.
Di
certo,
in
questi
giorni
dell’anno
2014,
a
cent’anni
dai
colpi
di
pistola
di
Villain
e
mentre
si
consumano
i
tragici
e
crudeli
fatti
di
Gaza,
della
Siria,
della
Libia,
dell’Ucraina
non
si
può
che
rilanciare
la
sua
parola
d’ordine:
“né
guerra
né
rassegnazione!”.
E
così
sia.