Il Jazz in Unione Sovietica
dagli anni VENTI ALLA DESTALINIZZAZIONE
di Alessandra Olivares
L’Unione
Sovietica viene spesso immaginata
come un monolitico agglomerato di
politiche repressive, uno
schiacciasassi che è stato in grado
di macinare non solo milioni di
anime, ma anche ogni possibile
tentativo di indipendente
determinazione degli individui tanto
nel più generale proscenio sociale e
politico, ma in particolare, che è
l’ambito che interessa maggiormente
la presente trattazione, il mondo
artistico. In breve, il
totalitarismo sovietico è stato,
esempio primigenio di questo
genus politico, fagocitatore di
ogni possibile opposizione e
alternativa. Questa breve analisi
sull’arrivo e la parabola
esistenziale del jazz principalmente
nella Russia sovietica, mette in
almeno parzialmente in discussione
la rigidità della realtà sovietica,
almeno per quanto riguarda l’ambito
della produzione artistica musicale
in ambito popolare.
Innanzitutto, è importante fare due
premesse, la prima sull’essenza
dispotica totalitaria dell’Unione
Sovietica, e la seconda sul
potenziale dirompente della musica
jazz e della cultura a questo genere
associata.
L’Unione Sovietica nacque dalle
privazioni della Prima Guerra
Mondiale, dai violenti sommovimenti
tellurici rivoluzionari e da una
brutale guerra civile. Non solo la
popolazione russo-sovietica dovette
abituarsi e in qualche modo
convivere con violenze e privazioni
costanti, ma la leadership
bolscevica consolidò la sua presa al
potere tramite una lotta all’ultimo
sangue, e sulla base di
un’ideologia, quella
marxista-leninista, che forniva loro
una visione strumentale sia degli
individui che di qualsiasi altro
aspetto del vivere sociale che
potesse essere sovrastruttura
dell’economia. Nel periodo della
Guerra Civile e del Comunismo di
Guerra si manifestarono inizialmente
le potenzialità distruttive del
regime, che però si smussarono
considerevolmente con la svolta
rappresentata, sono solo in ambito
produttivo, dalla Nuova Politica
Economica, che lasciava parziali
libertà all’iniziativa degli
individui, sia in ambito economico,
che artistico.
Ma è con la presa del potere da
parte di Stalin e della sua cerchia
più ristretta che l’Unione Sovietica
assunse quei caratteri totalitari a
cui venne comunemente associata: è a
partire dal Primo Piano Quinquennale
e la Rivoluzione Culturale, passando
per le grandi carestie come l’Holodomor
e le Grandi Purghe (ežovščina),
con la costruzione di un universo
concentrazionario, e fino ad
arrivare alla seconda ondata
repressiva del Secondo Dopo Guerra
nota come “campagna
anti-cosmopolita” o anche
ždanovščina, che si costruisce
quel regime brutale e stalinista,
basato sul terrore, che incarnò
effettivamente il totalitarismo
sovietico nella sua versione più
estrema. Con la morte di Stalin e
con la destalinizzazione, il regime
iniziò a perdere i suoi caratteri
peggiori, vivendo un lentissimo
processo di liberalizzazione, e
degrado, che portò le sue
contraddizioni ad esplodere negli
anni ’80, e quindi alla dissoluzione
dell’Unione Sovietica nel ’91.
E
come anticipato precedentemente, la
musica jazz non si presentava
compatibile con le rigidità di un
regime come quello stalinista.
Questo genere nacque a cavallo dei
secoli XIX e XX nel sud degli Stati
Uniti, tra le comunità afroamericane
e creole, che avevano raggiunto
finalmente l’emancipazione dalla
condizione di schiavitù cui erano
stati costretti in momenti
differenti, e ad opera di attori
differenti. Il jazz rappresentò un
fenomeno costituito dal sincretismo
tra le tradizioni religiose e
animistiche, maggiormente legate al
blues e ai ring shouts,
particolari momenti che univano
religiosità e performance artistica
collettiva, e l’educazione musicale
classica e strutturata dei creoli, i
quali, emancipati precedentemente
agli schiavi di proprietà
anglosassone dagli spagnoli e dai
francesi, si sentivano europei ed
erano educati all’europea, furono
forzatamente accumunati ai nuovi
liberati di discendenza africana
dalla legislazione statunitense. Ed
una città in particolare, New
Orleans, fu il terreno perfetto che
permise l’emersione di questa nuova
tendenza. E risalendo il
Mississippi, il jazz si diffuse nel
resto degli Stati Uniti, attecchendo
soprattutto in città come Chicago e
New York, prima di salpare per il
Vecchio Continente.
Ma in cosa consisteva questo jazz
delle origini? Esso era una
commistione di elementi di diretta
derivazione africana, come una
ritmica veloce, incalzante e
particolarmente sincopata, basata
spesso su strutture ternarie
piuttosto che su quelle binarie
tipicamente europee. Inoltre, il
jazz fuoriusciva dal canone armonico
e melodico europeo, e spesso si
spingeva su soluzioni all’epoca
considerate dissonanti, riuscendo a
coniugarsi sulla conoscenza teorica
apportata dai musicisti creoli, che
non solo conoscevano la teoria
musicale, ma erano in grado di
leggere e scrivere in linguaggi
musicali, ed erano magari a
conoscenza delle ultime
sperimentazioni musicali anche
avanguardistiche europee. Ma il vero
elemento di rottura del jazz era
nello stile della performance
partecipativa, improvvisativa e
vocale che cozzava fortemente con lo
stile europeo di rappresentazione
“teatrale”, frontale e passiva dal
lato del pubblico. Nel blues e nel
jazz archetipici non vi è una
separazione tra interprete e
spettatore, entrambi partecipi della
produzione artistica, basata
sull’improvvisazione di una melodia,
di un ritmo, espressione di un
sentimento viscerale.
Nell’evoluzione del genere questo si
tradusse nel virtuosismo solistico,
soprattutto di strumentisti come i
trombettisti e i sassofonisti.
Il Jazz arriva in Unione Sovietica
Il jazz approdò in Europa nella fase
finale della Prima Guerra Mondiale,
principalmente attorno al 1917, al
seguito delle truppe statunitensi,
nei cui battaglioni si formarono
primi complessi musicali che
interpretarono questo genere: questa
nuovo suono si diffuse rapidamente,
arrivando addirittura ad
accompagnare eventi ufficiali
importantissimi come le celebrazioni
associate alla firma dei trattati di
pace, dinanzi a inviati e
personalità politiche e militari di
altissimo livello.
Ma arrivò nella Russia sovietica
solo cinque anni più tardi, per la
situazione di isolamento dovuto dal
conflitto mondiale prima, dalla
Rivoluzione e dalla Guerra Civile
poi, e infine per il cordone
sanitario che venne costruito
attorno a questa nuova entità
rivoluzionaria, per la paura che
l’ondata comunista colpisse
un’Europa sconvolta dalla guerra e
prona al sovvertimento dell’ordine
costituito. Il jazz venne in un
primo momento contrabbandato in URSS
su cilindri di cera su cui vennero
incisi a Londra, da impresari
all’avanguardia, performance
catturate dal vivo dai primi
magnetofoni. Ma la sua diffusione fu
il risultato anche dell’iniziativa
individuale di soggetti carismatici
come l’artista esule di origini
ebraiche Valentin Parnakh, che da
Parigi preparò con una campagna
stampa il suo ritorno in patria
nell’estate del 1922, portando con
sé un armamentario di strumenti
musicali adatti al genere.
Immediatamente fonderà la sua “Prima
Orchestra Eccentrica della
Repubblica Sovietica Federale
Socialista Russa”, con cui ebbe
occasione di suonare ad eventi
ufficiali come il Quinto Congresso
dell’Internazionale Comunista
dell’estate del 1924. Inoltre, dalla
metà degli anni ’20, numerosi
complessi jazz come The Chocolate
Kiddies di Sam Wooding e i
Jazz Kings di Benny Peyton
compirono tournée in Unione
Sovietica.
Il contesto dei primi anni ’20 solo
superficialmente appariva ideale per
lo sviluppo del genere: il fermento
ideologico e artistico di quegli
anni era foriero di un certo grado
di caos e conflittualità,
soprattutto avendo in considerazione
le battaglie portate avanti dai vari
gruppi e associazioni “proletari”,
che professavano per la nuova
società socialista, e per l’arte e
gli artisti nello specifico,
un’adesione parossistica agli ideali
ortodossi del marxismo-leninismo,
veri o presunti che fossero. Tra le
entità che più di tutte si fecero
alfieri di questa lotta spiccano
senza dubbio il Proletkult e
la RAPM, l’Associazione Russa dei
Musicisti Proletari, omologa delle
associazioni proletarie che
operavano in altri ambiti, su tutte
l’Associazione Russa degli Scrittori
Proletari, che forniva il modello
per tutte le altre.
Mentre le sperimentazioni ambito
musicali delle Avanguardie si erano
mosse verso nuove forme che
potessero emanciparsi dal
classicismo romantico di tradizione
germanica, arrivando a ideare una
musica “industriale” basata sui
suoni della fabbrica, e
contemporaneamente proponendo una
nuova visione di orchestra, liberare
dalla gerarchia derivante dalla
figura del direttore (le
Persimfans da Pervij
Simfoničeskij Ansambl’,
esperimenti che ebbero vita breve),
questi soggetti radicali proletari
come la RAPM concentrarono invece le
loro forze per la creazione “in
vitro”, in piena concordanza con il
concetto marxista di sovrastruttura,
di una forma canzone popolare
marziale, quindi basata sul 4/4 e
perfettamente adatta ad una nuova
società industriale, che elevasse e
guidasse i cittadini-lavoratori
nella costruzione del socialismo. La
loro agitmuzyk però non
conquistò mai una popolarità
rilevante, di certo non a paragone
del jazz, che divenne quindi il
bersaglio di campagne dirette contro
la sua presunta sensualità, per le
danze sue “sfrenate”, e per la sua
millantata associazione con il
consumo di droghe e alcool.
Ma con la NEP, con la
liberalizzazione dei consumi e la
libertà lasciata all’iniziativa
personale, che spesso si tradusse
nell’apertura di locali in cui i
complessi jazz poterono esibirsi dal
vivo, la diffusione e la popolarità
del genere aumentarono, sebbene
proprio in quegli anni nascesse
l’associazione che lo legava
negativamente sia alla degradazione
dell’era dei nepmen,
stereotipo stalinista, che alla
degenerazione della moralità propria
del capitalismo. Ad ogni modo, già
dagli anni ’20, il jazz
russo-sovietico soffrì di problemi
che si portò avanti per decenni, in
particolare una certa rigidità
dovuta al piglio più classicista che
dovette darsi, sia per il fatto che
fossero disponibili per lo più
musicisti formati classicamente, sia
perché questo stile più orchestrale
permetteva di sopravvivere più
facilmente alla censura. Inoltre,
l’URSS visse una mancanza cronica di
strumenti musicali adatti al genere,
come i sassofoni, e si dovette
compensare con l’uso di strumenti
classici, archi e fiati, che
contribuirono allo sviluppo più
orchestrale e meno spigliato del
jazz nel paese.
Negli anni ’20, quindi, il jazz non
subì una vera e propria censura
statale, e fino alla fine della NEP
dovette soltanto subire gli attacchi
di quelle associazioni e di quegli
individui che erano espressione
delle frange più radicali del
Partito. Questo, con i suoi organi,
era il portabandiera delle battaglie
ideologiche più violente, mentre gli
organi statali, pur occupati da
uomini del Partito, adottarono una
linea più conciliatoria e
“liberale”.
Gli anni ’30 e la Seconda Guerra
Mondiale
Con il lancio del Primo Piano
Quinquennale e della campagna di
collettivizzazione delle campagne,
la stretta del regime stalinista si
fece sempre più forte, che con la
collettivizzazione delle campagne
liquidò qualsiasi forma di
resistenza nella aree rurali
dell’Unione, permettendo
quell’accumulazione originaria di
capitale necessario
all’industrializzazione, e riuscendo
con la Rivoluzione Culturale a
sbarazzarsi di qualsiasi forma di
opposizione tecnica e intellettuale
che potesse derivare dagli
specialisti formatisi in periodo
zarista. Al ’33, alla fine delle
grandi carestie, il regime aveva già
deportato un numero spropositato di
persone, ponendo le basi per la
creazione di quell’«Arcipelago
Gulag», quella rete di campi
prigionia sparsi negli angoli più
remoti della Siberia, edificati sul
ghiaccio ad opera dei poveri
disgraziati forzatamente trasferiti
nei primi anni del decennio. Ma è
con le Grandi Purghe che il fenomeno
gulag raggiunse dimensioni
ragguardevoli, arrivando a
contenere, secondo alcune stime,
almeno un milione di internati già
negli anni ’30. Le Grandi Purghe
furono la messa in pratica del
Terrore, in precedenza rivolto
contro il mondo contadino, contro lo
stesso Stato, contro la leadership
politica, militare e intellettuale,
e per sbarazzarsi di coloro che
furono coinvolti nelle violenze
della collettivizzazione, al fine di
stabilizzare il regime stalinista e
creare una nuova base di consenso
fondata sulla paura, sulla
diffidenza e sulla devozione
derivante dall’ascesa sociale di una
nuova classe dirigente.
In ambito culturale, il regime
stalinista si sbarazzò delle varie
associazioni proletarie imponendone
lo scioglimento tramite decreto,
facendo però proprie le loro
posizioni, che vennero sintetizzate
nel nuovo concetto di “Realismo
Socialista”, cioè l’idea di un’arte
che fosse «nazionale nelle forme e
socialista nei contenuti». In ambito
musicale, il Realismo Socialista
consistette nel ritorno al
classicismo romantico come canone
estetico indissolubile, almeno per
quanto riguardasse la musica alta,
con la campagna anti-formalista
lanciata contro l’opera “Lady
Macbeth del Distretto di Mcensk” di
Šostakovič, che servi come esempio
di come i contenuti di un lavoro
artistico, oltre che l’aspetto
strettamente musicale, potessero non
essere conformi ai dettami marxisti.
Il Realismo Socialista, essendo
definito in maniera fumosa e
malleabile, si prestava
perfettamente alle esigenze
propagandistiche e repressive che il
regime di volta in volta si trovava
a dover esaudire.
Tuttavia, il jazz non fu bersaglio
di campagne particolarmente violente
nei suoi confronti nel corso degli
anni ’30, anzi molte fonti
sottolineano che in proporzione al
resto della popolazione carceraria o
internata nei gulag, la componente
di musicisti jazz fosse
particolarmente sottorappresentata.
Evidenze storiografiche propongono
addirittura diversi episodi in cui
gli amministratoti di alcuni campi,
su tutti il tristemente noto campo
di Magadan, formassero dei complessi
jazz per il loro personale
intrattenimento. Ancora, diverse
personalità di spicco della
leadership sovietica risulta fossero
degli appassionati ascoltatori di
jazz.
Difatti, ancora una volta non ci fu
una vera e propria censura attiva
nei confronti del genere, ma si
trattò piuttosto di un’autocensura
operata dagli stessi musicisti sulla
base di liste pubblicate dagli
organi censori, liste contenenti i
brani che potessero essere
interpretati o meno. Inoltre,
l’attitudine orchestrale, e quindi
decisamente meno swing e incalzante
rispetto alle controparti
occidentali, dei complessi jazz
sovietici si accentuò ulteriormente
in questo periodo, mettendoli
parzialmente al riparo da ulteriori
critiche.
Con lo scoppio della Seconda Guerra
Mondiale, le attenzioni del regime
vennero naturalmente rivolte allo
sforzo bellico, e alle arti venne
lasciato uno spazio mai conosciuto
precedentemente, soprattutto perché
spontaneamente queste supportarono
nei modi che poterono la lotta
feroce che le truppe sostennero al
fronte. Non solo, numerosissimi
furono i casi di bande jazz inviate
nei pressi del fronte o delle prime
linee allo scopo di distrarre le
truppe e fornire loro qualche forma
di intrattenimento. Inoltre, la
liberalizzazione del jazz fu anche
il risultato del momento di idillio
vissuto tra l’URSS e gli Alleati, in
particolare gli USA, almeno finché
Roosevelt restò in vita. Con la
presidenza Truman e l’alba della
Guerra Fredda le cose cambiarono
almeno parzialmente.
Guerra Fredda, ždanovščina e
destalinizzazione
Sul finire della Seconda Guerra
Mondiale gli Alleati si
trasformarono in avversari, ed il
rischio di un nuovo conflitto su
scala mondiale, stavolta che potesse
combattersi anche attraverso
armamenti nucleari, rimase sempre
costante e presente nella mente
tanto dei leader quanto dei
cittadini di ogni nazione. Da
entrambi i lati dello schieramento,
ogni elemento alieno e straniero
venne posto in discussione, e
un’intera campagna anti-cosmopolita
venne lanciata in Unione Sovietica,
soprattutto per liquidare
pretestuosamente quegli individui
che potessero avere legami con i
nuovi nemici: furono gli anni della
dottrina Ždanov, dal ’46 fino alla
morte di Stalin.
Naturalmente il jazz visse una
posizione difficile a questo
riguardo, e lontani erano gli anni
della guerra in cui poté essere
suonato e ascoltato in totale
libertà. Ma al tempo stesso,
l’Unione Sovietica viveva dei
processi di cambiamenti
generazionali inevitabili e
inarrestabili, e i giovani che negli
anni ’20 avevano supportato o
apprezzato il genere, divennero
spesso la nuova leadership Partito,
portando ad un’inevitabile
normalizzazione del genere che con
la morte di Stalin, e soprattutto
con la destalinizzazione si compì
completamente, questo nonostante
Chruščëv avesse fatto palese il suo
disprezzo per questo genere in
diverse occasioni. Ma a differenza
degli anni di Stalin, ciò non si
tradusse in violente campagne
persecutorie.
Inoltre, gli Stati Uniti iniziarono
ad utilizzare il jazz come mezzo di
propaganda, come colonna sonora
della libertà vissuta al di qua
della Cortina di Ferro, utilizzando
antenne come Radio Free Europe e
Voice of America, proiettate verso
l’Europa dell’Est, e che
riproducevano questa musica in
continuazione. Oltre questo scopo
politico, queste radio permisero a
migliaia e migliaia di giovani
musicisti sovietici, o esteuropei in
generale, di ascoltare i classici
del genere, e trascriverli,
sviluppando un’abilità in questo
campo senza paragoni. Quindi si può
affermare che parte dello sviluppo
del jazz nel mondo socialista si
dovette all’azione diretta degli
Stati Uniti.
Conclusioni
Il jazz rappresentò quindi un
fenomeno unico in Unione Sovietica:
nato nella patria del moderno
capitalismo, la cui diffusione
dipese proprio dall’iniziativa
commerciale di impresari spesso
senza scrupoli, arrivò a diffondersi
in una realtà completamente agli
antipodi come l’Unione Sovietica.
Qui il jazz venne ad un tempo
accusato di essere una musica
degenerata, che spingeva a danze
erotiche e all’uso di sostanze che
alteravano la percezione, con accuse
di primitivismo e tribalismo che non
nascondevano una certa dose di
razzismo nei confronti degli
afroamericani, ma anche indicato
come la musica di fratelli appena
scappati dalla schiavitù ma ancora
oppressi dal capitalismo, compagni
nella lotta per l’emancipazione
delle masse. Il jazz venne sia
accusato di essere un elemento
alieno che deviava i lavoratori
dalla loro elevazione, sia indicato
come una forma musicale
spontaneamente popolare nella massa
della cittadinanza sovietica, al
contrario di quella costruita
appositamente per quello scopo.
In breve, il jazz ci permette di
ponderare come l’idea di un’Unione
Sovietica concepita, anche nei suoi
anni più bui, come un enorme campo
di prigionia e lavori forzati a
cielo aperto, abbia dei limiti, e
che non abbia corrisposto
completamente a quella che fu la
realtà dei fatti; e che anzi vi fu
spazio, almeno residuale, per la
discussione sull’esistenza di un
elemento totalmente alieno, e
potenzialmente contrario alla
dottrina ideologica dominante.
Riferimenti bibliografici: