N. 48 - Dicembre 2011
(LXXIX)
Itinerari mediterranei
Un mare di pace e di dialogo, di scambi culturali e commerciali
di Paola Radici Colace
Recensione di Itinerari mediterranei. Simboli e immaginario fra mari isole e porti, città e paesaggi ebrei cristiani e musulmani nel Decameron di Giovanni Boccaccio, a firma Enrico Costa e con prefazione di Renato Nicolini (Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria 2011).
“Può
chi
si
occupa
di
Urbanistica,
e di
tutto
ciò
che
circonda
la
disciplina,
ignorare
il
rapporto
cinema
città,
può
non
aver
mai
visto
Metropolis,
né
Mani
sulla
Città,
o
recarsi
a
New
York
senza
ricercare
i
luoghi
del
cinema
di
Woody
Allen
o
addirittura
ignorare
il
così
detto
‘Teatro
Urbano’,
dal
dramma
attico
del
quinto
secolo
aC a
Brecht?”
È la
domanda
che,
nella
prima
colonna
della
quarta
di
copertina,
con
abile
tecnica
di
anticipazione,
Enrico
Costa
pone
al
lettore
abituato
agli
steccati
rassicuranti
che
chiudono
in
un
sistema
asfittico
discipline
e
saperi.
La
domanda
è
retorica
e la
risposta,
implicita,
è
‘no’.
Un
‘no’
che
poggia
sull’autorevolezza
di
Vitruvio,
famoso
architetto
romano
e
autore
del
trattato
De
architectura,
che
sovrimponeva
ai
vari
saperi
dell’uomo
il
sapere
dell’architettura,
paragonando
l’opera
di
chi
costruisce
monumenti
e
ponti,
immagina
città
e
spazi
all’attività
divina
che
ha
plasmato
il
mondo,
ed
individuava
nell’architetto,
necessariamente
dotato
di
una
vasta
cultura,
costruita
con
l’apporto
di
moltissime
discipline
e
dei
più
vari
saperi
(Architecti
est
scientia
pluribus
disciplinis
et
variis
eruditionibus
ornata,
Vitr.
De
arch.
1,
1)
il
doppio
dell’artifex
che
ha
creato
il
mondo.
È
quanto
suggerisce
Costa
nella
stessa
colonna,
quando
pone,
nei
toni
di
una
lunga
domanda
un’altra
evidence
della
sua
professione:
“Basta
il
sapere
tecnico
a
urbanisti,
paesaggisti,
architetti
e
ingegneri?
“
Anche
in
questo
caso
la
risposta
e
‘no’,
con
la
spiegazione
che
i
temi
del
paesaggio
non
sono,
restrittivamente,
appannaggio
di
specialisti,
ma
passano
attraverso
la
musica
(Bellini,
Verdi,
Puccini,
Vivaldi,
Wagner
e
Gershwin),
la
pittura
(ad
es,
gli
scorci
paesaggistici
dei
quadri
di
Antonello
da
Messina),
il
cinema
e il
Teatro
Urbano
dal
dramma
attico
del
V
secolo
a
Brecht.
Ben
conscio
di
aver
sfidato,
con
Itinerari
Mediterranei,
i
codici
dei
generi
letterari
e
anticipando
con
una
tecnica
di
guided
interpretation
pericolosi
travisamenti
interpretativi,
Costa
pone
nella
seconda
colonna
della
quarta
di
copertina
una
serie
di
domande.
Cominciando
dalla
prima,
onnicomprensiva
e
complessa
“Cos’è
Itinerari
Mediterranei?”.
Anche
qui,
l’interpretazione
autentica
dell’autore
comunica
che
la
sua
avventura
sulle
sponde
di
questo
mare
trova
una
rispondenza
ed
una
attualità
non
con
il
Mediterraneo
dei
mostri
e
degli
animali
fantastici
(vd.
P.
Radici
Colace,
Mito,
scienza
e
mare:
animali
fantastici,
mostri
e
pesci
nel
bacino
del
mediterraneo,
“
Mito
&
Scienza”,
Messina
1999),
che
da
Omero
a
Virgilio,
passando
attraverso
le
Argonautiche
di
Apollonio
Rodio,
è
stato
teatro
di
lotte
epiche
di
eroi
mitici
contro
i
mille
mostri
di
questo
mare.
Il
Mediterraneo
di
cui
Costa
parla
nel
suo
libro
è il
mare
dove
poteva
vivere
e
prosperare
una
società
come
quella
mercantile
del
trecento,
multietnica
e
multiculturale
che
inglobava
il
Sud
e il
Nord
del
mondo
allora
conosciuto,
l’Est
e
l’Ovest.
Una
società,
che
per
le
sue
caratteristiche
di
forte
integrazione,
di
scambi
e di
movimento,
è
quella
più
somigliante
e
vicina
al
nostro
odierno
mondo
globalizzato.
Parodiando
Dante,
Costa
potrebbe
dire
di
sé
“Io
non
Ulisse,
io
non
Enea
sono”,
ma
il
suo
andare
a
spasso
per
il
Mediterraneo
tenendo
in
mano
il
Decameron
di
Boccaccio,
pur
all’interno
di
un’opera
come
Itinerari,
che
ha
la
cifra
della
letteratura
creativa,
diventa
una
ristrutturazione
critica
dell’opera
trecentesca,
rivista
alla
luce
di
un
elemento-chiave,
lo
‘spazio’
e
rivissuta
con
gli
occhi
della
‘fortuna’
postuma
che
l’opera
ebbe,
incluse
le
produzioni
cinematografiche:
fino
al
più
alto
esempio
costituito
dal
Decameron
di
Pasolini,
che
ha
visto
in
Boccaccio
un
trionfo
della
carnalità
concreta
di
corpi
e
rapporti
umani,
da
contrapporre
alla
vita
di
plastica
della
società
consumistica
dei
suoi
e
dei
nostri
tempi
(p.
50).
Di
Itinerari
si
potrebbe
dire
che
è
un’autobiografia
dell’avventura
culturale
nella
misura
in
cui
il
protagonista
è
l’autore/io-narrante,
che
nasce,
vive
e
lavora
nel
Mediterraneo,
muovendosi
sulle
sue
coste
da
Nord
a
Sud,
da
Est
a
Ovest,
facendo
parlare
i
luoghi
"ventriloquamente"
con
le
parole
del
Decameron.
Ma
si
può
anche
dire
che
la
lettura
del
Decameron
non
rimane
allo
stadio
della
curiosità
adolescenziale
dei
primi
contatti
scolastici
o
alla
memoria
nostalgica
che
l’autore
prova
per
i
luoghi
della
propria
infanzia,
calata
nel
Mediterraneo
(Messina,
Reggio,
Napoli).
Proprio
“nel
Trecento,
il
secolo
di
Giovanni
Boccaccio
e
del
Decameron,
si
era
costruito
il
paesaggio
percepito,
e
poi
trasformato,
a
partire
dal
Quattrocento”
(p.
17):
una
interiorizzazione
della
dimensione
spaziale,
che
convive
con
la
creazione
della
prospettiva
e
della
tridimensionalità,
chiudendo
l’epoca
delle
rappresentazioni
medievali
a
due
dimensioni
e
delle
figure
schiacciate
su
uno
spazio
chiuso
e
impenetrabile.
Ma è
nella
convivenza
di
più
Mediterranei
(quello
di
Fernand
Braudel,
di
Predrag
Matvejević,
di
Franco
Cassano
e di
Piero
Camporesi)
con
quello
di
Boccaccio
che
l’autore
trova
il
“suo”
Mediterraneo,
anche
se
all’interno
di
questa
stratificazione
la
guida
scelta
è
l’autore
del
Decameron,
con
la
sua
geografia
di
luoghi,
storie
e
persone,
insieme
realtà
e
simboli
dell’immaginario,
che
viene
fuori
dalle
spumeggianti
cento
novelle,
scritte
in
quella
lingua
medievale
che
la
distanza
temporale,
però
annullabile
da
splendide
traduzioni
dell’italiano
di
oggi
(A.
Busi),
fa
estranea
e
difficile.
Il
libro
diventa
quindi
il
risultato
di
una
costruzione,
lungo
tutta
la
vita
(da
liceale
a
studente,
da
laureato
a
giovane
professionista
emigrato
nel
Nord
Africa
ed
infine
affermato
Professore
dell’Universita
Mediterrranea
di
Reggio
Calabria),
di
una
mappa
geografico-letteraria,
in
cui
la
selezione
rintraccia
nel
Decameron
gli
itinerari
dell’autore,
“itinerari
‘miei’
in
quanto
coincidenti
con
le
‘miè
tappe
mediterranee,
i
luoghi
e i
paesaggi
dove
ho
lavorato,
studiato
e
ricercato”,
rivisti
attraverso
la
lente
magica
della
commedia
umana
del
Decameron.
Tante
tappe,
in
cui
il
centro
è
Napoli,
con
la
sua
carnalità,
con
la
sua
multi
etnicità
e
voglia
di
vivere,
sottolineata
dall’adozione
del
dialetto
napoletano
nel
Decameron
di
Pasolini.
In
Itinerari
si
intercala
un
io
narratore
e un
io
critico,
tra
amarcord
e
filtri
di
letture
alte,
in
quella
che
i
titoli
dei
vari
capitoli
denunciano
come
un’
autobiografia:
“Al
liceo
cercavo,
e
trovavo,
narrazioni
su
Messina
e
Reggio
Calabria,
su
Napoli,
la
Campania
e la
Ciociaria”
(p.
31);
“Da
studente
di
architettura
a
Messina
e
Reggio
Calabria,
poi
ad
Atene,
Istanbul
e
Smirne,
verso
l’Armenia,
attraverso
la
Cappadocia
e la
Cilicia”
(p.
67);
“Le
mie
esperienze
di
lavoro:
Sousse,
Tunisi
e
dintorni”
(p.
81);
“Dopo
la
Tunisia,
l’Università
a
Reggio,
i
viaggi
fatti,
quelli
rifatti,
e
quelli
mai
fatti”
(p.91);
“
E
infine,
Gerusalemme”
(p.105).
Con
una
strana
malía,
non
si
sa
quanto
calcolata,
il
toponimo,
eterno
spazio
di
contese
e
potenziale
miraggio
di
avvicinamento
e di
pace,
rimanda
al
primo
capitolo
del
libro,
“Introibo,
ovvero
Avvicinamento”
(p.
13),
la
cui
funzione
prefatoria
mette
a
nudo
che
Itinerari
Mediterranei
non
è il
divertissement
di
un
professore
colto,
che
conosce
benissimo,
ovviamente
oltre
la
disciplina
che
professa,
la
letteratura
italiana,
la
cultura
contemporanea,
il
cinema,
la
musica,
le
arti
figurative.
Le
due
pagine,
che
parlano
di
fatti
avvenuti
nei
paesi
del
Mediterraneo
in
un
tempo
così
vicino
a
noi
(Grecia
sull’orlo
del
fallimento,
Spagna
e
Portogallo
scontente
e in
fermento,
Italia
in
caduta
verticale,
la
rivoluzione
dei
gelsomini,
il
prevedibile
crollo
di
Ben
Alì
e la
cacciata
dal
Cairo
di
Mubarak,
l’incertezza
della
situazione
in
Algeria,
e un
po’
meno
incerta
in
Marocco,
oltre
alla
tragedia
libica
prossima
all’epilogo),
fanno
capire
che
Costa
ha
osservato
con
occhio
attento
questo
mare,
misurandone
i
movimenti
preoccupanti
e i
problemi.
Itinerari
diventa
così
un
inno,
fatto
da
un
Homo
Mediterraneus
a un
mare
amato,
nonostante
il
sottile
dolore
stemperato
in
un
augurio
che
è
politico
e
sociale,
lanciato
sulle
ali
di
una
speranza
resistente
nonostante
tutto:
“Il
Mediterraneo
–
quel
mare
che
non
sarà
e
non
potrà
più
essere
quello
di
prima
–,
in
tanti
lo
vorremmo
mare
di
pace
e di
dialogo.
Di
scambi
culturali
e
commerciali.
Com’è
stato
per
lunghi
tratti
della
storia”.