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N. 59 - Novembre 2012 (XC)

israele e il monopolio nucleare
timori e rivalità

di Federico Donelli

 

L’intervento del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di settembre è servito per riportare l’attenzione internazionale sul nucleare iraniano, una questione che negli ultimi mesi ha lasciato “ mediaticamente” e politicamente posto alla drammaticità della crisi siriana. Netanyahu dopo aver - per l’ennesima volta - esposto i pericoli che l’acquisita capacità nucleare della Repubblica islamica comporterebbe non solo ad Israele ma all’intera regione mediorientale, ha mostrato un grafico relativo al rapido evolversi del programma nucleare iraniano tratteggiandovi poi una “red line” che l’intelligence israeliana considera come punto di non ritorno. Superata la red line, secondo alcuni argomento di discussione e tensione con il Presidente americano Barack Obama, Netanyahu ha dichiarato che Israele si sentirà legittimato ad intervenire militarmente in difesa della propria sicurezza nazionale.

Il timore principale di Israele però non è rappresentato dal futuro utilizzo che l’Iran potrebbe fare di armi non convenzionali, ma piuttosto dalle conseguenze che la presenza di un Iran nucleare avrebbe sull’intera regione. Vi è la consapevolezza che l’acquisizione della capacità atomica da parte di Teheran innescherebbe una frenetica e praticamente inarrestabile corsa agli armamenti da parte di tutti gli Stati regionali, in particolare di quelli come l’Arabia Saudita che da decenni sono in competizione con l’Iran per ragioni sia politiche che confessionale.

Questo scenario spaventa Washington perché una proliferazione nucleare di tale portata e su larga scala sarebbe difficilmente controllabile aumentando le possibilità che gruppi terroristici (al-Qaeda) entrino in possesso di armi non convenzionali. A ciò si aggiunga come un sistema di equilibrio nucleare in una delle regioni più ricche di risorse del pianeta spaventi gli Stati Uniti soprattutto in un momento come quello attuale in cui l’onda lunga della primavera araba sembra aver generato maggiore instabilità con l’emergere di regimi nuovi di cui ancora si fatica a comprenderne la reale natura.

Tra Opzione Sansone e Dottrina Begin per consolidare il monopolio nucleare


Per riuscire a comprendere la questione in ottica israeliana è necessario fare un passo indietro e vedere come in questi anni Israele abbia reagito alle continue minacce nei suoi confronti potenziando le proprie difese, nucleare compreso, e facendo della sicurezza nazionale un elemento cardine dell’identità nazionale e delle politiche del Paese. Per Israele ai timori della proliferazione nucleare si aggiunge la paura e il senso di insicurezza e precarietà radicato nella psiche ebraica, dovuto alle ferite mai rimarginate di secoli di diaspora e persecuzioni culminati nei campi di sterminio nazisti. Proprio in risposta ai timori mai celati di un Secondo Olocausto, paura alimentata sia dalle minacce provenienti dal mondo arabo sia dall’antisemitismo dilagante in Europa e non solo, Israele si convinse a fine anni cinquanta con il sostegno economico e tecnologico USA, ad accelerare lo sviluppo delle proprie capacità nucleari.

Fu il senso di insicurezza e di appartenenza ad un popolo, prima ancora che ad uno Stato, costantemente assediato e minacciato, a plasmarne l’identità, riflettendosi nella strategia di sicurezza nazionale centrata sull’assunto che per garantire la propria sopravvivenza si dovesse mantenere una costante superiorità militare sui nemici sia in termini di armamenti convenzionali sia per ciò che concerne le armi non convenzionali. Nonostante a Gerusalemme non abbiano mai dichiarato ufficialmente di avere a disposizioni testate nucleari la capacità atomica israeliana è ormai un dato certo e riconosciuto sia dagli amici che dai nemici di Israele, tanto che parlando della strategia israeliana diversi analisti concentrano le proprie attenzioni sulla cosiddetta “Opzione Sansone”.

Il nome Sansone si deve all’eroe biblico che per liberare Israele uccise un migliaio di filistei usando come arma una mascella d’asino e, una volta fatto prigioniero piuttosto che morire da solo fece crollare il tetto del tempio in cui era imprigionato causando così oltre alla sua morte anche quella dei suoi nemici. In concreto la strategia prevede l’utilizzo di ordigni nucleari come estrema ratio per garantire la sopravvivenza di Israele e, allo stesso tempo, prevede che tale capacità potenziale funga da deterrente contro possibili attacchi da parte di eserciti nemici. La deterrenza derivante dal monopolio nucleare di Israele è stata però più volte sconfessata nel corso della storia, basti pensare che a nulla è servita per arrestare l’attacco a sorpresa delle forze arabe nel giorno della festività dello Yom Kippur nel 1973.

Corollario all’Opzione Sansone è la cosiddetta Dottrina Begin ossia la ferma volontà di consolidare il proprio monopolio nucleare anche attraverso l’intervento volto a bloccare qualsiasi programma nucleare sviluppato da altri Stati regionali. In quest’ottica si devono includere i raid militari israeliani contro i siti di sviluppo del programma nucleare iracheno nel 1981 e successivamente contro quello siriano nel 2007.

Oggi la dirigenza israeliana in accordo con i vertici dei servizi segreti nazionali (Mossad e Shin Bet) oltre che con l’intelligence americana (CIA) è convinta che le sanzioni non riusciranno a bloccare i piani iraniani e che solamente un attacco, sulla falsa riga di quello condotto contro il regime iracheno di Saddam Hussein, possa disinnescare definitivamente la minaccia del regime degli Ayatollah.

Negli ultimi due anni Israele ha promosso una politica dal duplice volto; da una parte ha perorato all’interno dei principali forum internazionali la necessità di bloccare l’Iran nel perseguire i propri progetti attraverso sanzioni e boicottaggi, dall’altra parte ha messo in atto una serie di mirati sabotaggi al programma di Teheran compresi omicidi di scienziati coinvolti nel programma.

Israele oltre all’attacco all’Iran spunta l’opzione MAD


I recenti sviluppi mostrano come l’opzione dell’attacco mirato possa rappresentare l’unica possibilità di porre fine alla questione iraniana, in tal senso si deve comprendere la decisione del Premier Netanyahu di sciogliere la Knesset, il Parlamento israeliano, e di andare ad elezioni anticipate previste per il prossimo gennaio. La red line fissata da Israele verrà probabilmente superata nella prossima primavera (maggio- giugno), per questo motivo Netanyahu ha voluto correre il rischio delle elezioni, i cui risultati sono tutt’altro che scontati, nella speranza di ottenere una vittoria a larga maggioranza grazie alla rinsaldata alleanza con il partito ultranazionalista Yisrael Beitenu guidato da Avigdor Lieberman che, in caso di vittoria, gli consentirebbe di avere un esecutivo forte e solido in Parlamento, elementi questi fondamentali durante uno stato di guerra.
D’altra parte però si deve tener conto della gran parte dell’opinione pubblica moderata israeliana che considera l’attacco come un rischio che Israele non può e non deve permettersi di correre, soprattutto perché una eventuale guerra all’Iran infuocherebbe l’intero mondo arabo. Inizia infatti a farsi largo tra i commentatori politici israeliani e la stessa società civile la possibilità che prossimamente Israele accetti la presenza di un Iran dotato di capacità nucleare, con la convinzione che Teheran miri più ad utilizzare tale risorsa in chiave difensiva, ossia come deterrente da attacchi israeliani, piuttosto che come elemento per accrescere le tensioni.

In tal caso si verrebbe a creare un equilibrio simile a quello tra USA e URSS in piena Guerra Fredda e conosciuto come MAD (Distruzione Mutua Assicurata), ovvero la consapevolezza da entrambe le parti che un eventuale attacco di una delle due porterebbe ad una inevitabile distruzione reciproca. Molti criticano tale ipotesi giudicando il regime iraniano diverso, meno razionale da quello comunista e da quello di altre potenze dotate di capacità nucleare, in quanto i leader della Repubblica islamica si sentano guidati da una ideologia religiosa dal forte carattere messianico che li porterebbe a voler conseguire ad ogni costo la propria “missione” di distruggere Israele.
Considerare i leader iraniani come del tutto irrazionali però sarebbe limitativo oltre che sbagliato in quanto hanno più volte negli ultimi vent’anni dato dimostrazione di mirare soprattutto al consolidamento interno del proprio potere, a tal fine, come in tutti i regimi non democratici, alimentano l’idea e la percezione della minaccia esterna che, nel caso iraniano, è rappresentata da Israele e dagli USA ma anche dall’intero universo sunnita.

In conclusione la storia può aiutare...


Anche in questo caso, la storia può fornire un utile di insegnamento; infatti, in passato Paesi che perseguivano una politica estera aggressiva, a parole e non solo (es. Cina), una volta acquisita la capacità nucleare (1964) sentendosi meno vulnerabili hanno progressivamente assunto posizioni più morbide. In anni più recenti dimostrazione è arrivata dalla rapida corsa agli armamenti che ha visto come protagonisti India e Pakistan, i quali data reciproca dimostrazione di detenere armi nucleari hanno iniziato un graduale processo di stemperamento delle tensioni, mirando a stabilire relazioni più solide ed equilibrate.

D’altra parte però la storia insegna anche che non sempre cercare la via diplomatica attraverso rischiose e costose concessioni porti al disinnesco delle minacce e ad evitare conflitti; USA e UE dovrebbero oggi ricordarsi della Conferenza di Monaco nel 1938 e quanto la storiografia occidentale consideri quella data come l’occasione mancata per arrestare Hitler prima che potesse trascinare il mondo intero nel secondo conflitto mondiale. Israele e le comunità ebraiche di tutto il mondo hanno purtroppo ben impresso sulla propria pelle quel drammatico precedente che risultò essere l’ultima possibilità – mancata – di evitare lo sterminio di oltre sei milioni di ebrei nei campi di concentramento nazisti.



 

 

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