[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

182 / FEBBRAIO 2023 (CCXIII)


arte

Il Jazz in Unione Sovietica

dagli anni VENTI ALLA DESTALINIZZAZIONE

di Alessandra Olivares

 

L’Unione Sovietica viene spesso immaginata come un monolitico agglomerato di politiche repressive, uno schiacciasassi che è stato in grado di macinare non solo milioni di anime, ma anche ogni possibile tentativo di indipendente determinazione degli individui tanto nel più generale proscenio sociale e politico, ma in particolare, che è l’ambito che interessa maggiormente la presente trattazione, il mondo artistico. In breve, il totalitarismo sovietico è stato, esempio primigenio di questo genus politico, fagocitatore di ogni possibile opposizione e alternativa. Questa breve analisi sull’arrivo e la parabola esistenziale del jazz principalmente nella Russia sovietica, mette in almeno parzialmente in discussione la rigidità della realtà sovietica, almeno per quanto riguarda l’ambito della produzione artistica musicale in ambito popolare.

 

Innanzitutto, è importante fare due premesse, la prima sull’essenza dispotica totalitaria dell’Unione Sovietica, e la seconda sul potenziale dirompente della musica jazz e della cultura a questo genere associata.

 

L’Unione Sovietica nacque dalle privazioni della Prima Guerra Mondiale, dai violenti sommovimenti tellurici rivoluzionari e da una brutale guerra civile. Non solo la popolazione russo-sovietica dovette abituarsi e in qualche modo convivere con violenze e privazioni costanti, ma la leadership bolscevica consolidò la sua presa al potere tramite una lotta all’ultimo sangue, e sulla base di un’ideologia, quella marxista-leninista, che forniva loro una visione strumentale sia degli individui che di qualsiasi altro aspetto del vivere sociale che potesse essere sovrastruttura dell’economia. Nel periodo della Guerra Civile e del Comunismo di Guerra si manifestarono inizialmente le potenzialità distruttive del regime, che però si smussarono considerevolmente con la svolta rappresentata, sono solo in ambito produttivo, dalla Nuova Politica Economica, che lasciava parziali libertà all’iniziativa degli individui, sia in ambito economico, che artistico.

 

Ma è con la presa del potere da parte di Stalin e della sua cerchia più ristretta che l’Unione Sovietica assunse quei caratteri totalitari a cui venne comunemente associata: è a partire dal Primo Piano Quinquennale e la Rivoluzione Culturale, passando per le grandi carestie come l’Holodomor e le Grandi Purghe (ežovščina), con la costruzione di un universo concentrazionario, e fino ad arrivare alla seconda ondata repressiva del Secondo Dopo Guerra nota come “campagna anti-cosmopolita” o anche ždanovščina, che si costruisce quel regime brutale e stalinista, basato sul terrore, che incarnò effettivamente il totalitarismo sovietico nella sua versione più estrema. Con la morte di Stalin e con la destalinizzazione, il regime iniziò a perdere i suoi caratteri peggiori, vivendo un lentissimo processo di liberalizzazione, e degrado, che portò le sue contraddizioni ad esplodere negli anni ’80, e quindi alla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel ’91.

 

E come anticipato precedentemente, la musica jazz non si presentava compatibile con le rigidità di un regime come quello stalinista. Questo genere nacque a cavallo dei secoli XIX e XX nel sud degli Stati Uniti, tra le comunità afroamericane e creole, che avevano raggiunto finalmente l’emancipazione dalla condizione di schiavitù cui erano stati costretti in momenti differenti, e ad opera di attori differenti. Il jazz rappresentò un fenomeno costituito dal sincretismo tra le tradizioni religiose e animistiche, maggiormente legate al blues e ai ring shouts, particolari momenti che univano religiosità e performance artistica collettiva, e l’educazione musicale classica e strutturata dei creoli, i quali, emancipati precedentemente agli schiavi di proprietà anglosassone dagli spagnoli e dai francesi, si sentivano europei ed erano educati all’europea, furono forzatamente accumunati ai nuovi liberati di discendenza africana dalla legislazione statunitense. Ed una città in particolare, New Orleans, fu il terreno perfetto che permise l’emersione di questa nuova tendenza. E risalendo il Mississippi, il jazz si diffuse nel resto degli Stati Uniti, attecchendo soprattutto in città come Chicago e New York, prima di salpare per il Vecchio Continente.

 

Ma in cosa consisteva questo jazz delle origini? Esso era una commistione di elementi di diretta derivazione africana, come una ritmica veloce, incalzante e particolarmente sincopata, basata spesso su strutture ternarie piuttosto che su quelle binarie tipicamente europee. Inoltre, il jazz fuoriusciva dal canone armonico e melodico europeo, e spesso si spingeva su soluzioni all’epoca considerate dissonanti, riuscendo a coniugarsi sulla conoscenza teorica apportata dai musicisti creoli, che non solo conoscevano la teoria musicale, ma erano in grado di leggere e scrivere in linguaggi musicali, ed erano magari a conoscenza delle ultime sperimentazioni musicali anche avanguardistiche europee. Ma il vero elemento di rottura del jazz era nello stile della performance partecipativa, improvvisativa e vocale che cozzava fortemente con lo stile europeo di rappresentazione “teatrale”, frontale e passiva dal lato del pubblico. Nel blues e nel jazz archetipici non vi è una separazione tra interprete e spettatore, entrambi partecipi della produzione artistica, basata sull’improvvisazione di una melodia, di un ritmo, espressione di un sentimento viscerale. Nell’evoluzione del genere questo si tradusse nel virtuosismo solistico, soprattutto di strumentisti come i trombettisti e i sassofonisti.

 

Il Jazz arriva in Unione Sovietica

 

Il jazz approdò in Europa nella fase finale della Prima Guerra Mondiale, principalmente attorno al 1917, al seguito delle truppe statunitensi, nei cui battaglioni si formarono primi complessi musicali che interpretarono questo genere: questa nuovo suono si diffuse rapidamente, arrivando addirittura ad accompagnare eventi ufficiali importantissimi come le celebrazioni associate alla firma dei trattati di pace, dinanzi a inviati e personalità politiche e militari di altissimo livello.

Ma arrivò nella Russia sovietica solo cinque anni più tardi, per la situazione di isolamento dovuto dal conflitto mondiale prima, dalla Rivoluzione e dalla Guerra Civile poi, e infine per il cordone sanitario che venne costruito attorno a questa nuova entità rivoluzionaria, per la paura che l’ondata comunista colpisse un’Europa sconvolta dalla guerra e prona al sovvertimento dell’ordine costituito. Il jazz venne in un primo momento contrabbandato in URSS su cilindri di cera su cui vennero incisi a Londra, da impresari all’avanguardia, performance catturate dal vivo dai primi magnetofoni. Ma la sua diffusione fu il risultato anche dell’iniziativa individuale di soggetti carismatici come l’artista esule di origini ebraiche Valentin Parnakh, che da Parigi preparò con una campagna stampa il suo ritorno in patria nell’estate del 1922, portando con sé un armamentario di strumenti musicali adatti al genere. Immediatamente fonderà la sua “Prima Orchestra Eccentrica della Repubblica Sovietica Federale Socialista Russa”, con cui ebbe occasione di suonare ad eventi ufficiali come il Quinto Congresso dell’Internazionale Comunista dell’estate del 1924. Inoltre, dalla metà degli anni ’20, numerosi complessi jazz come The Chocolate Kiddies di Sam Wooding e i Jazz Kings di Benny Peyton compirono tournée in Unione Sovietica.

 

Il contesto dei primi anni ’20 solo superficialmente appariva ideale per lo sviluppo del genere: il fermento ideologico e artistico di quegli anni era foriero di un certo grado di caos e conflittualità, soprattutto avendo in considerazione le battaglie portate avanti dai vari gruppi e associazioni “proletari”, che professavano per la nuova società socialista, e per l’arte e gli artisti nello specifico, un’adesione parossistica agli ideali ortodossi del marxismo-leninismo, veri o presunti che fossero. Tra le entità che più di tutte si fecero alfieri di questa lotta spiccano senza dubbio il Proletkult e la RAPM, l’Associazione Russa dei Musicisti Proletari, omologa delle associazioni proletarie che operavano in altri ambiti, su tutte l’Associazione Russa degli Scrittori Proletari, che forniva il modello per tutte le altre.

 

Mentre le sperimentazioni ambito musicali delle Avanguardie si erano mosse verso nuove forme che potessero emanciparsi dal classicismo romantico di tradizione germanica, arrivando a ideare una musica “industriale” basata sui suoni della fabbrica, e contemporaneamente proponendo una nuova visione di orchestra, liberare dalla gerarchia derivante dalla figura del direttore (le Persimfans da Pervij Simfoničeskij Ansambl’, esperimenti che ebbero vita breve), questi soggetti radicali proletari come la RAPM concentrarono invece le loro forze per la creazione “in vitro”, in piena concordanza con il concetto marxista di sovrastruttura, di una forma canzone popolare marziale, quindi basata sul 4/4 e perfettamente adatta ad una nuova società industriale, che elevasse e guidasse i cittadini-lavoratori nella costruzione del socialismo. La loro agitmuzyk però non conquistò mai una popolarità rilevante, di certo non a paragone del jazz, che divenne quindi il bersaglio di campagne dirette contro la sua presunta sensualità, per le danze sue “sfrenate”, e per la sua millantata associazione con il consumo di droghe e alcool.

 

Ma con la NEP, con la liberalizzazione dei consumi e la libertà lasciata all’iniziativa personale, che spesso si tradusse nell’apertura di locali in cui i complessi jazz poterono esibirsi dal vivo, la diffusione e la popolarità del genere aumentarono, sebbene proprio in quegli anni nascesse l’associazione che lo legava negativamente sia alla degradazione dell’era dei nepmen, stereotipo stalinista, che alla degenerazione della moralità propria del capitalismo. Ad ogni modo, già dagli anni ’20, il jazz russo-sovietico soffrì di problemi che si portò avanti per decenni, in particolare una certa rigidità dovuta al piglio più classicista che dovette darsi, sia per il fatto che fossero disponibili per lo più musicisti formati classicamente, sia perché questo stile più orchestrale permetteva di sopravvivere più facilmente alla censura. Inoltre, l’URSS visse una mancanza cronica di strumenti musicali adatti al genere, come i sassofoni, e si dovette compensare con l’uso di strumenti classici, archi e fiati, che contribuirono allo sviluppo più orchestrale e meno spigliato del jazz nel paese.

 

Negli anni ’20, quindi, il jazz non subì una vera e propria censura statale, e fino alla fine della NEP dovette soltanto subire gli attacchi di quelle associazioni e di quegli individui che erano espressione delle frange più radicali del Partito. Questo, con i suoi organi, era il portabandiera delle battaglie ideologiche più violente, mentre gli organi statali, pur occupati da uomini del Partito, adottarono una linea più conciliatoria e “liberale”.

 

Gli anni ’30 e la Seconda Guerra Mondiale

 

Con il lancio del Primo Piano Quinquennale e della campagna di collettivizzazione delle campagne, la stretta del regime stalinista si fece sempre più forte, che con la collettivizzazione delle campagne liquidò qualsiasi forma di resistenza nella aree rurali dell’Unione, permettendo quell’accumulazione originaria di capitale necessario all’industrializzazione, e riuscendo con la Rivoluzione Culturale a sbarazzarsi di qualsiasi forma di opposizione tecnica e intellettuale che potesse derivare dagli specialisti formatisi in periodo zarista. Al ’33, alla fine delle grandi carestie, il regime aveva già deportato un numero spropositato di persone, ponendo le basi per la creazione di quell’«Arcipelago Gulag», quella rete di campi prigionia sparsi negli angoli più remoti della Siberia, edificati sul ghiaccio ad opera dei poveri disgraziati forzatamente trasferiti nei primi anni del decennio. Ma è con le Grandi Purghe che il fenomeno gulag raggiunse dimensioni ragguardevoli, arrivando a contenere, secondo alcune stime, almeno un milione di internati già negli anni ’30. Le Grandi Purghe furono la messa in pratica del Terrore, in precedenza rivolto contro il mondo contadino, contro lo stesso Stato, contro la leadership politica, militare e intellettuale, e per sbarazzarsi di coloro che furono coinvolti nelle violenze della collettivizzazione, al fine di stabilizzare il regime stalinista e creare una nuova base di consenso fondata sulla paura, sulla diffidenza e sulla devozione derivante dall’ascesa sociale di una nuova classe dirigente.

In ambito culturale, il regime stalinista si sbarazzò delle varie associazioni proletarie imponendone lo scioglimento tramite decreto, facendo però proprie le loro posizioni, che vennero sintetizzate nel nuovo concetto di “Realismo Socialista”, cioè l’idea di un’arte che fosse «nazionale nelle forme e socialista nei contenuti». In ambito musicale, il Realismo Socialista consistette nel ritorno al classicismo romantico come canone estetico indissolubile, almeno per quanto riguardasse la musica alta, con la campagna anti-formalista lanciata contro l’opera “Lady Macbeth del Distretto di Mcensk” di Šostakovič, che servi come esempio di come i contenuti di un lavoro artistico, oltre che l’aspetto strettamente musicale, potessero non essere conformi ai dettami marxisti. Il Realismo Socialista, essendo definito in maniera fumosa e malleabile, si prestava perfettamente alle esigenze propagandistiche e repressive che il regime di volta in volta si trovava a dover esaudire.

 

Tuttavia, il jazz non fu bersaglio di campagne particolarmente violente nei suoi confronti nel corso degli anni ’30, anzi molte fonti sottolineano che in proporzione al resto della popolazione carceraria o internata nei gulag, la componente di musicisti jazz fosse particolarmente sottorappresentata. Evidenze storiografiche propongono addirittura diversi episodi in cui gli amministratoti di alcuni campi, su tutti il tristemente noto campo di Magadan, formassero dei complessi jazz per il loro personale intrattenimento. Ancora, diverse personalità di spicco della leadership sovietica risulta fossero degli appassionati ascoltatori di jazz.

 

Difatti, ancora una volta non ci fu una vera e propria censura attiva nei confronti del genere, ma si trattò piuttosto di un’autocensura operata dagli stessi musicisti sulla base di liste pubblicate dagli organi censori, liste contenenti i brani che potessero essere interpretati o meno. Inoltre, l’attitudine orchestrale, e quindi decisamente meno swing e incalzante rispetto alle controparti occidentali, dei complessi jazz sovietici si accentuò ulteriormente in questo periodo, mettendoli parzialmente al riparo da ulteriori critiche.

 

Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, le attenzioni del regime vennero naturalmente rivolte allo sforzo bellico, e alle arti venne lasciato uno spazio mai conosciuto precedentemente, soprattutto perché spontaneamente queste supportarono nei modi che poterono la lotta feroce che le truppe sostennero al fronte. Non solo, numerosissimi furono i casi di bande jazz inviate nei pressi del fronte o delle prime linee allo scopo di distrarre le truppe e fornire loro qualche forma di intrattenimento. Inoltre, la liberalizzazione del jazz fu anche il risultato del momento di idillio vissuto tra l’URSS e gli Alleati, in particolare gli USA, almeno finché Roosevelt restò in vita. Con la presidenza Truman e l’alba della Guerra Fredda le cose cambiarono almeno parzialmente.

 

Guerra Fredda, ždanovščina e destalinizzazione

 

Sul finire della Seconda Guerra Mondiale gli Alleati si trasformarono in avversari, ed il rischio di un nuovo conflitto su scala mondiale, stavolta che potesse combattersi anche attraverso armamenti nucleari, rimase sempre costante e presente nella mente tanto dei leader quanto dei cittadini di ogni nazione. Da entrambi i lati dello schieramento, ogni elemento alieno e straniero venne posto in discussione, e un’intera campagna anti-cosmopolita venne lanciata in Unione Sovietica, soprattutto per liquidare pretestuosamente quegli individui che potessero avere legami con i nuovi nemici: furono gli anni della dottrina Ždanov, dal ’46 fino alla morte di Stalin.

Naturalmente il jazz visse una posizione difficile a questo riguardo, e lontani erano gli anni della guerra in cui poté essere suonato e ascoltato in totale libertà. Ma al tempo stesso, l’Unione Sovietica viveva dei processi di cambiamenti generazionali inevitabili e inarrestabili, e i giovani che negli anni ’20 avevano supportato o apprezzato il genere, divennero spesso la nuova leadership Partito, portando ad un’inevitabile normalizzazione del genere che con la morte di Stalin, e soprattutto con la destalinizzazione si compì completamente, questo nonostante Chruščëv avesse fatto palese il suo disprezzo per questo genere in diverse occasioni. Ma a differenza degli anni di Stalin, ciò non si tradusse in violente campagne persecutorie.

 

Inoltre, gli Stati Uniti iniziarono ad utilizzare il jazz come mezzo di propaganda, come colonna sonora della libertà vissuta al di qua della Cortina di Ferro, utilizzando antenne come Radio Free Europe e Voice of America, proiettate verso l’Europa dell’Est, e che riproducevano questa musica in continuazione. Oltre questo scopo politico, queste radio permisero a migliaia e migliaia di giovani musicisti sovietici, o esteuropei in generale, di ascoltare i classici del genere, e trascriverli, sviluppando un’abilità in questo campo senza paragoni. Quindi si può affermare che parte dello sviluppo del jazz nel mondo socialista si dovette all’azione diretta degli Stati Uniti.

 

Conclusioni

 

Il jazz rappresentò quindi un fenomeno unico in Unione Sovietica: nato nella patria del moderno capitalismo, la cui diffusione dipese proprio dall’iniziativa commerciale di impresari spesso senza scrupoli, arrivò a diffondersi in una realtà completamente agli antipodi come l’Unione Sovietica. Qui il jazz venne ad un tempo accusato di essere una musica degenerata, che spingeva a danze erotiche e all’uso di sostanze che alteravano la percezione, con accuse di primitivismo e tribalismo che non nascondevano una certa dose di razzismo nei confronti degli afroamericani, ma anche indicato come la musica di fratelli appena scappati dalla schiavitù ma ancora oppressi dal capitalismo, compagni nella lotta per l’emancipazione delle masse. Il jazz venne sia accusato di essere un elemento alieno che deviava i lavoratori dalla loro elevazione, sia indicato come una forma musicale spontaneamente popolare nella massa della cittadinanza sovietica, al contrario di quella costruita appositamente per quello scopo.

In breve, il jazz ci permette di ponderare come l’idea di un’Unione Sovietica concepita, anche nei suoi anni più bui, come un enorme campo di prigionia e lavori forzati a cielo aperto, abbia dei limiti, e che non abbia corrisposto completamente a quella che fu la realtà dei fatti; e che anzi vi fu spazio, almeno residuale, per la discussione sull’esistenza di un elemento totalmente alieno, e potenzialmente contrario alla dottrina ideologica dominante.

 

 

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