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N. 102 - Giugno 2016 (CXXXIII)

L'ISOLA FERDINANDEA
STORIA DI UNA TERRA EFFIMERA

di Federica Campanelli

 

Durante le prime notti del luglio 1831 alcuni pescatori di Sciacca che praticavano l’area della Secca del Corallo, situata tra l’isola di Pantelleria e le coste saccensi, si trovarono innanzi a uno spettacolo inquietante: i corpi dei pesci emergevano in superficie esamini o agonizzanti, dal mare si alzavano insolite esalazione sulfuree che penetravano occhi e polmoni, la temperatura si faceva percettibilmente più alta e le acque si agitavano gorgoglianti. Quegli uomini sgomenti, quando non svenivano per le acri esalazioni, probabilmente credevano di aver sbagliato rotta e aver raggiunto, loro malgrado, le porte dell’Inferno.

 

I pescatori che per primi si accorsero dell’insolito ribollimento delle acque, la notte del 2 luglio, avanzarono da principio la goffa ipotesi che il fenomeno potesse esser dovuto alla presenza di pesci di grandi dimensioni o a vivaci giochi di correnti marine, ma le osservazioni immediatamente successive e un parallelo sciame sismico che già dal 22 giugno faceva tremare la terra da Sciacca a Palermo annunciavano in realtà un evento straordinario: la nascita di un’isola!

 

Questa è la storia di un isola effimera, un lembo di terra di quattro chilometri quadrati che è emerso dall’irruenza di attività vulcaniche sottomarine con la stessa rapidità con cui, appena cinque mesi dopo, è collassato su sé stesso inabissandosi nelle acque del Canale di Sicilia. L’esistenza dell’isola, sì incerta e repentina, è stata tuttavia sufficiente a scatenare, oltre che un enorme interesse scientifico da parte di geologi e naturalisti di mezza Europa, una delicata disputa diplomatica tra il Regno delle Due Sicilie e le maggiori potenze europee dell’epoca, su tutte il Regno Unito.

 

Le tensioni tra Napoli e Londra peraltro non si limitarono a questa breve parentesi storica di controversie territoriali. Non era infatti nuova la volontà britannica di edificare una stabile presenza nel Mediterraneo, come era già accaduto tra il 1811 e il 1815 con il protettorato politico-militare istituito da lord Bentick nel Regno di Sicilia, unificato a Napoli nel 1816. La Sicilia e i suoi mari rappresentavano per l’Inghilterra un’enorme base di irrinunciabile valore strategico; quest’ultima altresì godeva di un vantaggioso accordo economico col regno borbonico (datato 26 settembre 1816), attraverso il quale esercitava l’esclusiva sulle attività estrattive e di sfruttamento dello zolfo. Quando, poi, Ferdinando II decise di stipulare un secondo trattato commerciale con i francesi, che di fatto strappava al Regno Unito il monopolio sugli zolfi siciliani, ferendone l’animo imperialista, si scatenò negli anni ’40 una crisi diplomatica che sfiorò il conflitto armato: la cosiddetta Crisi dello Zolfo, o Sulphur war.

 

Ma torniamo alla cosiddetta isola che non c’è. Come detto, a preannunciarne l’apparizione furono numerose scosse sismiche susseguitesi a partire dal 22 giugno e intensificatesi dal 28. Ed è proprio da tale giorno che gli eventi tellurici verranno scrupolosamente annotati dal Signor Salvatore Rosa da Sciacca, in un rapporto fatto pervenire a Carlo Gemmellaro, docente di Storia Naturale alla Regia Università degli Studi Catania, autore della Relazione dei fenomeni del nuovo vulcano sorto dal mare fra la costa di Sicilia e l’isola di Pantelleria nel mese di luglio 1831, nonché ideatore dell’appellativo “Ferdinandea”: «Ma qual altro più felice e più notabile successo era contemporaneo alla nascita di questo Vulcano, dal primo arrivo in Sicilia del nostro Augusto Re Ferdinando II? [...] Io chiamerò dunque la nuova Isola vulcanica sorta dal mare fra le altre adiacenti alla Sicilia, Isola di Ferdinando II».

 

Nello stesso 28 giugno anche gli inglesi, pur non avendo avvistato nessuna terra, si accorsero di qualcosa: alle 9:30 di sera il capitano del bastimento inglese Rapid, Charles Henry Swinburne, mentre doppiava il capo occidentale della Sicilia affiancato dal vascello Britannia, avvertì dei forti rumori «come di tremuoto» di cui egli stesso farà menzione, un mese più tardi, al vice ammiraglio sir Henry Hotham, stanziato nel porto inglese Malta. È inoltre opinione di Gemmellaro, il quale dovrà aspettare ancora qualche settimana prima di recarsi sul luogo e osservare con i propri occhi l’irripetibile spettacolo, che in questo giorno si sia aperta la bocca principale del rilievo vulcanico.

 

Ma chi fu ad accorgersi per primo dell’imminente nascita di un’isola? Pare difficilissimo dare una risposta. Gli avvistamenti di colonne di acqua frammista a fumi e materiale d’eruzione – il tutto sempre accompagnato da forti boati – furono parecchi e costanti in quelle calde giornate di luglio, e forse non a tutti fu chiaro quanto stava accadendo.

 

Tra le prime testimonianze, secondo lo scritto di Gemmellaro (che raccoglie innumerevoli dichiarazioni e reports), vi fu quella del capitano milazzese Francesco Trefiletti, al comando del brigantino Gustavo. Il 7 luglio, navigando da Malta verso la Sicilia, egli scorse, al largo di Sciacca, la presenza di fumi venir fuori dalle acque gorgoglianti, quindi segnalò alle autorità di Palermo la presenza di un vulcano non riscontrabile nelle carte nautiche.

 

Pochi giorni dopo, Giovanni Corrao, capitano del bastimento napoletano Teresina, affermerà di aver visto, passando a 20 miglia da Capo San Marco (Sciacca), una gran massa d’acqua e fumo misto a pomici innalzarsi per circa sei metri.

 

Il capitano della bombarda sarda Sant’Anna, Prospero Schiaffino, trovandosi il 13 luglio tra Sciacca e Pantelleria, assistette al fenomeno eruttivo; le sue osservazioni, raccolte in una relazione, furono poi confermate dal capitano della bombarda napoletana Madonna delle Grazie, Mario Provenzano. A questo punto gli inglesi e i napoletani si misero in moto con missioni esplorative alla volta dell’isola in divenire. Tra queste, per “sovrana determinazione”, vi fu la spedizione della corvetta Etna, capitanata da Raffaele Cacace. Spintosi sino a un miglio dal vulcano, egli ne osservò il cratere maggiore sul versante Ovest, il quale eruttava «in forma d’una colonna, immensa quantità di prodotti vulcanici, gettati ad altezza smisurata; la quale colonna di sostanze gassose era dei frequenti baleni in tutte le direzioni attraversata, trovandosi l’atmosfera sovraccarica di elettricismo» (“Giornale del Regno delle Due Sicilie”, n.177, martedì 9 agosto 1831).

 

Quel 13 luglio qualche alito d’inferno giunse anche sulla “terraferma”. L’odore di zolfo inondò le strade e le abitazioni di Sciacca per giorni; cittadini increduli guardavano gli oggetti in argento e in ottone annerirsi, e per la prima volta si accorsero di quella straordinaria colonna di fumo nel bel mezzo del mare, credendo si trattasse di qualche imbarcazione in fiamme o del passaggio di un battello a vapore diretto a Malta.

 

Intanto più di un geologo illustre partì dalla Sicilia per analizzare da vicino l’evento e, dal canto suo, il Regno Unito non perse d’occhio l’evolvere dell’isola un solo giorno, in previsione di chissà quale futuro. Le missioni esplorative inglesi culminarono il 2 agosto, quando il capitano Senhouse, alla guida del cutter Hind, dopo aver accertato l’esattezza dei dati sulla collocazione del vulcano (dati ottenuti dalle precedenti ispezioni del capitano Smith, del brigantino Philomel), ne rilevò un’altezza pari a circa 200 piedi, una circonferenza di poco più di 1 miglio e constatò come il suolo fosse ormai sufficientemente compatto da ritenere l’isola permanente. Quindi vi piantò la bandiera del Regno Unito.

 

 

Senhouse diede alla new island il nome “Graham”, da James Robert George Graham, uomo politico britannico a cui, tra l’altro, verrà intitolata, circa vent’anni dopo, la maggiore delle isole Haida Gwai, arcipelago della Columbia britannica, in Canada.

 

Ciò che non convinse mai Gemmellaro delle dichiarazioni di Senhouse era la presunta coesione del suolo. Il professore visitò il vulcano di lì a pochi giorni. Salpò da Sciacca l'11 agosto, diretto verso la Secca del Corallo in compagnia del fratello Antonino e di don Gallo, padre domenicano, e rimase in esplorazione fino al giorno 14. Contrariamente a quanto affermato dal capitano inglese, egli trovò una superficie piuttosto incoerente, un ammasso di ceneri e altri materiali eruttivi sciolti. Della bandiera britannica, ovviamente, nessuna traccia. È in forte dubbio che questa sia stata davvero piantata, poiché il vulcano era in piena attività da giorni e lo sarebbe stato per qualche giorno ancora.

 

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Eruzione del 6 agosto 1831

 

Gemmellaro fornì, in quell’occasione di studio, una ricchissima descrizione della terra emersa, dei suoi materiali costitutivi e in generale del vulcanismo in atto:

 

«[...] l’insieme dell’isola si riduce a una conca circolare, irregolare nella sua altezza, a cagione de’ materiali eruttati dal Vulcano, che spinti dal vento la rendono più elevata sempre in quel punto, dove essi vanno a cumularsi. Oggi la parte più alta è verso levante, e la più bassa e meno ripida è a mezzogiorno [...] Il materiale di cui è formato il cratere, e quindi tutta l’isola, si riduce a piccole scorie felspatiche bigie, leggiere, incrostate da altre più ferruginose scorie nerastre, ancor più leggiere, vetrose e cellulari [...] Materiali tutti provenienti, siccome sembra, da roccia trachitica [...] Finalmente quest’isoletta, secondo le cennate osservazioni del sig. Swinburne (eseguite tra il 18 e il 19 luglio, nell’ambito di una missione sproporzionata rispetto al reale contesto; n.d.r.) è situata al grado 37, 7, 30 di latitudine settentrionale, ed al grado 12, 41 di longitudine orientale del meridiano di Londra, trentacinque miglia a mezzogiorno da Sciacca».

 

Dal resoconto di Gemmellaro e dalle sue straordinarie illustrazioni pare proprio che l’attività dell’isola Ferdinandea sia di tipo Surtseyana, considerazione da farsi esclusivamente col senno di poi, poiché questo tipo di vulcanismo prende il nome dall’isola di Surtsey (Islanda), sorta solo nel 1963. Le eruzioni surtseyane sono di tipo esplosivo e si verificano quando la bocca del vulcano si trova al livello dell'acqua. Da ciò dipende la continuità delle esplosioni e la formazione di nuvole piroclastiche dalla particolare conformazione detta “cipressoide” o “a coda di gallo”, esattamente come si osserva dal disegno del professore catanese.

 

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Disegno realizzato dal professor Gemmellaro, 1831

 

Cosa pensava, nel frattempo, Ferdinando II di Borbone della prepotenza inglese? Egli forse non dubitò mai della reale e legittima pertinenza territoriale della nuova isola al Regno delle Due Sicilie, e perché mai avrebbe dovuto farlo? Ma intanto che l’attività eruttiva cessava il 20 agosto, veniva progettata un’ulteriore spedizione, stavolta dai francesi, interessatisi con un po’ di ritardo alla questione.

 

La missione esplorativa francese, partita il 26 settembre, era coordinata dal geologo Louis-Constant Prévost, grande conoscitore del suolo siciliano. Per non essere da meno, anche Parigi volle battezzare quel lembo di terra per rivendicarne la proprietà: si optò per il nome “Julia”, dal mese in cui l’isola vide la luce.

 

A scanso di equivoci, nel mese di ottobre re Ferdinando inviò una comunicazione presso i gabinetti delle antagoniste Londra e Parigi, specificando che l’isola vulcanica appena nata apparteneva alle Due Sicilie in conformità alle leggi vigenti sul diritto internazionale. Ma pare che il re non fu degnato di alcuna risposta e che, anzi, si stesse preparando il terreno per il conflitto.

 

Ma l’isola Ferdinandea, Graham o Julia (senza contare i molti altri nomi conferiti più o meno arbitrariamente da chi ne ha sentito la necessità) stava già regredendo. L’azione erosiva dei flutti marini, infatti, non era più bilanciata dall’accumulo del nuovo materiale espulso. Nel corso di successive ricognizioni, tutti ebbero modo di assistere al triste avvenimento: le dimensioni dell’isolotto si facevano sempre più esigue, giorno dopo giorno, finché l’8 dicembre 1831, il comandante Vincenzo Allotta, a bordo del brigantino Achille, ne appurò la totale sparizione.

 

Quest’isoletta ha quindi rappresentato un potenziale casus belli a tutti gli effetti. Il suo veloce naufragare nel bel mezzo della disputa internazionale ha lasciato tutti gli interessati a bocca asciutta, ed è proprio la fulminea e spettacolare scomparsa che assimila questa singolare vicenda storica a un’intrigante narrazione mitica, in cui una potente divinità come Poseidone, dio indiscusso dei mari, disgustato dall’ingordigia dei mortali, si riprende quanto aveva ingenuamente pensato di donare agli uomini.

 

Oggi l’isola Ferdinandea, che insiste sul Banco Graham, giace non molto pigramente a 6,9 metri di profondità. Essa è figlia, insieme ai vicini banchi Nerita (–16,5 metri) e Terribile (–20 metri), del ben più esteso vulcano sottomarino Empedocle, un gigante dal nome inequivocabile, paragonabile all’Etna per estensione, scoperto nel 2006 dopo tre anni di ricerche, grazie all’interesse di Domenico Macaluso, medico, sommozzatore e Ispettore Onorario ai Beni Culturali della Regione Siciliana e del vulcanologo Giovanni Lanzafame dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Catania.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Di Rienzo E., Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee. 1810-1861, Rubbettino, 2012.

Falautano G., Falzone G., Lanzafame G., Macaluso D., Niosi M., Rossi P., Primi tentativi di monitoraggio dei resti sottomarini dell’eruzione che nel 1831 costruì l’isola Ferdinandea nel Canale di Sicilia, in “Rapporti tecnici INGV”, n. 210, a. 2010.

Gemmellaro C., Relazione dei fenomeni del nuovo vulcano sorto dal mare fra la costa di Sicilia e l’isola di Pantelleria nel mese di luglio 1831, Regia Università di Catania, 1831.

Mazzarella S., Dell’isola Ferdinandea e di altre cose, Sellerio, Palermo 1984.



 

 

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