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N. 82 - Ottobre 2014 (CXIII)

“Occorre votare la pace”

Isocrate e LA concordia panellenica
di Paola Scollo

 

Personalità discussa e controversa della cultura greca del IV secolo a.C., Isocrate ha coltivato l’arte della parola quale indispensabile presupposto dell’educazione e della civiltà, dunque strumento più efficace per l’acquisizione di un corretto modus vivendi.

 

Appartenente a una famiglia benestante, riceve un’ottima educazione arricchita dalla frequentazione dei Sofisti, primo fra tutti Gorgia di Lentini. Trovatosi in ristrettezze economiche in seguito alla guerra del Peloponneso svolge per circa un decennio l’attività di logografo.

 

Nel 390 a.C. fonda una scuola di retorica destinata a entrare in competizione con l’Accademia platonica. A differenza dei filosofi, Isocrate non ambisce alla ricerca della

 

Verità assoluta, desiderando piuttosto guidare gli uomini verso l’acquisizione della saggezza, sophia, garanzia di successo nella dimensione pubblica e privata. Convinto che tale sapienza scaturisca dalla capacità di cogliere l’occasione, concepisce il proprio programma paideutico come una sorta di filosofia pragmatica utile alle svariate e molteplici esigenze della vita quotidiana.

 

La produzione isocratea comprende una ventina di orazioni e nove epistole. Di notevole rilievo sono i discorsi epidittici recitati durante solenni occasioni pubbliche. Nonostante l’interesse per la perfezione formale costituisca il fulcro della sua educazione, Isocrate non rinuncia ad affrontare, soprattutto nelle orazioni principali, temi di attualità per Atene e l’intera Grecia. In ambito politico è sostenitore di una democrazia moderata in grado di equilibrare le spinte radicali del potere popolare e quelle conservatrici della componente oligarchica.

 

Pur mostrando di possedere piena e lucida consapevolezza della realtà, la sua voce vibrante e sincera è rimasta inascoltata. Con ogni probabilità proprio per tale ragione la sua vena più attiva e riformista si è gradualmente inaridita, perdendosi nel nostalgico ricordo del glorioso passato di Atene segnato dall’ombra cupa della delusione per il declino dell’epoca. Illuminante in tal senso è l’orazione Sulla pace in cui esorta gli Ateniesi a deporre ambizioni e progetti imperialistici di fronte alla crescente egemonia macedone. Osserviamola puntualmente.

 

Il contesto storico-politico in cui l’orazione viene concepita è quello della cosiddetta “guerra sociale”, pòlemos symmakhikòs, il conflitto che tra il 357 e il 355 a.C. vede fronteggiarsi Atene con la seconda lega delio-attica, da una parte, e le città di Chio, Rodi, Coo, Caria e Bisanzio, dall’altra.

 

All’origine dello scontro è il malcontento di Chio, Rodi e Coo nei confronti del potere esercitato da Atene sulle città della lega. La situazione degenera in una rivolta, sostenuta peraltro da Bisanzio e dal satrapo cario Mausolo, che produce come immediato effetto il rovesciamento del governo democratico e il distacco dalle altre città confederate. Su iniziativa di Mausolo viene infatti realizzata una confederazione comprendente le città di Chio, Rodi, Bisanzio e Coo che proclamano la loro autonomia da Atene.

 

Ad approfittare dell’instabilità politica e sociale di Atene e dell’intera Grecia è Filippo II di Macedonia, padre del futuro Alessandro Magno. Desideroso di estendere il proprio dominio sul Mar Egeo, il sovrano macedone nel 357 a.C. riesce a espugnare la città di Anfipoli, utilizzata come magazzino per le miniere del monte Pangeo.

 

Nell’inverno 357/6 a.C. Filippo conquista anche Pidna, città che Atene avrebbe dovuto cedere ai Macedoni pur di ottenere Anfipoli. Quando Atene dichiara guerra alla Macedonia, Filippo stringe un’alleanza con Calcide, la potenza settentrionale più influente.

 

Alla Lega Calcidica il sovrano dona la regione di Antemunte e Potidea, conquistata nel 356 a.C., inviando in patria i cleruchi attici. A Oriente Filippo conquista anche Crenidi, colonia di Taso alle pendici settentrionali del Pangeo. In seguito invia nuovi coloni e ribattezza la città con il nome di Filippi.

 

Nel 355 a.C. Atene è costretta ad accettare le richieste di pace, per cui la seconda lega marittima vede ridotto a un terzo il numero delle città confederate, comprendendo ormai solo le Cicladi, l’Eubea, le isole settentrionali dell’Egeo e alcune della costa tracica.

 

Nell’estate del 354 a.C., con la sottomissione della città greca di Metone, si conclude la prima fase dell’espansione del regno di Filippo II. I Macedoni possono ritenersi soddisfatti: hanno oltrepassato le antiche frontiere spingendosi sino al mare.

 

Alla luce di quanto è emerso, l’ascesa della monarchia macedone è stata senz’altro favorita dal progressivo indebolimento di Atene e della sua lega marittima.

 

Ma torniamo a parlare di Atene. Alla vigilia della guerra sociale la scena politica della polis è contesa tra il partito capeggiato da Timoteo, che sostiene la necessità di ricostituire l’impero nel rispetto dell’autonomia e della libertà degli alleati, e quello più numeroso, guidato da Aristofonte e sostenuto dal generale Carete, che si propone di ristabilire l’impero a partire dalla tirannide.

 

Dopo la tragica stagione della guerra del Peloponneso il dibattito che anima la politica riguarda dunque la contrapposizione tra concezione di egemonia e tirannide.

 

In tale orizzonte Isocrate auspica una pace universale nel rispetto delle autonomie dei singoli Stati. Al centro della concordia un ruolo notevole dovrebbe essere assunto da Atene, città leader della grecità, la cui superiorità dovrebbe essere riconosciuta liberamente dagli alleati.

 

Occorre comunque ricordare che la centralità della polis attica risulta fortemente ridimensionata rispetto a quella ipotizzata da Isocrate nel Panegirico. Sono trascorsi ventiquattro anni dal celebre discorso e la situazione appare irreversibilmente mutata.

 

Nell’immagine dell’oratore, è necessario rinunciare al progetto di un impero marittimo in nome di una concordia universale basata sulla pratica della giustizia. L’imperialismo va infatti condannato, in quanto ha prodotto soltanto odi, guerre, ingenti spese e rischi estremi.

 

Opporsi all’ideologia della stolta classe dirigente si configura tuttavia come un’impresa ardua: nonostante vi sia un regime democratico, ad Atene - dichiara Isocrate - non vige libertà di parola, eccezion fatta per i dissennati e in teatro per gli autori delle commedie [14]. Eppure egli non desiste dal proposito di manifestare il proprio punto di vista. Anzi, nell’orazione Sulla pace esordisce dichiarandosi favorevole alla firma della pace non solo con gli abitanti di Chio, Rodi e Bisanzio, ma «con il mondo intero», e all’applicazione del trattato concluso con il Re e con i Lacedemoni che prescrive che gli Elleni siano autonomi, che le guarnigioni sgomberino le città altrui e che ciascuno conservi il proprio territorio [16].

 

Numerosi e innegabili vantaggi conseguirebbero da questa scelta: «[20] Se faremo la pace e ci mostreremo tali quali i patti comuni prescrivono, abiteremo la nostra città in piena sicurezza, liberati da guerre, da pericoli e dal disordine che ora ci affligge con danno reciproco; e ogni giorno progrediremo in benessere, sollevati dalle tasse sul patrimonio, dalle trierarchie e dagli altri carichi di guerra, senza nessun timore di coltivare la terra, navigare il mare e intraprendere le attività che ora languono per colpa della guerra. [21] Vedremo la nostra città riscuotere rendite doppie delle odierne, riempirsi di mercanti, di stranieri e di meteci, di cui ora è deserta. E, quel che più conta, avremo tutti gli uomini per alleati, non costretti con la forza ma convinti, né disposti ad accettare la nostra amicizia in tempi di sicurezza a causa della nostra potenza per poi abbandonarci nei momenti di pericolo, ma animati verso di noi dai sentimenti che devono avere i veri alleati ed amici».

 

Tuttavia - puntualizza - votare la pace non è sufficiente. È necessario elaborare un progetto per il mantenimento della pace stessa al fine di non ricadere, a distanza di tempo, negli stessi disordini: «ciò che occorre trovare non è la dilazione, ma la guarigione definitiva dei nostri mali presenti». E tale situazione può verificarsi solo quando ci si persuade dell’utilità e del valore della tranquillità e della giustizia. Su questi principi risiedono pace e prosperità.

 

Stando a Isocrate, il primo reale impedimento alla realizzazione della giustizia e della concordia è rappresentato dalla presenza di cattivi consiglieri.

 

Scrive infatti: «Quando si decide sugli affari privati si è soliti chiedere consiglio a persone più sagge; quando invece si discute in assemblea sugli affari della città non ci si fida di tali persone, ma si onorano i più malvagi fra quelli che si presentano alla tribuna, stimando quali migliori democratici gli ubriachi dei sobri, i dissennati dei saggi, chi si divide i denari della città di chi sostiene prestazioni pubbliche col proprio denaro [13]».

 

Data la presenza di tali personalità, non è dunque motivo di sorpresa il graduale declino della città. Ulteriore ostacolo alla pace è la convinzione, nutrita dai più, che l’ingiustizia, benché biasimevole, sia proficua e utile per le necessità della vita quotidiana, mentre la giustizia sia inutile e capace di giovare più agli altri che a chi la possiede [31]. A costoro l’oratore replica che nulla può contribuire al guadagno e alla fama, insomma alla felicità, come la virtù nei suoi molteplici aspetti quali pietà, moderazione e giustizia [32].

 

Infatti, «[34] coloro che preferiscono l’ingiustizia e ritengono bene supremo prendere qualcosa agli altri hanno la stessa sorte degli animali attirati da un’esca: in un primo momento godono di ciò che hanno preso, ma poco dopo si trovano nei mali più gravi. Al contrario, coloro che vivono con pietà e giustizia passano il tempo presente nella sicurezza e nutrono più dolci speranze per tutta l’eternità […]. [35] Ma i più irragionevoli di tutti sono quanti, pur ritenendo che la giustizia sia consuetudine più bella e più gradita agli dèi dell’ingiustizia, pensano che chi la segue vivrà peggio di chi ha scelto la via del male».

 

In tale contesto compito dell’oratore e di chi ha a cuore gli interessi delle città non consiste nel pronunciare discorsi piacevoli, ma utili, in quanto per le anime ignoranti e colme di passioni malvagie unico rimedio è il discorso che osa censurare le colpe [40].

 

La follia cui si è giunti ha portato gli Ateniesi ad essere peggiori dei loro antenati. Infatti prosegue: «[54] Mentre quelli nominavano capi della città gli stessi uomini che eleggevano strateghi, pensando che chi alla tribuna era capace di dare i migliori consigli, avrebbe preso, anche quando fosse solo, le migliori decisioni; noi invece facciamo il contrario; [55] quelli di cui seguiamo i consigli negli affari più importanti non riteniamo opportuno eleggerli strateghi come se fossero privi d’intelligenza, mentre quelli che nessuno consulterebbe né per gli affari privati né per i pubblici, li inviamo all’estero con pieni poteri come se là dovessero essere più saggi e decidere sugli interessi degli Elleni più facilmente che sui problemi messi in discussione qui».

 

Se le qualità necessarie alla felicità sono pietà, moderazione e giustizia, il mezzo attraverso cui essere educati ad acquistarle consiste per Isocrate nell’abbandono di ogni aspirazione all’impero. Solo così si amministrerà bene lo Stato, si diverrà migliori e si avrà successo in tutte le imprese [63]. L’imperialismo è dunque la principale causa del disordine dilagante.

 

D’altra parte, si domanda l’oratore: «[69] Se con diecimila talenti non fummo capaci di conservarlo, come potremmo procurarcelo con la presente scarsezza di mezzi, e specialmente praticando non quei costumi con cui lo ottenemmo, ma quelli con cui lo perdemmo?».

 

Ma c’è di più. Non si tratta soltanto di difficoltà economiche. Sono la decadenza dei costumi e la dissennatezza nella gestione del potere a costituire i principali impedimenti alla realizzazione dell’impero marittimo.

 

La maggior parte degli uomini è più propensa al male che al bene e delibera meglio a favore dei nemici che di se stessa [106]. A partire da tale consapevolezza non si deve badare a coloro che non si danno alcun pensiero del futuro né a coloro che, mentre professano di essere amici del popolo, rovinano l’intera città [121]. La principale colpa dei governanti è l’avidità di guadagno. Altra è stata la condotta di Pericle che, avendo ricevuto la città meno saggia di quanto lo fosse prima di conquistare l’egemonia, non si è volto a personali guadagni, lasciando un patrimonio inferiore a quello che aveva ereditato dal padre e riversando sull’Acropoli ottomila talenti oltre ai doni sacri [126].

 

Segue pertanto l’invito a volgere la mente verso il popolo che un tempo dirigeva lo Stato il quale, privo di vizio, di indigenza e di vane speranze, era capace di vincere in battaglia tutti gli invasori del Paese, era giudicato meritevole dei premi del valore e godeva di considerevole fiducia da parte della maggior parte delle altre città.

 

La sete di dominio ha spinto gli Ateniesi a una tale intemperanza da generare, piuttosto che benevolenza da parte degli alleati e stima da parte degli altri Elleni, odio e schiavitù. E la storia del resto ben mostra che i popoli giunti al culmine della potenza sono caduti nelle più gravi sventure.

 

Da ultimo Isocrate elenca i mezzi attraverso cui risollevare e migliorare le condizioni dello Stato: circondarsi negli affari pubblici di persone simili a quelle che si vorrebbero come consiglieri negli affari privati, evitando di considerare democratici i sicofanti e oligarchici i galantuomini; trattare gli alleati come veri amici, nella convinzione di essere più forti di ogni singola città, ma più deboli di tutte messe insieme; impegnarsi al fine di godere di buona fama presso gli Elleni.

 

D’altra parte, «quale città o quale uomo - si interroga - non desidererà essere partecipe della nostra amicizia e alleanza, quando vedranno che noi siamo a un tempo i più giusti e i più potenti, e che, mentre vogliamo e possiamo salvare gli altri, non abbiamo noi stessi bisogno di aiuto?» [139].

 

È bello, in mezzo alle ingiustizie e follie altrui, essere i primi a presiedere con senso di saggezza alla libertà degli Elleni, essere definiti salvatori e non distruttori e, insigni per virtù, riacquistare la gloria degli antenati. Di qui l’invito ad aborrire ogni forma di potere tirannico e oligarchico, cercando piuttosto di godere presso gli alleati della medesima fama che a Sparta viene tributata dai cittadini ai due re: «quell’onore che i re spartani ricevono dai concittadini le nostre condizioni ci offrono la possibilità di ottenerlo dagli Elleni, purché si convincano che la nostra potenza sarà per loro causa non di servitù ma di salvezza» [144].

 

Numerose altre riflessioni sarebbero a questo punto da svolgere, ma la lunghezza del discorso e l’avanzata età rappresentano un valido motivo per non procedere oltre.

 

Segue dunque l’esortazione ai giovani dotati di forze e menti vigorose a pronunciare discorsi capaci di indurre alla giustizia e alla virtù le città più potenti e solite a recar danno alle altre, nella certezza che, quando l’Ellade è prospera, anche le condizioni degli studiosi e dei letterati sono migliori.

 

Alla luce di queste riflessioni, come non unirsi alla voce di Isocrate?

 

Il suo invito giunge a noi estremamente attuale. Uno Stato che coltiva la giustizia e la virtù diviene terreno fertile per la cura e la crescita di ingegni, talenti e risorse.

 

Ma perché ciò sia possibile è indispensabile che la classe dirigente non si arresti a una visione limitata e parziale del presente, ma guardi al futuro nel rispetto della storia passata.

 

Occorre onorare il passato. Immaginare e progettare il futuro è una sfida impegnativa, ma necessaria.

 

Costruire si può e si deve, ma senza demolire l'eredità che vive dentro e fuori di noi.



 

 

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