N. 83 - Novembre 2014
(CXIV)
SANTA SOFIA a istanbul
BASILICA, MOSCHEA E MUSEO - PARTE II
di Federica Campanelli
Sul
fondo
della
navata
destra
si
conserva
un’altra
importante
opera
che
testimonia
il
passaggio
nella
storia
dell’Imperatrice
Zoe,
al
trono
dal
1028
al
1050.
Nel
mosaico
l’imperatrice
venne
ritratta
insieme
al
marito
Romano
III
Argiro,
sposato
per
volontà
del
padre
Costantino
VIII.
.
Mosaico
raffigurante,
sulla
destra,
l’imperatrice
Zoe
Quando
nel
1034
Romano
III
morì
(non
senza
il
contributo
della
stessa
imperatrice),
Zoe
prese
in
marito
l’amante
Michele
il
Paflagonio
che
divenne
Michele
IV
di
Bisanzio.
Detto
fatto,
il
volto
del
nuovo
coniuge
sostituì
quello
di
Romano
III
sul
mosaico.
Quello
che
osserviamo
oggi
è
però
un
altro
volto
ancora:
quello
di
Costantino
IX
Monomaco,
salito
al
trono
nel
1042
e
terzo
marito
di
Zoe.
I
due
coniugi
sono
ritratti
ai
lati
di
un
imponente
Cristo
Pantocratore
che
indossa
una
veste
blu.
Accanto
all’aureola
(nimbo)
del
Cristo
vi
sono
i
monogrammi
IC e
XC,
cioè
Khristos
Iesous.
L’Imperatrice
tiene
invece
in
mano
una
pergamena
avvolta
(è
l’elenco
delle
donazioni
fatte
alla
Chiesa),
mentre
Costantino
offre
l’apokombion
(una
borsa
contenente
denaro).
Meno
intricata
la
storia
del
mosaico
che
si
trova
a
fianco,
e
che
rappresenta
una
Madonna
con
Bambino
in
grembo,
affiancati
dall’Imperatore
Giovanni
II
Comneno
(1118-1143)
e da
sua
moglie
Piroska
d’Ungheria.
.
Mosaico
raffigurante
la
Vergine,
Giovanni
II
Comneno
e
sua
moglie
Irene
L’intervallo
di
un
secolo
dalla
realizzazione
del
mosaico
di
Zoe
si
nota
nel
maggiore
realismo:
i
tratti
somatici
di
Irene
(nome
con
qui
era
conosciuta
la
Piroska)
sono
ben
concretizzati
nella
carnagione,
nel
colore
rosso
dei
capelli
e
nel
grigio
degli
occhi,
così
come
è
evidente
l’
aspetto
piuttosto
scuro
di
Giovanni
(detto
il
Moro).
L’imperatore
porta
sul
capo
il
kamelaukion
(diadema
regale
bizantino),
mentre
su
un
pilastro
adiacente
è
raffigurato
il
primogenito
Alessio
Comneno.
Questo
ritratto
è
però
un
intervento
del
1122,
quando
Giovanni
ammise
il
figlio
al
trono
in
veste
di
co-imperatore.
Ayasofya
è
stata
sede
del
patriarcato
ecumenico
per
oltre
900
anni,
ma
questo
lungo
periodo
fu
interrotto
dalla
presa
di
Costantinopoli
del
1204,
nell’ambito
della
IV
crociata.
L’edificio
fu
convertito
in
luogo
di
culto
cattolico
e
poi
depredato,
con
molti
dei
suoi
tesori
dispersi
o
trasferiti
altrove.
È
possibile
ammirare
una
parte
di
quel
patrimonio
sottratto
presso
i
Musei
Vaticani
(in
cui
è
conservato
un
elaborato
trittico
in
avorio,
degli
inizi
del
secolo
XI)
e
nella
basilica
di
S.
Marco
a
Venezia
(che
accoglie
il
più
antico
ciborio
di
Anastasia,
opera
del
VI
secolo).
Ayasofya
ritornerà
a
essere
sede
del
patriarcato
ecumenico
con
la
riconquista
dei
bizantini
nel
1261.
Con
il
ripristino
dell’ortodossia,
Ayasofya
si
arricchisce
del
mosaico
più
celebre
del
monumento,
quello
generalmente
indicato
con
Deesis.
.
Mosaico
della
Deesis
La
Deesis
(preghiera)
è
nella
cultura
ortodossa
tra
i
soggetti
iconografici
di
matrice
bizantina
più
popolari.
L’iconografia
prevede
un
Cristo
benedicente
tra
la
Vergine
e
san
Giovanni
Battista,
e
spesso
questa
impostazione
è
integrata
dalla
presenza
dei
Santi
più
importanti
del
luogo.
In
Ayasofya
la
Deesis
è
collocata
nella
galleria
superiore
meridionale,
purtroppo
è
giunta
a
noi
in
pessimo
stato.
Ciò
che
rimane
basta
però
per
afferrare
l’elevato
valore
artistico
e
culturale
dell’opera,
in
cui
troviamo
un
Cristo
Pantocratore
in
veste
blu
con
magnifiche
lumeggiature
dorate,
affiancato
dalla
Vergine
e da
san
Giovanni
Battista,
i
cui
volti
sono
ritratti
di
tre
quarti.
Le
figure
abbandonano
la
ieraticità
del
passato
presentando
un’
efficace
espressività,
resa
con
particolare
elaborazione
dei
lineamenti.
Nell’ambito
dell’arte
bizantina
è
considerata
un’opera
all’avanguardia,
un
primo
passo
verso
le
forme
naturalistiche
del
Rinascimento.
Il
mosaico
della
Deesis
fu
concepito
come
manifestazione
della
fine
dell’autorità
cattolica
su
Ayasofya
e
celebrazione
del
ritorno
dell’ortodossia.
Ma
la
storia
travagliata
del
monumento
non
si
chiude
qui.
Dovrà
infatti
ancora
rivestire
un
nuovo
“ruolo”:
quello
di
moschea.
La
conquista
di
Costantinopoli
per
mano
di
Maometto
II
(1453)
pose
fine
all’Impero
Romano
d’Oriente
e
trasformò
la
città
in
capitale
dell’Impero
Ottomano.
Ayasofya
divenne
allora
la
moschea
principale
della
nuova
capitale,
una
svolta
di
cui
sono
testimoni
i
quattro
minareti
posti
agli
angoli
della
struttura.
Fu
da
questo
momento
che
iniziò
l’invasivo
intervento
di
schermatura
dei
pannelli
musivi
per
mezzo
di
spessi
strati
d’intonaco:
in
pratica
tutto
ciò
che
aveva
carattere
cristiano
fu
debellato
o
attentamente
occultato.
Ma
nel
contempo
Ayasofya
si è
arricchita
di
nuovi
(e
splendidi)
elementi
islamici.
Oltre
i
già
citati
minareti,
oggi
è
infatti
possibile
ammirare
il
mihrab
(piccolo
abside
che
indica
la
direzione
della
Mecca),
le
ricche
piastrelle
di
Iznik
del
mausoleo
di
Selim
II
(1577);
la
fontana
per
abluzioni
(1740)
e
gli
otto
monumentali
medaglioni
ottocenteschi
appesi
alle
pareti
delle
gallerie
superiori.
Questi
rappresentano,
per
mezzo
dell’arte
calligrafica
araba,
i
nomi
di
Allah,
di
Maometto
e
dei
califfi
Abu
Bakr,
‘Umar,
‘Uthman,
Alí,
Hasan,
Mùawiyah.
.
Due
degli
otto
medaglioni
presenti
a
Santa
Sofia
Dovranno
però
passare
quasi
500
anni
perché
ad
Ayasofya
tornassero
a
splendere
anche
i
suoi
gloriosi
mosaici.
Con
la
soppressione
del
Sultanato
nel
1922
e la
proclamazione
della
Repubblica
nel
1923,
il
primo
Presidente
Mustafà
Kemal
(detto
Atatürk,
padre
dei
turchi)
avviò
un
processo
di
laicizzazione
del
paese,
e
per
sua
stessa
volontà,
nel
1935
Ayasofya
cessò
di
esistere
come
moschea
per
divenire
museo,
custode
di
bellezza
e
secoli
di
storia.
Da
allora
sono
iniziati
intensi
lavori
di
recupero
e
restauro
dell’intera
struttura
e
delle
opere
celate
negli
anni,
e
tra
le
ultime
(estate
2009)
importanti
scoperte
sui
mosaici
di
Ayasofya
vi è
il
volto
di
uno
dei
quattro
serafini
realizzati
sui
pennacchi
della
grande
cupola.
A
far
da
guida
ai
lavori
di
restauro
pare
sia
stato
un
manoscritto
lasciato
dagli
architetti
Gaspare
e
Giuseppe
Fossati:
si
tratta
di
una
raccolta
di
schizzi
e
acquerelli
relativi
ad
alcune
decorazioni
interne,
che
i
due
architetti
svizzeri
realizzarono
tra
il
1847
e
1849,
quando
furono
incaricati
dal
sultano
Abdul
Mejid
I a
restaurare
la
moschea.
.
Uno
dei
volti
di
serafino
ritrovati
a
Santa
Sofia
I
volti
dei
serafini
furono
visti
per
l’ultima
volta
in
quell’occasione.
I
restauratori
di
Ayasofya
hanno
dovuto
rimuovere
circa
sette
strati
di
malta
e
una
pesante
maschera
metallica
prima
di
portare
alla
luce
il
severo
volto
dell’angelo,
svelando
un
mosaico
dalle
dimensioni
notevoli:
circa
1 x
1,50
m.
La
data
di
origine
è
stata
fissata
tra
il
XII
e il
XIV
secolo.
Link
parte
I