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N. 81 - Settembre 2014 (CXII)

Il Triennio Rivoluzionario in Italia
parte I - Prove di democrazia negli antichi stati italiani

di Giacomo Zanibelli

 

Il riformismo settecentesco si attenuò contemporaneamente all’affermarsi in Francia della Rivoluzione e per il timore suscitato da questa nei governi europei.

 

Tale situazione destò nella borghesia ed in parte della nobiltà e del clero un notevole malcontento, spingendo molti ad una posizione di rottura rispetto al sistema politico-sociale vigente.

 

L’irrequietezza e l’attesa furono particolarmente vive nelle masse popolari, specie contadine, che vivevano da sempre nella fame e nella miseria e che vedevano nel movimento rivoluzionario il sogno di una vita più bella e ambivano ai suoi risvolti pratici: la ridistribuzione della terra e l’abolizione di ogni qualsivoglia diritto feudale.

 

Questo clima di fervore politico ebbe risvolti immediati anche nella penisola italiana, producendo una frattura in tutta la società, che si divise tra coloro che respingevano completamente la Rivoluzione e coloro che aderivano, solo parzialmente, ai suoi principi.

 

Tra il 1789 ed il 1796 i gruppi borghesi, che nel successivo triennio rivoluzionario saranno alla testa del movimento democratico e giacobino, non riuscirono a far penetrare le loro idee al di fuori di una ristretta cerchia intellettuale e cittadina.

 

La borghesia innovatrice non seppe far presa sulla maggior parte della popolazione restando legata, troppo in astratto, ai nuovi principi di democratizzazione, finendo così per essere troppo debole per imporre un decisivo cambio di rotta.

 

I gruppi giacobini, legati alle sorti delle armate francesi, non seppero stabilire un legame forte con le masse popolari rurali, le uniche che avrebbero potuto portare un contributo fondamentale alle sorti del movimento rivoluzionario sorto nella penisola.

 

Anche una parte della classe nobiliare mostrò in questo periodo di parteggiare per la rivoluzione, più per interesse di classe che per i principi rivoluzionari. La nobiltà, essendo sotto l’influenza austriaca, aveva sentito la pressione della forte centralità asburgica. Tale atteggiamento trova una conferma nel fatto che nel 1790, quando i francesi  si affacciavano sulle Alpi, buona parte della nobiltà non si impegnò a fondo contro la Francia.

 

Da tempo lo spirito nuovo riscuoteva simpatie anche in alcuni ambienti ecclesiastici, dove l’insegnamento Giansenista aveva preparato ad una “Democrazia-Clericale”. Molti chierici si prestavano a sostenere la democrazia con le massime religiose e ne proclamavano il Vangelo come codice primo. Alcuni che avevano acquisito una posizione importante, lasceranno una traccia del proprio pensiero nell’azione legislativa della Cisalpina e nell’opera di conversione democratica. Gregorio Fontana, professore a Pavia, sarà nel comitato redattore di una costituzione per nomina di Bonaparte. Luigi Bossi, canonico del Duomo, entrerà nel corpo legislativo.

 

L’ambiente ecclesiastico, non quello delle alte gerarchie, era vicino ai novatori e contro ai nobili che occupavano le maggiori cariche all’interno della Chiesa.

 

Gli ambienti moderati, espressioni della nobiltà e della grande borghesia terriera, non erano contrari ai principi costituzionali, ma temevano che la rivoluzione degenerasse come in Francia, arrivando ad intaccare il concetto di proprietà e dei diritti reali. La difesa della proprietà era comune a molti gruppi moderati e porterà alla nascita della Società dei Raggi.

 

Nel 1795-1796, con la sconfitta del movimento contadino e giacobino in Francia, questi timori vennero meno e la penisola italiana divenne alla mercé del Direttorio.

 

I Giacobini Italiani

 

Il movimento giacobino italiano è stato forse uno dei rami più vigorosi su scala europea: le idee rivoluzionarie arrivarono nella penisola grazie ai “lumi” e alle loro idee innovatrici. Il giacobinismo che si sviluppò nei primi anni della rivoluzione non fu solo un “partito” dell’attesa, ma anche delle cospirazioni e dei complotti.

 

La conquista francese, a partire dal 1796, e il progressivo allargamento di quest’occupazione a tutta la penisola fino al 1798 aprono il campo a un giacobinismo a viso scoperto, in grado, attraverso la sua rete organizzativa di assumere il potere senza condividerlo, quanto meno di indirizzarlo nel margine di libertà che gli lascia la tutela francese. (M. Vovelle, 2009, p. 95)

 

Questo giacobinismo pur restando un fenomeno elitario cercò di proporsi anche alle masse attraverso l’uso dei giornali e lo sviluppo di una propaganda pedagogica all’interno dei suoi circoli e club.

 

Ruolo fondamentale per la diffusione delle idee giacobine lo ebbe la stampa. Si assistette, infatti, ad una vera esplosione di periodici e opuscoli di carattere politico: i giornali acquisirono il ruolo di veri e propri centri di discussione politica e di dibattito tra patrioti, mentre i periodici, fioriti tra il 1789 ed il 1796, sono da considerarsi come i precursori del giornalismo di opinione che sorgerà nel corso del triennio rivoluzionario.

 

In questo periodo un ruolo importante fu svolto dalla stampa di provincia che, secondo Carlo Capra, è stata troppo spesso ignorata e sottovalutata dagli studiosi del triennio.

 

All’arrivo dei primi venti rivoluzionari nella penisola, i giacobini italiani speravano che la Francia esportasse i suoi valori di libertà e di uguaglianza creando una grande nazione italiana. Matteo Galdi, scrittore giacobino italiano, era fiducioso di questo, tanto che nel 1798 all’interno di un saggio, scrisse: "L’Italia libera e la Francia fisseranno su queste eterne basi indistruttibili l’edifizio de’ loro rapporti politico-economici che serviranno una volta di norma e di esempio a tutte le nazioni in tutti i secoli. L’Italia libera, in segno d’inalterabile amicizia e di gratitudine, consacrerà con pubblici monumenti e con quattro feste nelle quattro stagioni dell’anno le principali epoche politiche e guerriere che contribuirono alla libertà francese e per cui la Francia rese libera l’Italia. I francesi faranno altrettanto per richiamare la dolce rimembranza e il sentimento sublime di aver liberato un popolo dalla schiavitù". (I. Tognarini, 1977. pp. 125-126)

 

Nel triennio rivoluzionario i giacobini italiani svolsero un ruolo di primo piano sotto molti punti di vista anche se non riuscirono far presa sulle comunità rurali. Emblematico è un dialogo scritto dal sacerdote Luigi Martini di Monsummano che vede come protagonisti un parroco ed un contadino:

CONTADINO: Volevo ben dire! Dunque non è il popolo che comanda!

PARROCO: Pazienza Benedetta! Il sig. conte ordina al fattore di fare un argine, il fattore, che non sa far gli argini, ordina a nome del conte al capo d’opere di far l’argine, il capo d’opere ordina ai contadini che facciano l’argine. Chi comanda in questo lavoro.

CONTADINO: Eh il sig. conte.

PARROCO: E lo stesso segue delle leggi. Il popolo ordina agli elettori di fare delle leggi che non siano contrarie alla costituzione, gli elettori dicono ai deputati fatele; ma è sempre il popolo che comanda. (Ivi, p. 128)

 

I patrioti cercarono in tutti i modi di portare avanti i loro ideali, pur tra mille difficoltà come quella dell’incomprensione con le campagne.

 

I loro progetti naufragarono in parte proprio grazie a coloro in cui riponevano grandissime speranze: i Francesi, che non erano interessati a creare una Repubblica Italiana ma, piuttosto, un territorio di influenza francese.

 

Con l’armistizio di Cherasco del 28 Aprile 1796, concluso da Bonaparte con il Piemonte, Vittorio Amedeo III cedeva alla Francia Nizza e la Savoia e permetteva che il Piemonte divenisse una base per le ulteriori operazioni francesi nell’Italia settentrionale.

 

La Pace di Parigi, seguita a tale armistizio, salvò momentaneamente la monarchia sabaudia, ma rappresentò una grave delusione per i più attivi patrioti italiani, i quali, nei mesi precedenti l’offensiva di Bonaparte, avevano preparato un piano per instaurare la repubblica in Piemonte, come primo passo per la liberazione di tutta l’Italia.

 

Un gruppo di esuli esistente a Nizza, diretto dal Pellisseri e dal Bonafous, in contatto con i patrioti rimasti in Piemonte e con altri residenti a Genova, come il Safi, il Vitaliani e probabilmente il Ranza, aveva predisposto d’accordo con il generale Augereau, un piano di rivoluzione in Piemonte. Quindi si era rivolto al Buonarroti, allora a Parigi, affinché ottenesse l’appoggio del Direttorio, ma il tentativo fallì a causa della congiura di Babeuf, il 21 Floreale IV (10 Maggio 1796).

 

Nel frattempo, il 26 Aprile 1796, Augereau entrò nella città di Alba, abbandonata pochi giorni prima dalle truppe regie; qui, dove gli elementi giacobini erano numerosi, venne costituita una municipalità, con a capo il Bonafous ed il Ranza.

 

I capi del movimento consideravano Alba come primo passo verso la liberazione d’Italia. Ma il Bonaparte, concluso l’armistizio, non aveva più interesse, almeno per il momento, ad appoggiare i patrioti piemontesi. Inviò ad Alba il generale Serurier il quale modificò la composizione della municipalità, introducendovi sette membri del Consiglio esistente prima dell’occupazione.

 

Il 6 Maggio 1796, il Bonafous, pur mantenendo la carica di “maire”, dovette, con tutta la municipalità, fare atto di sottomissione alla Repubblica Francese. Questo tentativo, sebbene avesse come primo scopo la creazione della repubblica in Piemonte, ebbe già un carattere nazionale piuttosto spiccato, e poteva definirsi tendenzialmente unitario perché tale rivoluzione era vista dai patrioti come un punto di partenza per un rivolgimento che doveva investire tutta l’Italia. Il progetto portato avanti dal Buonarroti e dai suoi seguaci per il Piemonte si fondava sul presupposto di modificare il meno possibile gli ordinamenti preesistenti: "Lo scopo principale di questo progetto è dunque di introdurre meno novità che sia possibile, di limitarsi a quelle assolutamente indispensabili; non si è però trascurato di spargere qua e là i germi di una legislazione più avanzata affinché il popolo, dal poco che viene annunciato, possa aspettarsi in seguito riforme ancora più benefiche". (C. Capra, 1978, Torino, p. 42)

 

Il piano predisposto dal Buonarroti e dai suoi compagni  fallì per l’armistizio di Cherasco, tuttavia stabilì un legame, che poi si conservò a lungo, tra gli elementi più avanzati e decisi del patriottismo italiano e l’estrema ala sinistra democratica francese. Così il giacobinismo, declinante, ma non morto in Francia, diveniva suscitatore di energie nazionali e democratiche in Italia.

 

A Milano la “Società popolare”, costituitasi prima dell’entrata dei francesi, per opera di Carlo Salvador, con lo scopo di ottenere la proclamazione di una Repubblica Lombarda sul tipo Francese, fornì alla nuova municipalità molti elementi democratici.

 

La preferenza accordata da Bonaparte a quest’ultimi fu dovuta al fatto che essi si mostravano decisi nel sostenere i Francesi dai quali speravano di ottenere la proclamazione della repubblica; inoltre davano maggiori garanzie di fedeltà degli aristocratici moderati, come il Melzi, antiaustriaci, ma ancora incerti a prendere una posizione definitiva.

 

Il 14 Novembre 1796 i patrioti di Milano, riunitisi al Teatro della Cannobiana, proclamarono l’indipendenza della Lombardia e la loro intenzione di combattere al fianco dei francesi, ma quest’ultimi delusero le loro aspettative, facendo arrestare i capi del moto, tra i quali il Salvador e l’Aurora.

 

Da qui si evince un cambiamento nella politica italiana del Bonaparte: egli, infatti, cominciava a dare le sue preferenze ad elementi moderati. Ciò dimostra che per Bonaparte la “guerra rivoluzionaria” o “di liberazione” fu solo uno strumento propagandistico, atto a facilitargli le operazioni militari e, di conseguenza, a rendergli possibile di realizzare la sua politica personale e di imporla al Direttorio.

 

Dopo i primi successi militari, Bonaparte abbandonò i suoi “propositi” rivoluzionari, limitandosi a favorire il partito rivoluzionario solo là dove gli conveniva creare dualismi di potere che, neutralizzando vicendevolmente rivoluzionari e moderati, gli davano mano libera, riuscendo così a creare governi e municipalità ligi ai suoi voleri.

 

Perciò la politica del Direttorio e del Bonaparte, dal punto di vista italiano, non si differenziarono: miravano entrambe ad impadronirsi delle ricchezze e delle posizioni italiane, senza curarsi delle aspirazioni sia del popolo sia dei veri democratici italiani.

 

Inoltre erano decisi ad impedire che si creassero governi popolari, per poter disporre della penisola, nelle trattative da condurre con i governi in guerra con la Francia, come di una merce di scambio. I francesi perseguirono questa politica: legare a sé i nobili e gli abbienti in genere, coloro cioè che più avrebbero scapitato dall’instaurazione di governi democratici e giacobini.

 

è dunque la novità repubblicana che genera in Italia la prima, nuova politica unitaria, poiché al di fuori di essa, nessuno parlava di unificazione e di rinnovamento dei vecchi stati, tanto meno la ricca borghesia e la nobiltà terriera, che avevano tutto l’interesse a mantenere un programma moderato, che garantisse loro il potere.

 

Sotto questa luce, pertanto, vanno visti i tentativi democratici di Alba, in Piemonte e della Lombardia. Ben presto avvenne una frattura tra Francia ufficiale e repubblicani italiani: non erano più il Direttorio, l’armata d’Italia, che potevano assicurare le libertà rivoluzionarie alla penisola; ciò aveva una chiara conferma nel trattato di Campoformio.

 

L’avversione dei repubblicani italiani per le imposizioni di politica estera del Direttorio, non poteva non essere comune con l’opposizione giacobina di Parigi. Perciò si stabilì subito un’alleanza tra le due tendenze democratiche, a cui fece riscontro, ad esempio in Lombardia, quella della classe conservatrice con gli emissari del Direttorio, per arrestare gli slanci giacobini degli unitari.

 

Ma queste alleanze non andavano prese in maniera assoluta, comportavano delle riserve: infatti da una parte sorsero dei contrasti tra il Direttorio e l’ala destra dei moderati cisalpini. Il Melzi ed il Marescalchi, ambasciatore a Vienna, si adoperavano per ottenere, con il consenso dell’Austria e della Francia, un ingrandimento della Cisalpina con il Piemonte e con la Liguria e la sua trasformazione in un regno da affidarsi ad un principe della casa borbonica di Spagna.

 

Queste manovre non riuscirono, ma sono indicative dello spirito che animava l’ala destra dei moderati cisalpini, composta di aristocratici e ricchi borghesi, ostili  al regime repubblicano ed inclini ad una monarchia costituzionale, in cui prevalesse il loro ceto.

 

Comunque anch’essi erano insofferenti della tutela francese, che giudicavano troppo pesante finanziariamente e pericolosa politicamente, a causa della persistente ostilità austriaca. D’altra parte la vicinanza degli “anarchistes” italiani ai giacobini francesi rimase preordinata all’opposizione al Direttorio, ai fini delle libertà costituzionali e dell’indipendenza della patria, regionale o nazionale, comunque fosse considerata. Perciò gli unitari in Italia non avevano vere rivendicazioni sociali.

 

L’azione politica dei giacobini, consapevole fin dall’inizio dell’importanza di assecondare almeno le più elementari richieste popolari, si fece col tempo sempre più decisa in questo senso.

 

Tale consapevolezza fu presente in tutte le più importanti iniziative politiche intraprese dai nostri giacobini, in quella di Alba ed in quella di Pallanza nel 1796, negli avvenimenti milanesi del novembre del ’96, negli sforzi del Serio e del Russo per fare approvare dall’assemblea napoletana l’abolizione della feudalità.

 

La grande maggioranza dei giacobini in Italia rappresentava la borghesia, prevalentemente terriera. Quindi in essa era forte il timore di una democrazia troppo avanzata, che avrebbe potuto trasformare la lotta politico-costituzionale in una rivoluzione contadina e giacobina, portando mutamenti strutturali nelle campagne.

 

Con ciò non si vuol togliere nulla al pensiero socialmente avanzato di taluno degli “utopisti e riformatori”, tra i quali il Buonarroti nel movimento di Alba nel ’96. Si vuole solo avanzare l’ipotesi della eccezionalità del loro contributo, che non giunse a far breccia ed a generalizzarsi nella compagine della politica militante, attratta dai più immediati obiettivi dell’indipendenza nazionale e delle prime libertà rivoluzionarie.

 

A differenza della Francia, dove il sistema repubblicano si basava sull’unitarietà di uno stato già preesistente, l’Italia in quanto stato non esisteva e quindi risultava difficile che le idee rivoluzionarie e di unità repubblicana trovassero un vasto consenso nella penisola, che era divisa da particolarismi regionali.

 

La molteplicità delle repubbliche isolate in Italia poteva essere causa di guerra tra Francia ed Austria, poiché la debolezza dell’Italia divisa avrebbe attirato nella penisola la potenza vicina, mentre un’Italia unita avrebbe concorso all’equilibrio europeo: questa era l’opinione di taluni ambienti repubblicani di Parigi nella metà del ’97, ancora seguaci delle ideologie dell’ ’89, che propugnavano la libertà dei popoli oppressi e la formazione di repubbliche sorelle alla Francia.

 

Non era tanto l’immaturità degli italiani, quanto il pericolo, che ne sarebbe potuto derivare, che consigliava i governanti francesi a tenere lontano dall’Italia l’insegnamento della rivoluzione. Il tradimento della politica rivoluzionaria si consolidava in quella dei compensi, lo dimostra Campoformio: infatti il Direttorio, anziché scalzare il governo dei “tiranni”, si proponeva di rispolverare i vecchi regimi come aveva consigliato il Lacretelle.

 

Charles Lacretelle, giornalista francese di tendenza monarchica, nel giornale “Nouvelles Politiques” di Parigi, pubblicò tra il ’96 ed il ’97 numerosi articoli contrari all’unificazione ed alla democratizzazione d’Italia. Sosteneva che l’unico interesse della Francia nella penisola doveva essere quello di eliminare o di indebolire il predominio austriaco; che i patrioti italiani erano giacobini pericolosi e, dal suo punto vista conservatore, non aveva torto, perché  gli uomini più decisi in senso unitario erano i democratici più avanzati, che si ispiravano al ’93 francese.

 

Erano dei giacobini, influenzati dal Buonarroti, come Matteo Galdi, o degli utopisti sociali, come l’Aurora. Tra i patrioti italiani si fece strada l’idea unitaria e federalista: da una parte il Galdi sosteneva che la Lombardia avrebbe dovuto far parte della repubblica italiana, una ed indivisibile.

 

Dall’altra il Ranza era convinto che si dovessero costituire undici repubbliche federate: ligure, piemontese, lombarda, dell’Adria, dell’Arno, del Tevere, del Vesuvio, di Sicilia, di Sardegna, di Corsica, di Malta. Inoltre affermava che il federalismo era necessario in Italia per le differenze esistenti da secoli nei “costumi”, nelle “massime” e nei “dialetti” tra le varie zone.

 

Tale tendenza federalistica tra gli uomini politici italiani del momento trova la sua spiegazione nel fatto che tra i patrioti c’erano borghesi dalle idee moderate, oppure nobili che ostentavano idee avanzate. Quindi tra le loro aspirazioni c’era il desiderio di un’autonomia regionale che garantisse loro il potere, più che la formazione di una repubblica italiana, con il possibile pericolo della partecipazione al potere di altre classi sociali.

 

Bonaparte, tra il 20 ed il 21 Giugno 1796, ordinò che a Bologna e a Ferrara, entrambe occupate dalle truppe francesi, i poteri fossero assunti dagli esistenti organi comunali. Volle far leva così sui sentimenti municipali, assai forti nelle città emiliane, ed appoggiarsi soprattutto sull’aristocrazia e sull’alta borghesia, che prevalevano in quei consessi.

 

L’analisi politica compiuta dal Bonaparte in una lettera inviata al Direttorio il 28 Dicembre 1796 rispecchia pienamente il progetto politico da lui voluto per Bologna e Ferrara: "Le Repubbliche cispadane sono divise in tre partiti: 1° gli amici dei loro antichi governi; 2° i partigiani di una costituzione indipendente, ma un po’ aristocratica; 3° partigiani della costituzione francese o della pura democrazia. Io comprimo il primo, sostengo il secondo e modero il terzo. Sostengo il secondo e modero il terzo perché il partito dei secondi è quello dei ricchi proprietari e dei preti che in ultima analisi finirebbe col trascinarsi dietro la massa del popolo, che è essenziale guadagnare al partito francese. L’ultimo partito è composto di giovani, di scrittori e di uomini che, come in Francia e dappertutto, cambiano di governo e amano la libertà solo per fare una rivoluzione". (Ivi, p. 52)

 

Alla rivoluzione reggiana seguì, il 6 Ottobre, da parte francese, l’occupazione di Modena, dove fu costituito un Comitato di governo esteso poi anche a Reggio, non senza le proteste da parte di tale città.

 

Con la caduta degli antichi governi a Bologna, Ferrara, Reggio, Modena, in quest’ultima fu tenuto un congresso, dal 21 Gennaio al 1° Marzo ’97, per l’istituzione della Repubblica Cispadana. Esso fu sostanzialmente un’assemblea costituente, l’unica italiana del triennio 1796-1799, perché le costituzioni di tutte le altre repubbliche vennero preparate o dai francesi o da comitati non eletti dal popolo, ma nominati dai governi provvisori.

 

Nel complesso la Costituzione Cispadana riprodusse quella francese del ’95, accentuandone il carattere conservatore. Le finanze stremate dalle contribuzioni di guerra provocarono agitazioni reazionarie a Bologna e a Ferrara, democratiche a Reggio, dove si verificò  una marcia di contadini sulla città per ottenere l’abolizione dell’enfiteusi rendendo precario l’ordine pubblico.

 

Bonaparte si accorse ben presto che la Cispadana era dominata dai preti e dai nobili, che potevano costituire un’eventuale minaccia; perciò si preparava a smembrarla sulla base di quanto aveva deciso nei preliminari di Leoben in vista delle trattative per la pace definitiva con l’Austria. Aveva ormai deciso di fondare la Repubblica Cisalpina in Lombardia (proclamata il 29 Giugno’97), così stabilì di aggregarle i territori di Reggio, Modena, della Garfagnana, di Massa e Carrara.

 

Anche Ferrara chiedeva l’ammissione e nella stessa Bologna, pur gelosa della sua funzione di capitale, si manifestava tale tendenza da parte dei democratici e dei più avveduti moderati. Successivamente seguivano il loro esempio Bergamo, Brescia e la Valtellina: così la nuova repubblica segnava un passo avanti nel vecchio frazionamento italiano, ma la sua formazione si accompagnò a gravi delusioni e sconfitte per il patriottismo italiano e le tendenze unitarie. Infatti la costituzione della Cisalpina non fu elaborata da un’assemblea, ma imposta da Bonaparte e fu una traduzione di quella francese del 1795, come si nota nelle costituzioni delle altre repubbliche italiane.

 

Le ragioni che spinsero Napoleone ad imporre la costituzione, a nominare di sua scelta i membri del Direttorio e del Corpo legislativo, vanno individuate in primo luogo nel timore che i democratici, più forti a Milano che nelle città cispadane, potessero prevalere nella nuova repubblica, qualora si fosse proceduto ad elezioni per una Costituente, oppure del Corpo legislativo.

 

In secondo luogo, nel timore di intralci o di interferenze dei patrioti italiani nella politica estera, proprio mentre Bonaparte conduceva le non facili trattative per la pace definitiva con l’Austria. Perciò aveva bisogno che nella Cisalpina ci fossero uomini molto maneggevoli, era più opportuno che vi prevalessero i moderati, o comunque persone ostili ad ogni tentativo di attaccare seriamente gli interessi dell’aristocrazia terriera e dell’alta borghesia.

 

Tra il ’97 ed il ’99 si compì la delusione delle aspirazioni italiane, soprattutto con la cessione di Venezia all’Austria attraverso il trattato di Campoformio. Inoltre l’atteggiamento del Direttorio nei confronti dell’Italia, contrario ad una sistemazione democratica ed unitaria; le contribuzioni, le requisizioni, a cui si aggiunsero le ruberie ed i saccheggi dei generali e dei fornitori; l’armata d’Italia, che pesava sulle finanze dei paesi conquistati ed inviava a Parigi ricchezze in denaro, metalli preziosi, opere d’arte, contribuirono a creare uno stato d’animo di forte ostilità nei riguardi della Francia.

 

Lo spirito antifrancese degli unitari italiani non investiva tutta la Francia, ma si volgeva contro quella ufficiale, rappresentata dal Direttorio e dai suoi commissari ed agenti civili, i quali consideravano  l’Italia come una terra di conquista, da tenere divisa e sotto tutela.

 

Maggior fiducia i patrioti unitari e democratici davano ad alcuni generali di origine popolare, come Brune, Joubert, Championnet, ostili al Direttorio ed ai suoi agenti civili.

 

Tale fiducia non era certo mal riposta se si pensa ai ben quattro colpi di stato della Cisalpina, che inizialmente dovevano rivolgersi contro il Corpo legislativo, il quale aveva mostrato un’opposizione ai voleri francesi. In realtà questi piani del Direttorio finirono per favorire i democratici della Cisalpina proprio attraverso l’aiuto proveniente dal Brune (nel 1° colpo di stato), dal Fouchè (nel 3° colpo di stato), dal Joubert, che fu sostituito subito dallo Schérer, di idee moderate e mediocre generale.

 

Bisogna però diffidare di un’identità di vedute tra unitari e generali, tranne per Championnet e Joubert. Per lo più si trattava di un’alleanza d’occasione per minare le basi della dominazione politica del Direttorio.

 

I cambiamenti forzati di soldatesche nella Repubblica Cisalpina, ai tempi del dominio di Trouvé, di Brune e di Rivaud, la diffidenza degli agenti francesi nei confronti degli unitari, avevano generato la società segreta, con istanze unitarie, dei “Raggi”.

 

Il fatto che la società svolgesse la sua azione in un ambiente militare attraverso cui si collegava ad alcuni dei generali francesi, simpatizzanti per la libertà italiana, fa pensare che proprio di indipendenza politica territoriale si occupassero in primo luogo gli oppositori italiani del Direttorio.

 

L’8 Fruttidoro ’98 Faipoult scrisse a Talleyrand di una cospirazione antifrancese in Italia. La situazione si fece più difficile: la si deve riconnettere con l’insofferenza del mondo giacobino francese per il comportamento del Direttorio, sempre meno tollerante delle libertà repubblicane.

 

Gli uomini del vecchio “comité” di Babeuf  capeggiavano il movimento, che non si limitava alla Francia, ma cercava di sfruttare i malcontenti e le aspettative di liberazione nelle terre occupate. Si progettava un moto giacobino che sarebbe dovuto esplodere contemporaneamente in Francia ed altrove, ovunque il Direttorio avesse i suoi emissari.

 

Del 23 Dicembre ’98 fu la denuncia anonima giunta ai governanti francesi, che proveniva forse da uno degli ufficiali del generale Lahoz, lombardo, comandante dell’esercito cisalpino ed esponente del movimento democratico ed unitario. Questi era accusato di tramare con altri l’esecuzione del “piano”, ordito dallo scaduto Direttorio cisalpino: trucidare i nuovi membri del governo graditi a Parigi, trasferire la maggioranza dei Consigli a Bologna, mentre il Lahoz con la divisione riunita a Modena, si sarebbe opposto a qualunque atto ostile delle truppe francesi.

 

Nelle due repubbliche del ’98, la Ligure e la Romana, si verificarono fenomeni e tendenze simili a quelli della Cisalpina: contribuzioni, requisizioni e saccheggi da parte dei francesi, difficoltà finanziarie, divisione dei repubblicani in democratici e moderati, tendenza unitaria prevalente tra i democratici, favore dei francesi accordato ai moderati o agli elementi ostili alla fusione delle varie repubbliche; anche le costituzioni si ispiravano al modello francese del ’95.

 

Analoga fu inoltre la risposta dei patrioti dello Stato Pontificio alla politica francese: basta ricordare la congiura repubblicana organizzata nel Luglio del ’97 del medico Angelucci e da altri, poi arrestati; il gruppo guidato dallo scultore Ceracchi e dal notaio Agretti.

 

Un diffuso sentimento di avversione per le vicine repubbliche, in particolare per l’invadente Cisalpina, e la conseguente istanza autonomistica, avevano contribuito a creare, in Piemonte, una situazione di contrasto con la volontà di unificazione ed a rendere più facile il compito dell’annessione alla Francia. Perciò i piemontesi giunsero più tardi di ogni altro gruppo italiano all’opposizione militante al Direttorio, forse perché più di altri, per tradizione politico-diplomatica, sentivano un minor attaccamento all’idea unitaria.

 

La richiesta dell’annessione poteva essere giustificata dalla necessità dei piemontesi di sottrarsi allo sfruttamento integrale del paese, poteva quindi non escludere la più sorda avversione all’indirizzo della nazione a cui le circostanze imponevano di riunirsi. Ma ciò in ogni caso non escludeva che quella richiesta poco s’accordasse con un maturo sentimento unitario.

 

I piemontesi parlarono, si può dire per la prima volta, di unità dopo il fallimento dell’annessione e dopo essersi incontrati in Francia con gli altri esiliati, convincendosi che per naturalizzare le libertà francesi in Italia occorreva essere uniti.

 

Più che di anti-unitarismo si deve parlare di unitarismo d’occasione dei giacobini piemontesi, oscillanti tra le istanze indipendentistiche e la necessità di non abbandonare gli amici unitari e la rete cospirativa dei “Raggi”.

 

Del resto lo stesso unitarismo cisalpino non tanto scaturiva e si alimentava da una tradizione di pensiero unitario, quanto dall’esigenza di difendere le nuove libertà repubblicane.



 

 

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