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N. 106 - Ottobre 2016 (CXXXVII)

Isole Spratly: un caso già visto o qualcosa di più serio?

Cronache dal Mar Cinese Meridionale
di Gian Marco Boellisi

 

Negli ultimi anni le crisi nel Mar Cinese Meridionale sembrano affiorare con una certa frequenza. Nonostante l’oggetto della contesa sia diverso di volta in volta il protagonista principale rimane sempre invariato, la Repubblica Popolare Cinese. Infatti, prima nel 2010 con le isole Senkaku, poi nel 2014 fino ad arrivare ad oggi con isole Spratly, la Cina cerca sempre più di affermare la propria supremazia in tutto il globo, ed in particolar modo nelle zone che per prime geograficamente rientrano nella sua sfera d’influenza. Tuttavia con la rivendicazione delle isole Spratly, che si trovano tra Vietnam, Brunei e Filippine e nel mezzo di una delle rotte marittime più trafficate al mondo, la tensione è cresciuta molto sul panorama internazionale.

 

Prova ne sia che durante il vertice annuale del Dialogo di Shangri-La tenutosi a Singapore l’anno scorso, nel quale si riuniscono i ministri della difesa di tutti i paesi del Pacifico e dell’Asia, le posizioni tenute dai vari contendenti sono risultate più che mai inconciliabili. Infatti la Cina non è l’unica a rivendicare questi microscopici fazzoletti di terra: in realtà vi sono almeno altre 5 nazioni tra cui Vietnam, Taiwan e Filippine in lizza per ottenere ivi la sovranità. Le rivendicazioni tuttavia non sono state solo in forma verbale, tant’è che vi è stato un vero e proprio exploit edilizio nella regione da parte della maggior parte degli stati contendenti. In questa attività Pechino si è particolarmente distinta per l’estensione dei propri insediamenti, tant’è che il segretario della difesa americano Ashton Carter ha affermato nel suddetto vertice che la superficie complessiva edificata ammonta a svariati km di superficie. Al giorno d’oggi questa superficie è aumentata ulteriormente, con risultato la creazione di vere e proprie isole artificiali pronte ad ospitare caccia e navi di Pechino.

 

Inutile dire che questa forte presa di posizione possa aver infastidito seriamente Washington, la quale sta vedendo da qualche anno a questa parte minacciato il suo potere nel Pacifico. Queste premesse hanno condotto ad un vero proprio braccio di ferro nella regione tra le due superpotenze. Infatti gli Stati Uniti in risposta alle azioni cinesi, nonostante abbiano dichiarato di essere interessati solo alla libertà di navigazione, a fine maggio 2015 hanno mandato un aereo da ricognizione a sorvolare l’area delle Spratly. Inoltre non è da escludere che in futuro vi sia anche l’invio di navi militari nella zona, onde dimostrare al mondo di poter agire liberamente a prescindere dalle tensioni della regione.

 

Inoltre il presidente Obama ha ribadito, nella sua recente visita in Laos, che “Gli alleati dell'America devono sapere che il nostro impegno per la loro difesa è un obbligo solenne che non potrà mai finire. E in tutta la regione, anche nei mari est e sud della Cina, gli Stati Uniti continueranno a volare, navigare e operare ovunque il diritto internazionale lo consente e sosterrà il diritto di tutti i paesi a fare lo stesso”. Ciò chiaramente non semplifica la situazione, anche perché Pechino non ha alcuna intenzione di mollare la presa. Infatti come il ministro degli esteri Wang Li ha affermato nel Marzo 2015, la Cina sta solo costruendo nel proprio cortile di casa, pratica peraltro ben nota agli Stati Uniti durante tutti gli anni ’70 e ’80 in Sud America.

 

Un altro elemento di ulteriore complessità è la valenza giuridica delle rivendicazione cinesi. Infatti alcuni territori sui quali si sta costruendo sono effettivamente della Cina mentre altri non è ben chiaro se rientrino in acque territoriali cinesi (20 km dalla costa) o nella sua zona economica esclusiva (200 km dalle acque territoriali). Questa ambiguità ha frenato molto le accuse di Washington, la quale non ha voluto rischiare di additare apertamente una rivendicazione legittima. A prova di ciò negli articoli 15, 51 e 298 della stessa CNUDM (Convenzione della Nazioni Unite sul Diritto del Mare) questa tematica è trattata non senza ambiguità e libertà di interpretazione. È proprio questo che legittima Pechino a continuare per la sua strada.

 

Nel Luglio di quest’anno si è aggiunta un’ulteriore nodo alla questione burocratica. Infatti la Corte Internazionale dell’Aia ha dato ragione alle Filippine, paese che ivi aveva fatto ricorso, dichiarando la sua sovranità sulle isole, affermando che “non ci sono basi legali, da parte della Cina, per reclamare diritti storici nelle aree marittime entro la linea dei nove tratti (nine-dash line)”. Prevedibilmente Pechino ha rifiutato tale sentenza, affermando che il suo paese svolge attività nella zona da oltre 2000 anni, e che quindi non rispetterà le decisioni dell’arbitrato. Ciò potrebbe essere una ghiotta occasione per gli Stati Uniti, i quali potrebbero sfruttare la situazione per incrementare nell’area la propria presenza.

 

Tuttavia si effettua un errore a pensare che sia una partita esclusivamente a due. Infatti già un articolo di Le Monde del 12 Maggio 1978 testimonia come le Filippine avanzassero pretese territoriali nella zona. E subito dopo paesi come Vietnam, Brunei e Taiwan si sarebbero uniti alla gara. Le pretese di Pechino risalgono a fine anni ’80, quando essa iniziò a farsi strada nell’arcipelago vantando i propri diritti di pesca storici nell’area. Nel Marzo 1988 si arrivò addirittura ad uno scontro armato a largo di Johnson South tra Cina e Vietnam, il secondo maggiore contendente dell’arcipelago allora come oggi.

 

L’importanza di questo arcipelago non sta solo nelle zone di pesca o nei potenziali giacimenti di risorse naturali, quali gas e petrolio, ma nella posizione. In questa zona del Mar Cinese Meridionale transitano il 40% delle rotte commerciali mondiali, rendendo ogni centimetro prezioso per il controllo dell’area. Pechino afferma di costruire per lo più postazioni civili, ma che in un domani potrebbero facilmente tramutarsi in militari. E questo potrebbe portare ad ulteriore instabilità nella regione.

 

In conclusione, la continua prova di forza tra la superpotenza americana e cinese, ed anche gli altri attori in scena, potrebbe degenerare facilmente se le forze navali di questo o di quel paese dovessero mettere eccessivamente alla prova la pazienza le forze cinesi, le quali a loro malgrado non esiterebbero a rispondere a una esplicita provocazione sul proprio territorio. Questo tipo di azione provocatoria sarebbe percepito ancora maggiormente da Pechino se fossero gli Stati Uniti a forzare la mano. Inoltre al momento attuale le altre nazioni della zona fiancheggiano il loro alleato oltreoceano, poiché vedono Pechino come un aggressore. Ciò nonostante questo sostegno quasi sicuramente verrebbe a mancare da parte di alcuni stati nel caso in cui fosse proprio Washington a portare la crisi a nuovi livelli di tensione. Insomma, buone notizie per Pechino.



 

 

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