N. 81 - Settembre 2014
(CXII)
Il Triennio Rivoluzionario in Italia
parte
I -
Prove di democrazia negli antichi stati italiani
di Giacomo Zanibelli
Il
riformismo
settecentesco
si
attenuò
contemporaneamente
all’affermarsi
in
Francia
della
Rivoluzione
e
per
il
timore
suscitato
da
questa
nei
governi
europei.
Tale
situazione
destò
nella
borghesia
ed
in
parte
della
nobiltà
e
del
clero
un
notevole
malcontento,
spingendo
molti
ad
una
posizione
di
rottura
rispetto
al
sistema
politico-sociale
vigente.
L’irrequietezza
e
l’attesa
furono
particolarmente
vive
nelle
masse
popolari,
specie
contadine,
che
vivevano
da
sempre
nella
fame
e
nella
miseria
e
che
vedevano
nel
movimento
rivoluzionario
il
sogno
di
una
vita
più
bella
e
ambivano
ai
suoi
risvolti
pratici:
la
ridistribuzione
della
terra
e
l’abolizione
di
ogni
qualsivoglia
diritto
feudale.
Questo
clima
di
fervore
politico
ebbe
risvolti
immediati
anche
nella
penisola
italiana,
producendo
una
frattura
in
tutta
la
società,
che
si
divise
tra
coloro
che
respingevano
completamente
la
Rivoluzione
e
coloro
che
aderivano,
solo
parzialmente,
ai
suoi
principi.
Tra
il
1789
ed
il
1796
i
gruppi
borghesi,
che
nel
successivo
triennio
rivoluzionario
saranno
alla
testa
del
movimento
democratico
e
giacobino,
non
riuscirono
a
far
penetrare
le
loro
idee
al
di
fuori
di
una
ristretta
cerchia
intellettuale
e
cittadina.
La
borghesia
innovatrice
non
seppe
far
presa
sulla
maggior
parte
della
popolazione
restando
legata,
troppo
in
astratto,
ai
nuovi
principi
di
democratizzazione,
finendo
così
per
essere
troppo
debole
per
imporre
un
decisivo
cambio
di
rotta.
I
gruppi
giacobini,
legati
alle
sorti
delle
armate
francesi,
non
seppero
stabilire
un
legame
forte
con
le
masse
popolari
rurali,
le
uniche
che
avrebbero
potuto
portare
un
contributo
fondamentale
alle
sorti
del
movimento
rivoluzionario
sorto
nella
penisola.
Anche
una
parte
della
classe
nobiliare
mostrò
in
questo
periodo
di
parteggiare
per
la
rivoluzione,
più
per
interesse
di
classe
che
per
i
principi
rivoluzionari.
La
nobiltà,
essendo
sotto
l’influenza
austriaca,
aveva
sentito
la
pressione
della
forte
centralità
asburgica.
Tale
atteggiamento
trova
una
conferma
nel
fatto
che
nel
1790,
quando
i
francesi
si
affacciavano
sulle
Alpi,
buona
parte
della
nobiltà
non
si
impegnò
a
fondo
contro
la
Francia.
Da
tempo
lo
spirito
nuovo
riscuoteva
simpatie
anche
in
alcuni
ambienti
ecclesiastici,
dove
l’insegnamento
Giansenista
aveva
preparato
ad
una
“Democrazia-Clericale”.
Molti
chierici
si
prestavano
a
sostenere
la
democrazia
con
le
massime
religiose
e ne
proclamavano
il
Vangelo
come
codice
primo.
Alcuni
che
avevano
acquisito
una
posizione
importante,
lasceranno
una
traccia
del
proprio
pensiero
nell’azione
legislativa
della
Cisalpina
e
nell’opera
di
conversione
democratica.
Gregorio
Fontana,
professore
a
Pavia,
sarà
nel
comitato
redattore
di
una
costituzione
per
nomina
di
Bonaparte.
Luigi
Bossi,
canonico
del
Duomo,
entrerà
nel
corpo
legislativo.
L’ambiente
ecclesiastico,
non
quello
delle
alte
gerarchie,
era
vicino
ai
novatori
e
contro
ai
nobili
che
occupavano
le
maggiori
cariche
all’interno
della
Chiesa.
Gli
ambienti
moderati,
espressioni
della
nobiltà
e
della
grande
borghesia
terriera,
non
erano
contrari
ai
principi
costituzionali,
ma
temevano
che
la
rivoluzione
degenerasse
come
in
Francia,
arrivando
ad
intaccare
il
concetto
di
proprietà
e
dei
diritti
reali.
La
difesa
della
proprietà
era
comune
a
molti
gruppi
moderati
e
porterà
alla
nascita
della
Società
dei
Raggi.
Nel
1795-1796,
con
la
sconfitta
del
movimento
contadino
e
giacobino
in
Francia,
questi
timori
vennero
meno
e la
penisola
italiana
divenne
alla
mercé
del
Direttorio.
I
Giacobini
Italiani
Il
movimento
giacobino
italiano
è
stato
forse
uno
dei
rami
più
vigorosi
su
scala
europea:
le
idee
rivoluzionarie
arrivarono
nella
penisola
grazie
ai
“lumi”
e
alle
loro
idee
innovatrici.
Il
giacobinismo
che
si
sviluppò
nei
primi
anni
della
rivoluzione
non
fu
solo
un
“partito”
dell’attesa,
ma
anche
delle
cospirazioni
e
dei
complotti.
Questo
giacobinismo
pur
restando
un
fenomeno
elitario
cercò
di
proporsi
anche
alle
masse
attraverso
l’uso
dei
giornali
e lo
sviluppo
di
una
propaganda
pedagogica
all’interno
dei
suoi
circoli
e
club.
Ruolo
fondamentale
per
la
diffusione
delle
idee
giacobine
lo
ebbe
la
stampa.
Si
assistette,
infatti,
ad
una
vera
esplosione
di
periodici
e
opuscoli
di
carattere
politico:
i
giornali
acquisirono
il
ruolo
di
veri
e
propri
centri
di
discussione
politica
e di
dibattito
tra
patrioti,
mentre
i
periodici,
fioriti
tra
il
1789
ed
il
1796,
sono
da
considerarsi
come
i
precursori
del
giornalismo
di
opinione
che
sorgerà
nel
corso
del
triennio
rivoluzionario.
In
questo
periodo
un
ruolo
importante
fu
svolto
dalla
stampa
di
provincia
che,
secondo
Carlo
Capra,
è
stata
troppo
spesso
ignorata
e
sottovalutata
dagli
studiosi
del
triennio.
All’arrivo
dei
primi
venti
rivoluzionari
nella
penisola,
i
giacobini
italiani
speravano
che
la
Francia
esportasse
i
suoi
valori
di
libertà
e di
uguaglianza
creando
una
grande
nazione
italiana.
Matteo
Galdi,
scrittore
giacobino
italiano,
era
fiducioso
di
questo,
tanto
che
nel
1798
all’interno
di
un
saggio,
scrisse:
"L’Italia
libera
e la
Francia
fisseranno
su
queste
eterne
basi
indistruttibili
l’edifizio
de’
loro
rapporti
politico-economici
che
serviranno
una
volta
di
norma
e di
esempio
a
tutte
le
nazioni
in
tutti
i
secoli.
L’Italia
libera,
in
segno
d’inalterabile
amicizia
e di
gratitudine,
consacrerà
con
pubblici
monumenti
e
con
quattro
feste
nelle
quattro
stagioni
dell’anno
le
principali
epoche
politiche
e
guerriere
che
contribuirono
alla
libertà
francese
e
per
cui
la
Francia
rese
libera
l’Italia.
I
francesi
faranno
altrettanto
per
richiamare
la
dolce
rimembranza
e il
sentimento
sublime
di
aver
liberato
un
popolo
dalla
schiavitù".
(I.
Tognarini,
1977.
pp.
125-126)
Nel
triennio
rivoluzionario
i
giacobini
italiani
svolsero
un
ruolo
di
primo
piano
sotto
molti
punti
di
vista
anche
se
non
riuscirono
far
presa
sulle
comunità
rurali.
Emblematico
è un
dialogo
scritto
dal
sacerdote
Luigi
Martini
di
Monsummano
che
vede
come
protagonisti
un
parroco
ed
un
contadino:
CONTADINO:
Volevo
ben
dire!
Dunque
non
è il
popolo
che
comanda!
PARROCO:
Pazienza
Benedetta!
Il
sig.
conte
ordina
al
fattore
di
fare
un
argine,
il
fattore,
che
non
sa
far
gli
argini,
ordina
a
nome
del
conte
al
capo
d’opere
di
far
l’argine,
il
capo
d’opere
ordina
ai
contadini
che
facciano
l’argine.
Chi
comanda
in
questo
lavoro.
CONTADINO:
Eh
il
sig.
conte.
PARROCO:
E lo
stesso
segue
delle
leggi.
Il
popolo
ordina
agli
elettori
di
fare
delle
leggi
che
non
siano
contrarie
alla
costituzione,
gli
elettori
dicono
ai
deputati
fatele;
ma è
sempre
il
popolo
che
comanda.
(Ivi,
p.
128)
I
patrioti
cercarono
in
tutti
i
modi
di
portare
avanti
i
loro
ideali,
pur
tra
mille
difficoltà
come
quella
dell’incomprensione
con
le
campagne.
I
loro
progetti
naufragarono
in
parte
proprio
grazie
a
coloro
in
cui
riponevano
grandissime
speranze:
i
Francesi,
che
non
erano
interessati
a
creare
una
Repubblica
Italiana
ma,
piuttosto,
un
territorio
di
influenza
francese.
Con
l’armistizio
di
Cherasco
del
28
Aprile
1796,
concluso
da
Bonaparte
con
il
Piemonte,
Vittorio
Amedeo
III
cedeva
alla
Francia
Nizza
e la
Savoia
e
permetteva
che
il
Piemonte
divenisse
una
base
per
le
ulteriori
operazioni
francesi
nell’Italia
settentrionale.
La
Pace
di
Parigi,
seguita
a
tale
armistizio,
salvò
momentaneamente
la
monarchia
sabaudia,
ma
rappresentò
una
grave
delusione
per
i
più
attivi
patrioti
italiani,
i
quali,
nei
mesi
precedenti
l’offensiva
di
Bonaparte,
avevano
preparato
un
piano
per
instaurare
la
repubblica
in
Piemonte,
come
primo
passo
per
la
liberazione
di
tutta
l’Italia.
Un
gruppo
di
esuli
esistente
a
Nizza,
diretto
dal
Pellisseri
e
dal
Bonafous,
in
contatto
con
i
patrioti
rimasti
in
Piemonte
e
con
altri
residenti
a
Genova,
come
il
Safi,
il
Vitaliani
e
probabilmente
il
Ranza,
aveva
predisposto
d’accordo
con
il
generale
Augereau,
un
piano
di
rivoluzione
in
Piemonte.
Quindi
si
era
rivolto
al
Buonarroti,
allora
a
Parigi,
affinché
ottenesse
l’appoggio
del
Direttorio,
ma
il
tentativo
fallì
a
causa
della
congiura
di
Babeuf,
il
21
Floreale
IV
(10
Maggio
1796).
Nel
frattempo,
il
26
Aprile
1796,
Augereau
entrò
nella
città
di
Alba,
abbandonata
pochi
giorni
prima
dalle
truppe
regie;
qui,
dove
gli
elementi
giacobini
erano
numerosi,
venne
costituita
una
municipalità,
con
a
capo
il
Bonafous
ed
il
Ranza.
I
capi
del
movimento
consideravano
Alba
come
primo
passo
verso
la
liberazione
d’Italia.
Ma
il
Bonaparte,
concluso
l’armistizio,
non
aveva
più
interesse,
almeno
per
il
momento,
ad
appoggiare
i
patrioti
piemontesi.
Inviò
ad
Alba
il
generale
Serurier
il
quale
modificò
la
composizione
della
municipalità,
introducendovi
sette
membri
del
Consiglio
esistente
prima
dell’occupazione.
Il 6
Maggio
1796,
il
Bonafous,
pur
mantenendo
la
carica
di “maire”,
dovette,
con
tutta
la
municipalità,
fare
atto
di
sottomissione
alla
Repubblica
Francese.
Questo
tentativo,
sebbene
avesse
come
primo
scopo
la
creazione
della
repubblica
in
Piemonte,
ebbe
già
un
carattere
nazionale
piuttosto
spiccato,
e
poteva
definirsi
tendenzialmente
unitario
perché
tale
rivoluzione
era
vista
dai
patrioti
come
un
punto
di
partenza
per
un
rivolgimento
che
doveva
investire
tutta
l’Italia.
Il
progetto
portato
avanti
dal
Buonarroti
e
dai
suoi
seguaci
per
il
Piemonte
si
fondava
sul
presupposto
di
modificare
il
meno
possibile
gli
ordinamenti
preesistenti:
"Lo
scopo
principale
di
questo
progetto
è
dunque
di
introdurre
meno
novità
che
sia
possibile,
di
limitarsi
a
quelle
assolutamente
indispensabili;
non
si è
però
trascurato
di
spargere
qua
e là
i
germi
di
una
legislazione
più
avanzata
affinché
il
popolo,
dal
poco
che
viene
annunciato,
possa
aspettarsi
in
seguito
riforme
ancora
più
benefiche".
(C.
Capra,
1978,
Torino,
p.
42)
Il
piano
predisposto
dal
Buonarroti
e
dai
suoi
compagni
fallì
per
l’armistizio
di
Cherasco,
tuttavia
stabilì
un
legame,
che
poi
si
conservò
a
lungo,
tra
gli
elementi
più
avanzati
e
decisi
del
patriottismo
italiano
e
l’estrema
ala
sinistra
democratica
francese.
Così
il
giacobinismo,
declinante,
ma
non
morto
in
Francia,
diveniva
suscitatore
di
energie
nazionali
e
democratiche
in
Italia.
A
Milano
la
“Società
popolare”,
costituitasi
prima
dell’entrata
dei
francesi,
per
opera
di
Carlo
Salvador,
con
lo
scopo
di
ottenere
la
proclamazione
di
una
Repubblica
Lombarda
sul
tipo
Francese,
fornì
alla
nuova
municipalità
molti
elementi
democratici.
La
preferenza
accordata
da
Bonaparte
a
quest’ultimi
fu
dovuta
al
fatto
che
essi
si
mostravano
decisi
nel
sostenere
i
Francesi
dai
quali
speravano
di
ottenere
la
proclamazione
della
repubblica;
inoltre
davano
maggiori
garanzie
di
fedeltà
degli
aristocratici
moderati,
come
il
Melzi,
antiaustriaci,
ma
ancora
incerti
a
prendere
una
posizione
definitiva.
Il
14
Novembre
1796
i
patrioti
di
Milano,
riunitisi
al
Teatro
della
Cannobiana,
proclamarono
l’indipendenza
della
Lombardia
e la
loro
intenzione
di
combattere
al
fianco
dei
francesi,
ma
quest’ultimi
delusero
le
loro
aspettative,
facendo
arrestare
i
capi
del
moto,
tra
i
quali
il
Salvador
e
l’Aurora.
Da
qui
si
evince
un
cambiamento
nella
politica
italiana
del
Bonaparte:
egli,
infatti,
cominciava
a
dare
le
sue
preferenze
ad
elementi
moderati.
Ciò
dimostra
che
per
Bonaparte
la
“guerra
rivoluzionaria”
o
“di
liberazione”
fu
solo
uno
strumento
propagandistico,
atto
a
facilitargli
le
operazioni
militari
e,
di
conseguenza,
a
rendergli
possibile
di
realizzare
la
sua
politica
personale
e di
imporla
al
Direttorio.
Dopo
i
primi
successi
militari,
Bonaparte
abbandonò
i
suoi
“propositi”
rivoluzionari,
limitandosi
a
favorire
il
partito
rivoluzionario
solo
là
dove
gli
conveniva
creare
dualismi
di
potere
che,
neutralizzando
vicendevolmente
rivoluzionari
e
moderati,
gli
davano
mano
libera,
riuscendo
così
a
creare
governi
e
municipalità
ligi
ai
suoi
voleri.
Perciò
la
politica
del
Direttorio
e
del
Bonaparte,
dal
punto
di
vista
italiano,
non
si
differenziarono:
miravano
entrambe
ad
impadronirsi
delle
ricchezze
e
delle
posizioni
italiane,
senza
curarsi
delle
aspirazioni
sia
del
popolo
sia
dei
veri
democratici
italiani.
Inoltre
erano
decisi
ad
impedire
che
si
creassero
governi
popolari,
per
poter
disporre
della
penisola,
nelle
trattative
da
condurre
con
i
governi
in
guerra
con
la
Francia,
come
di
una
merce
di
scambio.
I
francesi
perseguirono
questa
politica:
legare
a sé
i
nobili
e
gli
abbienti
in
genere,
coloro
cioè
che
più
avrebbero
scapitato
dall’instaurazione
di
governi
democratici
e
giacobini.
è
dunque
la
novità
repubblicana
che
genera
in
Italia
la
prima,
nuova
politica
unitaria,
poiché
al
di
fuori
di
essa,
nessuno
parlava
di
unificazione
e di
rinnovamento
dei
vecchi
stati,
tanto
meno
la
ricca
borghesia
e la
nobiltà
terriera,
che
avevano
tutto
l’interesse
a
mantenere
un
programma
moderato,
che
garantisse
loro
il
potere.
Sotto
questa
luce,
pertanto,
vanno
visti
i
tentativi
democratici
di
Alba,
in
Piemonte
e
della
Lombardia.
Ben
presto
avvenne
una
frattura
tra
Francia
ufficiale
e
repubblicani
italiani:
non
erano
più
il
Direttorio,
l’armata
d’Italia,
che
potevano
assicurare
le
libertà
rivoluzionarie
alla
penisola;
ciò
aveva
una
chiara
conferma
nel
trattato
di
Campoformio.
L’avversione
dei
repubblicani
italiani
per
le
imposizioni
di
politica
estera
del
Direttorio,
non
poteva
non
essere
comune
con
l’opposizione
giacobina
di
Parigi.
Perciò
si
stabilì
subito
un’alleanza
tra
le
due
tendenze
democratiche,
a
cui
fece
riscontro,
ad
esempio
in
Lombardia,
quella
della
classe
conservatrice
con
gli
emissari
del
Direttorio,
per
arrestare
gli
slanci
giacobini
degli
unitari.
Ma
queste
alleanze
non
andavano
prese
in
maniera
assoluta,
comportavano
delle
riserve:
infatti
da
una
parte
sorsero
dei
contrasti
tra
il
Direttorio
e
l’ala
destra
dei
moderati
cisalpini.
Il
Melzi
ed
il
Marescalchi,
ambasciatore
a
Vienna,
si
adoperavano
per
ottenere,
con
il
consenso
dell’Austria
e
della
Francia,
un
ingrandimento
della
Cisalpina
con
il
Piemonte
e
con
la
Liguria
e la
sua
trasformazione
in
un
regno
da
affidarsi
ad
un
principe
della
casa
borbonica
di
Spagna.
Queste
manovre
non
riuscirono,
ma
sono
indicative
dello
spirito
che
animava
l’ala
destra
dei
moderati
cisalpini,
composta
di
aristocratici
e
ricchi
borghesi,
ostili
al
regime
repubblicano
ed
inclini
ad
una
monarchia
costituzionale,
in
cui
prevalesse
il
loro
ceto.
Comunque
anch’essi
erano
insofferenti
della
tutela
francese,
che
giudicavano
troppo
pesante
finanziariamente
e
pericolosa
politicamente,
a
causa
della
persistente
ostilità
austriaca.
D’altra
parte
la
vicinanza
degli
“anarchistes”
italiani
ai
giacobini
francesi
rimase
preordinata
all’opposizione
al
Direttorio,
ai
fini
delle
libertà
costituzionali
e
dell’indipendenza
della
patria,
regionale
o
nazionale,
comunque
fosse
considerata.
Perciò
gli
unitari
in
Italia
non
avevano
vere
rivendicazioni
sociali.
L’azione
politica
dei
giacobini,
consapevole
fin
dall’inizio
dell’importanza
di
assecondare
almeno
le
più
elementari
richieste
popolari,
si
fece
col
tempo
sempre
più
decisa
in
questo
senso.
Tale
consapevolezza
fu
presente
in
tutte
le
più
importanti
iniziative
politiche
intraprese
dai
nostri
giacobini,
in
quella
di
Alba
ed
in
quella
di
Pallanza
nel
1796,
negli
avvenimenti
milanesi
del
novembre
del
’96,
negli
sforzi
del
Serio
e
del
Russo
per
fare
approvare
dall’assemblea
napoletana
l’abolizione
della
feudalità.
La
grande
maggioranza
dei
giacobini
in
Italia
rappresentava
la
borghesia,
prevalentemente
terriera.
Quindi
in
essa
era
forte
il
timore
di
una
democrazia
troppo
avanzata,
che
avrebbe
potuto
trasformare
la
lotta
politico-costituzionale
in
una
rivoluzione
contadina
e
giacobina,
portando
mutamenti
strutturali
nelle
campagne.
Con
ciò
non
si
vuol
togliere
nulla
al
pensiero
socialmente
avanzato
di
taluno
degli
“utopisti
e
riformatori”,
tra
i
quali
il
Buonarroti
nel
movimento
di
Alba
nel
’96.
Si
vuole
solo
avanzare
l’ipotesi
della
eccezionalità
del
loro
contributo,
che
non
giunse
a
far
breccia
ed a
generalizzarsi
nella
compagine
della
politica
militante,
attratta
dai
più
immediati
obiettivi
dell’indipendenza
nazionale
e
delle
prime
libertà
rivoluzionarie.
A
differenza
della
Francia,
dove
il
sistema
repubblicano
si
basava
sull’unitarietà
di
uno
stato
già
preesistente,
l’Italia
in
quanto
stato
non
esisteva
e
quindi
risultava
difficile
che
le
idee
rivoluzionarie
e di
unità
repubblicana
trovassero
un
vasto
consenso
nella
penisola,
che
era
divisa
da
particolarismi
regionali.
La
molteplicità
delle
repubbliche
isolate
in
Italia
poteva
essere
causa
di
guerra
tra
Francia
ed
Austria,
poiché
la
debolezza
dell’Italia
divisa
avrebbe
attirato
nella
penisola
la
potenza
vicina,
mentre
un’Italia
unita
avrebbe
concorso
all’equilibrio
europeo:
questa
era
l’opinione
di
taluni
ambienti
repubblicani
di
Parigi
nella
metà
del
’97,
ancora
seguaci
delle
ideologie
dell’
’89,
che
propugnavano
la
libertà
dei
popoli
oppressi
e la
formazione
di
repubbliche
sorelle
alla
Francia.
Non
era
tanto
l’immaturità
degli
italiani,
quanto
il
pericolo,
che
ne
sarebbe
potuto
derivare,
che
consigliava
i
governanti
francesi
a
tenere
lontano
dall’Italia
l’insegnamento
della
rivoluzione.
Il
tradimento
della
politica
rivoluzionaria
si
consolidava
in
quella
dei
compensi,
lo
dimostra
Campoformio:
infatti
il
Direttorio,
anziché
scalzare
il
governo
dei
“tiranni”,
si
proponeva
di
rispolverare
i
vecchi
regimi
come
aveva
consigliato
il
Lacretelle.
Charles
Lacretelle,
giornalista
francese
di
tendenza
monarchica,
nel
giornale
“Nouvelles
Politiques”
di
Parigi,
pubblicò
tra
il
’96
ed
il
’97
numerosi
articoli
contrari
all’unificazione
ed
alla
democratizzazione
d’Italia.
Sosteneva
che
l’unico
interesse
della
Francia
nella
penisola
doveva
essere
quello
di
eliminare
o di
indebolire
il
predominio
austriaco;
che
i
patrioti
italiani
erano
giacobini
pericolosi
e,
dal
suo
punto
vista
conservatore,
non
aveva
torto,
perché
gli
uomini
più
decisi
in
senso
unitario
erano
i
democratici
più
avanzati,
che
si
ispiravano
al
’93
francese.
Erano
dei
giacobini,
influenzati
dal
Buonarroti,
come
Matteo
Galdi,
o
degli
utopisti
sociali,
come
l’Aurora.
Tra
i
patrioti
italiani
si
fece
strada
l’idea
unitaria
e
federalista:
da
una
parte
il
Galdi
sosteneva
che
la
Lombardia
avrebbe
dovuto
far
parte
della
repubblica
italiana,
una
ed
indivisibile.
Dall’altra
il
Ranza
era
convinto
che
si
dovessero
costituire
undici
repubbliche
federate:
ligure,
piemontese,
lombarda,
dell’Adria,
dell’Arno,
del
Tevere,
del
Vesuvio,
di
Sicilia,
di
Sardegna,
di
Corsica,
di
Malta.
Inoltre
affermava
che
il
federalismo
era
necessario
in
Italia
per
le
differenze
esistenti
da
secoli
nei
“costumi”,
nelle
“massime”
e
nei
“dialetti”
tra
le
varie
zone.
Tale
tendenza
federalistica
tra
gli
uomini
politici
italiani
del
momento
trova
la
sua
spiegazione
nel
fatto
che
tra
i
patrioti
c’erano
borghesi
dalle
idee
moderate,
oppure
nobili
che
ostentavano
idee
avanzate.
Quindi
tra
le
loro
aspirazioni
c’era
il
desiderio
di
un’autonomia
regionale
che
garantisse
loro
il
potere,
più
che
la
formazione
di
una
repubblica
italiana,
con
il
possibile
pericolo
della
partecipazione
al
potere
di
altre
classi
sociali.
Bonaparte,
tra
il
20
ed
il
21
Giugno
1796,
ordinò
che
a
Bologna
e a
Ferrara,
entrambe
occupate
dalle
truppe
francesi,
i
poteri
fossero
assunti
dagli
esistenti
organi
comunali.
Volle
far
leva
così
sui
sentimenti
municipali,
assai
forti
nelle
città
emiliane,
ed
appoggiarsi
soprattutto
sull’aristocrazia
e
sull’alta
borghesia,
che
prevalevano
in
quei
consessi.
L’analisi
politica
compiuta
dal
Bonaparte
in
una
lettera
inviata
al
Direttorio
il
28
Dicembre
1796
rispecchia
pienamente
il
progetto
politico
da
lui
voluto
per
Bologna
e
Ferrara:
"Le
Repubbliche
cispadane
sono
divise
in
tre
partiti:
1°
gli
amici
dei
loro
antichi
governi;
2° i
partigiani
di
una
costituzione
indipendente,
ma
un
po’
aristocratica;
3°
partigiani
della
costituzione
francese
o
della
pura
democrazia.
Io
comprimo
il
primo,
sostengo
il
secondo
e
modero
il
terzo.
Sostengo
il
secondo
e
modero
il
terzo
perché
il
partito
dei
secondi
è
quello
dei
ricchi
proprietari
e
dei
preti
che
in
ultima
analisi
finirebbe
col
trascinarsi
dietro
la
massa
del
popolo,
che
è
essenziale
guadagnare
al
partito
francese.
L’ultimo
partito
è
composto
di
giovani,
di
scrittori
e di
uomini
che,
come
in
Francia
e
dappertutto,
cambiano
di
governo
e
amano
la
libertà
solo
per
fare
una
rivoluzione".
(Ivi,
p.
52)
Alla
rivoluzione
reggiana
seguì,
il 6
Ottobre,
da
parte
francese,
l’occupazione
di
Modena,
dove
fu
costituito
un
Comitato
di
governo
esteso
poi
anche
a
Reggio,
non
senza
le
proteste
da
parte
di
tale
città.
Con
la
caduta
degli
antichi
governi
a
Bologna,
Ferrara,
Reggio,
Modena,
in
quest’ultima
fu
tenuto
un
congresso,
dal
21
Gennaio
al
1°
Marzo
’97,
per
l’istituzione
della
Repubblica
Cispadana.
Esso
fu
sostanzialmente
un’assemblea
costituente,
l’unica
italiana
del
triennio
1796-1799,
perché
le
costituzioni
di
tutte
le
altre
repubbliche
vennero
preparate
o
dai
francesi
o da
comitati
non
eletti
dal
popolo,
ma
nominati
dai
governi
provvisori.
Nel
complesso
la
Costituzione
Cispadana
riprodusse
quella
francese
del
’95,
accentuandone
il
carattere
conservatore.
Le
finanze
stremate
dalle
contribuzioni
di
guerra
provocarono
agitazioni
reazionarie
a
Bologna
e a
Ferrara,
democratiche
a
Reggio,
dove
si
verificò
una
marcia
di
contadini
sulla
città
per
ottenere
l’abolizione
dell’enfiteusi
rendendo
precario
l’ordine
pubblico.
Bonaparte
si
accorse
ben
presto
che
la
Cispadana
era
dominata
dai
preti
e
dai
nobili,
che
potevano
costituire
un’eventuale
minaccia;
perciò
si
preparava
a
smembrarla
sulla
base
di
quanto
aveva
deciso
nei
preliminari
di
Leoben
in
vista
delle
trattative
per
la
pace
definitiva
con
l’Austria.
Aveva
ormai
deciso
di
fondare
la
Repubblica
Cisalpina
in
Lombardia
(proclamata
il
29
Giugno’97),
così
stabilì
di
aggregarle
i
territori
di
Reggio,
Modena,
della
Garfagnana,
di
Massa
e
Carrara.
Anche
Ferrara
chiedeva
l’ammissione
e
nella
stessa
Bologna,
pur
gelosa
della
sua
funzione
di
capitale,
si
manifestava
tale
tendenza
da
parte
dei
democratici
e
dei
più
avveduti
moderati.
Successivamente
seguivano
il
loro
esempio
Bergamo,
Brescia
e la
Valtellina:
così
la
nuova
repubblica
segnava
un
passo
avanti
nel
vecchio
frazionamento
italiano,
ma
la
sua
formazione
si
accompagnò
a
gravi
delusioni
e
sconfitte
per
il
patriottismo
italiano
e le
tendenze
unitarie.
Infatti
la
costituzione
della
Cisalpina
non
fu
elaborata
da
un’assemblea,
ma
imposta
da
Bonaparte
e fu
una
traduzione
di
quella
francese
del
1795,
come
si
nota
nelle
costituzioni
delle
altre
repubbliche
italiane.
Le
ragioni
che
spinsero
Napoleone
ad
imporre
la
costituzione,
a
nominare
di
sua
scelta
i
membri
del
Direttorio
e
del
Corpo
legislativo,
vanno
individuate
in
primo
luogo
nel
timore
che
i
democratici,
più
forti
a
Milano
che
nelle
città
cispadane,
potessero
prevalere
nella
nuova
repubblica,
qualora
si
fosse
proceduto
ad
elezioni
per
una
Costituente,
oppure
del
Corpo
legislativo.
In
secondo
luogo,
nel
timore
di
intralci
o di
interferenze
dei
patrioti
italiani
nella
politica
estera,
proprio
mentre
Bonaparte
conduceva
le
non
facili
trattative
per
la
pace
definitiva
con
l’Austria.
Perciò
aveva
bisogno
che
nella
Cisalpina
ci
fossero
uomini
molto
maneggevoli,
era
più
opportuno
che
vi
prevalessero
i
moderati,
o
comunque
persone
ostili
ad
ogni
tentativo
di
attaccare
seriamente
gli
interessi
dell’aristocrazia
terriera
e
dell’alta
borghesia.
Tra
il
’97
ed
il
’99
si
compì
la
delusione
delle
aspirazioni
italiane,
soprattutto
con
la
cessione
di
Venezia
all’Austria
attraverso
il
trattato
di
Campoformio.
Inoltre
l’atteggiamento
del
Direttorio
nei
confronti
dell’Italia,
contrario
ad
una
sistemazione
democratica
ed
unitaria;
le
contribuzioni,
le
requisizioni,
a
cui
si
aggiunsero
le
ruberie
ed i
saccheggi
dei
generali
e
dei
fornitori;
l’armata
d’Italia,
che
pesava
sulle
finanze
dei
paesi
conquistati
ed
inviava
a
Parigi
ricchezze
in
denaro,
metalli
preziosi,
opere
d’arte,
contribuirono
a
creare
uno
stato
d’animo
di
forte
ostilità
nei
riguardi
della
Francia.
Lo
spirito
antifrancese
degli
unitari
italiani
non
investiva
tutta
la
Francia,
ma
si
volgeva
contro
quella
ufficiale,
rappresentata
dal
Direttorio
e
dai
suoi
commissari
ed
agenti
civili,
i
quali
consideravano
l’Italia
come
una
terra
di
conquista,
da
tenere
divisa
e
sotto
tutela.
Maggior
fiducia
i
patrioti
unitari
e
democratici
davano
ad
alcuni
generali
di
origine
popolare,
come
Brune,
Joubert,
Championnet,
ostili
al
Direttorio
ed
ai
suoi
agenti
civili.
Tale
fiducia
non
era
certo
mal
riposta
se
si
pensa
ai
ben
quattro
colpi
di
stato
della
Cisalpina,
che
inizialmente
dovevano
rivolgersi
contro
il
Corpo
legislativo,
il
quale
aveva
mostrato
un’opposizione
ai
voleri
francesi.
In
realtà
questi
piani
del
Direttorio
finirono
per
favorire
i
democratici
della
Cisalpina
proprio
attraverso
l’aiuto
proveniente
dal
Brune
(nel
1°
colpo
di
stato),
dal
Fouchè
(nel
3°
colpo
di
stato),
dal
Joubert,
che
fu
sostituito
subito
dallo
Schérer,
di
idee
moderate
e
mediocre
generale.
Bisogna
però
diffidare
di
un’identità
di
vedute
tra
unitari
e
generali,
tranne
per
Championnet
e
Joubert.
Per
lo
più
si
trattava
di
un’alleanza
d’occasione
per
minare
le
basi
della
dominazione
politica
del
Direttorio.
I
cambiamenti
forzati
di
soldatesche
nella
Repubblica
Cisalpina,
ai
tempi
del
dominio
di
Trouvé,
di
Brune
e di
Rivaud,
la
diffidenza
degli
agenti
francesi
nei
confronti
degli
unitari,
avevano
generato
la
società
segreta,
con
istanze
unitarie,
dei
“Raggi”.
Il
fatto
che
la
società
svolgesse
la
sua
azione
in
un
ambiente
militare
attraverso
cui
si
collegava
ad
alcuni
dei
generali
francesi,
simpatizzanti
per
la
libertà
italiana,
fa
pensare
che
proprio
di
indipendenza
politica
territoriale
si
occupassero
in
primo
luogo
gli
oppositori
italiani
del
Direttorio.
L’8
Fruttidoro
’98
Faipoult
scrisse
a
Talleyrand
di
una
cospirazione
antifrancese
in
Italia.
La
situazione
si
fece
più
difficile:
la
si
deve
riconnettere
con
l’insofferenza
del
mondo
giacobino
francese
per
il
comportamento
del
Direttorio,
sempre
meno
tollerante
delle
libertà
repubblicane.
Gli
uomini
del
vecchio
“comité”
di
Babeuf
capeggiavano
il
movimento,
che
non
si
limitava
alla
Francia,
ma
cercava
di
sfruttare
i
malcontenti
e le
aspettative
di
liberazione
nelle
terre
occupate.
Si
progettava
un
moto
giacobino
che
sarebbe
dovuto
esplodere
contemporaneamente
in
Francia
ed
altrove,
ovunque
il
Direttorio
avesse
i
suoi
emissari.
Del
23
Dicembre
’98
fu
la
denuncia
anonima
giunta
ai
governanti
francesi,
che
proveniva
forse
da
uno
degli
ufficiali
del
generale
Lahoz,
lombardo,
comandante
dell’esercito
cisalpino
ed
esponente
del
movimento
democratico
ed
unitario.
Questi
era
accusato
di
tramare
con
altri
l’esecuzione
del
“piano”,
ordito
dallo
scaduto
Direttorio
cisalpino:
trucidare
i
nuovi
membri
del
governo
graditi
a
Parigi,
trasferire
la
maggioranza
dei
Consigli
a
Bologna,
mentre
il
Lahoz
con
la
divisione
riunita
a
Modena,
si
sarebbe
opposto
a
qualunque
atto
ostile
delle
truppe
francesi.
Nelle
due
repubbliche
del
’98,
la
Ligure
e la
Romana,
si
verificarono
fenomeni
e
tendenze
simili
a
quelli
della
Cisalpina:
contribuzioni,
requisizioni
e
saccheggi
da
parte
dei
francesi,
difficoltà
finanziarie,
divisione
dei
repubblicani
in
democratici
e
moderati,
tendenza
unitaria
prevalente
tra
i
democratici,
favore
dei
francesi
accordato
ai
moderati
o
agli
elementi
ostili
alla
fusione
delle
varie
repubbliche;
anche
le
costituzioni
si
ispiravano
al
modello
francese
del
’95.
Analoga
fu
inoltre
la
risposta
dei
patrioti
dello
Stato
Pontificio
alla
politica
francese:
basta
ricordare
la
congiura
repubblicana
organizzata
nel
Luglio
del
’97
del
medico
Angelucci
e da
altri,
poi
arrestati;
il
gruppo
guidato
dallo
scultore
Ceracchi
e
dal
notaio
Agretti.
Un
diffuso
sentimento
di
avversione
per
le
vicine
repubbliche,
in
particolare
per
l’invadente
Cisalpina,
e la
conseguente
istanza
autonomistica,
avevano
contribuito
a
creare,
in
Piemonte,
una
situazione
di
contrasto
con
la
volontà
di
unificazione
ed a
rendere
più
facile
il
compito
dell’annessione
alla
Francia.
Perciò
i
piemontesi
giunsero
più
tardi
di
ogni
altro
gruppo
italiano
all’opposizione
militante
al
Direttorio,
forse
perché
più
di
altri,
per
tradizione
politico-diplomatica,
sentivano
un
minor
attaccamento
all’idea
unitaria.
La
richiesta
dell’annessione
poteva
essere
giustificata
dalla
necessità
dei
piemontesi
di
sottrarsi
allo
sfruttamento
integrale
del
paese,
poteva
quindi
non
escludere
la
più
sorda
avversione
all’indirizzo
della
nazione
a
cui
le
circostanze
imponevano
di
riunirsi.
Ma
ciò
in
ogni
caso
non
escludeva
che
quella
richiesta
poco
s’accordasse
con
un
maturo
sentimento
unitario.
I
piemontesi
parlarono,
si
può
dire
per
la
prima
volta,
di
unità
dopo
il
fallimento
dell’annessione
e
dopo
essersi
incontrati
in
Francia
con
gli
altri
esiliati,
convincendosi
che
per
naturalizzare
le
libertà
francesi
in
Italia
occorreva
essere
uniti.
Più
che
di
anti-unitarismo
si
deve
parlare
di
unitarismo
d’occasione
dei
giacobini
piemontesi,
oscillanti
tra
le
istanze
indipendentistiche
e la
necessità
di
non
abbandonare
gli
amici
unitari
e la
rete
cospirativa
dei
“Raggi”.
Del
resto
lo
stesso
unitarismo
cisalpino
non
tanto
scaturiva
e si
alimentava
da
una
tradizione
di
pensiero
unitario,
quanto
dall’esigenza
di
difendere
le
nuove
libertà
repubblicane.