N. 40 - Aprile 2011
(LXXI)
Da Atatürk ad Allah
L'ascesa dell'Islam nella laica TurcHIa
di Lawrence M.F. Sudbury
La
Turchia
è il
solo
Paese
musulmano
in
cui
l’Islam
non
è
religione
di
Stato,
mentre
il
laicismo
è
sancito
dalla
Costituzione
e quando
si
analizza
il
revival
della
politica
islamica
nelle
aree
mediorientali
molto
raramente
si
pensa
di
primo
acchito
alla
Repubblica
turca.
In
realtà,
però,
la
Turchia
è
oggi,
e a
partire
dagli
anni
‘90,
un
Paese
notevolmente
più
islamico
che
negli
anni
‘60
e
‘70,
al
punto
di
poter
parlare
di
una
vera
e
propria
insorgenza
musulmana:
dal
colpo
di
stato
militare
del
1980
(e
forse
anche
prima)
il
revivalismo
religioso
è
stato
il
nemico
primario
dello
Stato
kemalista
e,
se
anche,
in
confronto
agli
sconvolgimenti
religiosi
del
passato
recente
di
molti
Paesi
mediorientali,
può
apparire
che
la
Turchia,
per
la
sua
storia
e
per
il
suo
assetto
costituzionale,
sia
“protetta”
da
insorgenze
radicali,
ugualmente
le
recenti
tendenze
politiche
forniscono
un
quadro
di
mutamento
della
situazione
di
uno
dei
governi
più
fortemente
secolari
del
mondo.
Per
comprendere
la
radice
di
tale
mutamento
a
partire
dalla
struttura
del
governo
turco
moderno,
si
deve
studiare
il
periodo
immediatamente
successivo
alla
caduta
dell’Impero
Ottomano
e la
nascita
della
repubblica
di
Mustafa
Kemal,
il
padre
della
moderna
Turchia.
Fondamentalmente,
come
è
noto,
la
tendenza
ultranazionalista
che
si
era
diffusa
nel
Paese
dopo
la
sconfitta
ottomana
nella
Prima
Guerra
Mondiale
portò
il
governo
da
una
situazione
di
oligarchia
ereditaria
religiosa
a
una
repubblica
laica.
Questo
processo
fu
sostenuto
dalla
figura
carismatica
e
molto
amata
di
Atatürk,
la
cui
popolarità
aveva
una
duplice
origine:
come
un
eroe
nella
difesa,
durante
la
guerra,
dell’Anatolia
dall’intervento
straniero
si
era
guadagnato
il
sostegno
delle
masse
turche,
mentre
la
sua
volontà
di
occidentalizzare
la
vita
dei
suoi
compatrioti
e di
allontanarsi
dalla
vecchia
politica
religiosa
gli
aveva
garantito
il
sostengono
di
molti
politici
fuori
dal
Medio
Oriente,
in
particolare
tra
i
governi
delle
potenze
occidentali.
Fu
proprio
grazie
a
questi
due
“pilastri
del
suo
potere”
che
egli
riuscì
ad
aprire
una
nuova
fase
della
storia
turca
e a
creare
un
nuovo
Paese
sulle
ceneri
di
un
impero
ormai
scomparso.
Il
Partito
del
Popolo
Repubblicano
(RPP),
fondato
proprio
da
Atatürk,
subito
dopo
la
rivoluzione
del
1923
si
mosse
rapidamente
per
creare
un
programma
di
sviluppo
sulla
base
degli
ideali
del
suo
leader. In
particolare,
per
quanto
riguarda
il
movimento
verso
l’occidentalizzazione,
i
passi
principali
furono:
nel
1924
l’abolizione
del
califfato
ottomano,
le
chiusure
di
massa
delle
scuole
islamiche
e
una
nuova
Costituzione
basata
su
elezioni
quadriennali
e
sul
concetto
di
suffragio
universale
maschile;
nel
1925
l’eliminazione
del
calendario
islamico
con
l’adozione
del
sistema
di
datazione
gregoriano
e la
messa
al
bando
del
fez
e
del
turbante,
sostituiti
da
copricapo
di
stile
più
occidentale;
nel
1926
l’adozione
del
codice
civile
svizzero
e
del
codice
penale
italiano;
nel
1928
l’eliminazione
della
clausola
costituzionale
che
definiva
l’Islam
religione
di
Stato
e la
sostituzione
dell’alfabeto
arabo
con
un
alfabeto
latinizzato
turco
creato
da
Atatürk
stesso;
nel
1934
l’adozione
giuridica
dei
cognomi,
quando
Kemal
prese
ufficialmente
il
nome
di
Atatürk,
il
“padre
dei
turchi”;
nel
1936,
infine,
l’elaborazione
delle
cosiddette
“Sei
frecce”
dell’RPP,
cioè
dei
principi
ideologici
su
cui
il
nuovo
Stato
avrebbe
dovuto
reggersi
e
che
sarebbero
stati
inseriti
nella
Costituzione
nazionale
(repubblicanesimo,
nazionalismo,
populismo,
laicità,
rivoluzionarismo,
statalismo).
Con
queste
riforme
la
Turchia
sarebbe
emersa
come
Nazione
ponte
tra
l’Europa
e il
Medio
Oriente
ma
anche
come
entità
singolare,
non
completamente
appartenente
a
nessuna
delle
due
culture.
Per
portare
a
termine
questo
processo
risultava
assolutamente
fondamentale
spingere
la
vita
pubblica
e
politica
verso
una
secolarizzazione
dell’interpretazione
del
concetto
di
società
e
Atatürk
si
mosse
con
grande
decisione
in
questo
senso.
Egli
si
spinse
fino
a
dichiarare
che
gli
Ulema
erano
una
forza
restaurativa
e
retrograda
e
iniziò
ad
erodere
il
potere
della
religione
pretendendo
il
controllo
statale
di
tutta
l’educazione,
la
chiusura
dei
tribunali
islamici
che
adottavano
la
Sha’aria,
lo
scioglimento
delle
organizzazioni
e
delle
confraternite
religiose
e
l’inclusione
di
tutti
i
funzionari
religiosi nel
corpus
dei
dipendenti
pubblici.
Lo
scoraggiamento
di
Atatürk
di
ogni
pratica
religiosa
venne
effettuato
con
tale
autorità
che,
dopo
il
cambio
del
giorno
ufficiale
di
riposo
dal
venerdì
alla
domenica,
molti
dei
suoi
colleghi
politici
arrivarono
addirittura
a
cambiare
il
proprio
comportamento
religioso
nel
giro
di
pochi
giorni.
Un
tale
livello
di
rivoluzione
sociale
non
avvenne
né
in
modo
indolore,
né
senza
costi
per
la
democrazia:
nella
repubblica
il
potere
politico
venne
completamente
concentrato
nella
Grande
Assemblea
Nazionale,
in
cui
il
Partito
Popolare
Repubblicano
era,
per
usare
un
termine
eufemistico,
“forza
trainante”. In
realtà,
al
di
là
delle
circonvoluzioni
linguistiche
formali,
la
Turchia
di
Atatürk
era
un
Paese
con
un
sistema
a
partito
unico,
tranne
per
il
periodo
di
un
breve
flirt
del
Presidente
con
il
Partito
Liberale,
nel
1930,
in
cui
questa
nuova
forza
politica
venne
creata
come
forza
di
opposizione
ufficiale
ma
venne
cancellata
nell’arco
di
tre
mesi
allorché
risultò
chiaro
che
essa
stava
diventando
un
veicolo
per
tutti
coloro
che
si
opponevano
alla
repubblica,
inclusi
i
fondamentalisti
religiosi.
Da
quel
momento
in
poi,
Atatürk
pose
in
atto
la
creazione della
figura
dei
“deputati
indipendenti,”
non-membri
dell’RPP
il
cui
compito
era
quello
di
criticare
il
governo
in
pubblico
e di
ampliare
la
teoria
della
“opposizione
leale”,
ma
che,
in
fondo,
risultavano
unicamente
organici
al
governo
stesso,
soprattutto
perché
la
loro
nascita
fu
parallela
a
quella
delle
“halkevleri”,
o
“case
della
gente”,
istituzioni
che
teoricamente
dovevano
servire
da
modelli
di
auto-amministrazione
popolare
e
per
l’incremento
dell’istruzione
generale
ma
che,
all’atto
pratico,
furono
solamente
strumenti
di
indottrinamento
politico.
Il
periodo
degli
anni
‘30
vide
l’espansione
dello
sviluppo
economico
e
sociale,
con
miglioramenti
notevoli
in
settori
quali
istruzione
statale,
sistemi
di
trasporto
e
comunicazioni
e
con
i
primi
accenni
di
industrializzazione,
per
quanto
possibile
con
le
risorse
limitate
della
Turchia.
Questo,
però,
fu
anche
il
momento
in
cui
la
neonata
Nazione
si
trovò
ad
affrontare
la
sua
prova
più
dura,
la
morte
di
Atatürk
nel
1938. Fu
da
questo
punto
in
avanti
che
i
cambiamenti
nella
politica
turca
portarono
l’assetto
statale
alla
sua
forma
attuale,
con
una
serie
di
riforme
iniziate
sotto
Ismet
Inönü,
successore
di
Atatürk,
nel
1946. Inönü
chiese
l’allentamento
delle
restrizioni
nei
confronti
dei
partiti
politici,
permettendo
a
quattro
membri
di
spicco
dell’RPP
di
dar
vita
a
una
scissione
e
formare
il
Partito
Democratico
(DP),
che
vinse
un
piccolo
numero
di
seggi
nelle
elezioni
del
1946.
Non
fu,
però,
che
nel
1950
che
la
Nazione
venne
sconvolta
dalla
vittoria
di
massa
del
nuovo
partito
e
dal
trasferimento
pacifico
dei
poteri
dall’RPP
al
DP
che
pose
termine
al
periodo
kemalista
all’interno
della
politica
turca.
Il
decennio
successivo
vide
importanti
cambiamenti
nella
pratica
del
governo
turco,
con
particolare
riguardo
alla
religione. Il
governo
RPP,
ad
esempio,
aveva
permesso
l’insegnamento
religioso
nelle
scuole
statali
se
richiesto
dai
genitori,
mentre
il
DP
annunciò
che
ora
sarebbe
stato
previsto
per
tutti
gli
studenti,
a
meno
che
i
genitori
non
avessero
chiesto
una
esenzione
per
i
figli. Allo
stesso
modo,
i
finanziamenti
governativi
per
le
moschee
aumentarono
e la
politica
di
scoraggiamento
generale
della
pratica
religiosa
venne
attenuata.
L’economia
fu
il
il
secondo
centro
della
riforma
del
DP:
si
accrebbero
gi
incentivi
alle
imprese
private
e
ciò
portò,
in
accordo
con
la
Dottrina
Truman,
ad
aiuti
su
larga
scala
dagli
Stati
Uniti,
cosicché,
nonostante
il
disavanzo
finanziario
dopo
l’impennata
dei
prezzi
dei
cereali
a
seguito
della
guerra
di
Corea,
che,
con
i
problemi
legati
alla
crescente
urbanizzazione,
portò
ad
un
periodo
di
rapida
inflazione,
nell’insieme
il
tenore
di
vita
migliorò
e la
popolarità
del
DP
crebbe
nelle
votazioni
del
1954
e
del
1957,
permettendo
al
partito
di
mantenere
il
suo
potere
politico.
Il
periodo
che
inizia
con
il
1959
inaugurò
la
successiva
ondata
di
riforme
nella
politica
turca:
quando
la
situazione
economica
divenne
ancora
più
instabile,
i
creditori
della
Turchia
invitarono
la
Banca
Mondiale
a
normalizzare
la
situazione
e
l’opposizione
del
RPP
diventato
più
forte. Nel
maggio
del
1960
la
Turchia
affrontò
il
suo
primo
colpo
di
Stato
militare
quando
l’esercito
estromise
il
DP
dal
governo
e il
gruppo
di
ufficiali
che
formava
il
Comitato
di
Unità
Nazionale
avviò
la
riforma
del
diritto
costituzionale
ed
elettorale
sulla
base
dei
principi
di
Atatürk. Venne
redatta
una
nuova
Costituzione
in
cui
si
chiedeva
la
creazione
di
un
Senato
e di
una
Corte
Costituzionale
e un
nuovo
sistema
elettorale
basato
sul
concetto
di
rappresentanza
proporzionale.
Ottenuto
questo,
i
militari
si
ritirarono
dalla
politica
e la
repubblica
tornò
al’ordine:
l’
RPP
tornò
al
potere
alla
testa
di
una
coalizione
di
governo,
solo
per
essere
sconfitto
nel
1965
quando
il
Partito
della
Giustizia
(JP),
il
successore
del
DP,
ottenne
una
netta
vittoria
alle
elezioni,
che,
con
un
programma
economico
e
sociale
simile
a
quello
del
suo
predecessore,
si
confermò
nel
1969.
Tuttavia,
nel
1968
Necmettin
Erbekan
spaccò
l’unità
del
Partito
della
Giustizia
di
Suleiman
Demirel
per
formare
il
Partito
Islamico
Nazionale
dell’Ordine,
mentre,
poco
dopo,
un
altro
gruppo
di
ministri
del
JP
formarono
il
neo-fascista
Partito
di
Azione
Nazionale. Gli
scontri
tra
JP,
RPP
e
queste
nuove
fazioni
portarono
ad
anni
di
stagnazione
politica
e a
enormi
problemi
economici,
tanto
che,
ancora
una
volta,
nel
1971,
i
militari
si
sentirono
in
dovere
di
compiere
un
colpo
di
Stato
che
avrebbe
dovuto
essere
“un
avvertimento
al
governo
Demirel”
e
che
portò
immediatamente
alle
dimissioni
di
Demirel
stesso
e,
nel
tentativo
di
garantire
un
ritorno
alla
laicità
kemalista,
alla
messa
al
bando
del
Partito
Nazionale
dell’Ordine. L’RPP
tornò
al
potere
nel
1973,
sotto
la
guida
del
nuovo
Primo
Ministro
Bulent
Ecevit,
in
coalizione,
però,
con
Necmettin
Erbekan,
ora
a
capo
del
Partito
di
Salvezza
Nazionale
(PSN),
formato
dalle
ceneri
proprio
del
PNO.
Instabilità
e
violenza
segnarono
il
periodo
successivo
della
vita
politica
turca,
guidata
sempre
dall’RPP,
soprattutto
dopo
che
nel
1974
la
Turchia
invase
la
parte
settentrionale
di
Cipro
e
gli
Stati
Uniti
tagliarono
gli
aiuti
al
Paese.
Sia
il
PAN
che
il
PSN
svilupparono,
in
questo
periodo,
alleanze
con
associazioni
giovanili
e
sindacati
vicini
alle
loro
rispettive
ideologie
ed
entrambi
i
partiti
cominciarono
anche
a
instaurare
legami
con
gruppi
di
lavoratori
turchi
in
Europa,
così
da
ottenere
un
buon
afflusso
di
capitali
governativi
nelle
loro
casse.
Nelle
elezioni
del
1977
il
Partito
della
Giustizia
fu
in
grado
di
formare
coalizioni
con
entrambi
e,
così
facendo,
di
mantenere
una
presa
precaria
sul
potere
come
maggior
forza
d’opposizione.
Nel
frattempo,
si
assisteva
alla
forte
attrazione
esercitata
sui
ranghi
del
RPP
dalla
sinistra
radicale,
cosa
che
portò
a
una
forte
frattura
politica
interna
e a
una
paralisi
di
governo:
appariva
chiaro
che
ala
destra
e
ala
sinistra
dell’RPP
non
potevano
convivere
e
risolvere
congiuntamente
i
problemi
economici
o
sociali
del
Paese
che,
tra
l’altro,
stava
conoscendo
un
periodo
di
violenza
e di
guerriglia
urbana
tra
i
gruppi
radicali
della
destra
e
della
sinistra .
Nel
frattempo
il
deterioramento
delle
condizioni
economiche
persisteva:
i prezzi
mondiali
del
petrolio
continuavano
salire
innescando
una
recessione
globale.
e il
governo,
spesso
accusato
di
negligenza
nel
controllo
delle
spese,
vide
crescere
il
debito
estero
turco
a
livelli
tali
che
i
mercati
esteri
cominciarono
a
rifiutare
i
pagamenti
in
Lira
turca,
innescando
una
spirale
inflattiva
abnorme.
Con
l’economia
turca
vicino
collasso
i
militari
intervennero
nuovamente
nel
settembre
1980
e,
con
un
golpe
accolto
con
sollievo
da
praticamente
tutto
il
Paese,
il
controllo
del
governo
fu
posto
nelle
mani
del
generale
Kenan
Evren
e
del
suo
Consiglio
di
Sicurezza
Nazionale,
che
subito
iniziarono
a
cercare
di
normalizzare
la
democrazia
turca.
La
seguente
“sanificazione”
della
politica
turca
portò
alla
dissoluzione
di
tutti
i
partiti
e
alla
promozione
di
nuovi
attori
politici
senza
collegamento
con
la
politica
pre-1980. Tuttavia,
i
partiti
che
nacquero
in
questo
nuovo
contesto
risultarono
essere
tutte
ricreazioni
di
organizzazioni
preesistenti:
il
Partito
Madrepatria
(ANAP),
nato
dal
golpe,
emerse
più
o
meno
dalle
ceneri
dell’ala
destra
dell’RPP,
il
JP
cambiò
leggermente
la
sua
piattaforma
rinominandosi
Partito
del
Vero
Sentiero
e il
PSN
semplicemente
cambiò
nome
in
“Refah”
o
Partito
del
Benessere.
Tutti
questi
gruppi
erano,
comunque,
sotto
la
guida
di
nuovi
leader,
dal
momento
che
alla
maggior
parte
dei
politici
pre-1980
era
stata
vietata
ogni
attività
pubblica. Venne
anche
elaborata
una
nuova
Costituzione
che
dava
più
potere
al
Presidente
rispetto
all’Assemblea,
il
Senato
fu
abolito,
e
Kenan
venne
eletto
Presidente
per
un
mandato
di
sette
anni.
Le
elezioni
del
1983
portarono
al
successo
dell’ANAP
per
diversi
motivi:
l’ANAP
era
visto
come
il
partito
più
in
grado
di
ripristinare
un
governo
civile
a
causa
del
non
coinvolgimento
del
suo
leader,
Turgut
Özal,
con
la
tutela
militare;
la piattaforma
economica
dello
schieramento,
basata
sull’esportazione
di
manufatti
altamente
competitivi
sui
mercati
mondiali
e
molto
vicina
al
piano
di
ristrutturazione
economica
del
FMI
del
1980
era
considerata
molto
positivamente
in
vista
del
ripristino
degli
aiuti
degli
Stati
Uniti
(anche
in
seguito
alla
rivoluzione
iraniana);
la
composizione
del
partito,
che
univa
elementi
di
estrazione
religiosa,
nazionalisti
e
figure
provenienti
da
gruppi
regionali
dava
una
garanzia
di
stabilità
anche
a
causa
della
debolezza
dei
partiti
d’opposizione.
Il
successo
del
Partito
Madrepatria
venne
confermato
alle
elezioni
generali
del
1987
allorché
si
assicurò
il
36,3%
dei
voti.
seguito
dal
populista
Partito
Social
Democratico
(SHP)
con
il
24,8%,
e da
“Vero
Sentiero”
con
il
19,8%,
mentre
nessun
altro
gruppo
superò
lo
sbarramento
del
10%
costituzionalmente
necessario
per
avere
rappresentanza
parlamentare.
Tuttavia,
nel
1989,
alle
elezioni
comunali,
il
sostegno
ANAP
era
già
sceso
al
21,7%,
in
un
processo
di
perdita
del
consenso
degli
elettori
che
appariva
irreversibile,
soprattutto
a
causa
di
numerose
decisioni
politico-economiche
basate
più
sulle
opinioni
dei
ministri
del
governo
che
su
un
normale
processo
burocratico-legislativo
e
sulla
concessione
di
sussidi
e
crediti
alle
imprese
assegnati
solo
a
sostenitori
del
partito
e
punitive
nei
confronti
delle
aziende
che
avevano
favorito
partiti
rivali.
Alle
elezioni
del
1991,
così,
apparve
evidente
l’emersione
di
una
nuova
tendenza:
sorprendentemente
il
partito
Vero
Sentiero
salì
al
potere
nel
nuovo
parlamento,
Suleiman
Demirel
riemerse
come
Presidente
della
Turchia
e,
poco
dopo,
nel
1994,
Tansu
Ciller
venne
scelta
come Primo
Ministro,
prima
donna
a
ricoprire
tale
carica
nella
storia
turca.
Il
vero
shock
fu,
però,
il
ritorno
di
Necmettin
Erbekan
e
del
suo
partito
“Refah”,
che
ottenne
il
5%
dei
seggi
alla
Grande
Assemblea
nazionale
e fu
in
grado
di
vincere
elezioni
locali
per
posizioni
di
grande
prestigio
quali
quelle
del
sindaco
di
Istanbul
e
del
sindaco
della
capitale
Ankara.
Il
ritorno
di
un
partito
religioso
fu
inaspettato
per
molti
sia
all’interno
che
all’esterno
della
scena
politica
turca:
pur
occupando
una
posizione
di
minoranza
nel
governo,
l’elezione
di
ministri
di
Refah
fu
un
segnale
del
riemergere
della
religione
nella
politica
nella
repubblica
laica. Tale
tendenza
proseguì
nelle
elezioni
del
1995,
allorché
l’ANAP
e
Vero
Sentiero
si
attestarono
sotto
il
20%
dei
seggi
in
parlamento
e
Refah
sconvolse
il
mondo
ottenendo
un
decisivo
21,3%
della
Grande
Assemblea
Nazionale.
Con
nessun
partito
in
grado
di
avere
la
maggioranza
assoluta,
l’idea
di
una
coalizione
islamista
al
governo
della
Turchia
divenne
una
realtà.
Ci
sono
diverse
ragioni
che
possono
spiegare
tale
revival
della
religione
nella
politica
in
Turchia. Tra
esse,
la
prima
è,
ovviamente
che
la
popolazione
della
Turchia
è
per
il
99%
musulmana,
e,
comprensibilmente,
risulta
favorevole
ad
un
governo
a
guida
islamica.
Di
fatto,
però,
il
percorso
delle
riforme
di
Atatürk
e la
tradizione
del
kemalismo
dopo
la
sua
morte
avevano
effettivamente
bloccato
la
partecipazione
religiosa
al
governo:
la
religione
era
stata
sotto
il
controllo
statale
dall’inizio
della
Repubblica,
l’organizzazione
di
Islam
era
stato
sotto
il
controllo
della
Presidenza
degli
Affari
religiosi,
che
viene
nominato
dal
Consiglio
dei
Ministri,
a
sua
volta
nominato
dal
Primo
Ministro
e
gli
insegnanti,
i
libri
di
testo,
e i
curricula
di
tutte
le
scuole
religiose
erano
stati
posti
sotto
la
diretta
supervisione
del
Direttore
Generale
dell’Educazione
religiosa,
un
ufficio
separato
del
Ministero
della
Pubblica
Istruzione,
il
cui
personale
risultava
sotto
il
Controllo
dello
Stato.
La
Costituzione
del
1982,
inoltre
era
stata
progettata
per
sopprimere
la
religione
negli
affari
pubblici:
tre
articoli
della
Costituzione
e
diversi
altri
dal
codice
penale
proibiscono
tutt’ora
l’uso
della
religione
per
scopi
politici
o
per
guadagno
privato
(il
Partito
Repubblicano
Progressista
del
1924,
il
Libero
Partito
Repubblicano
del
1930,
il
Partito
della
Nazione
del
1954,
il
Partito
Nazionale
dell’
Ordine
del
1972
e il
Partito
di
Salvezza
Nazionale
del
1980
sono
stati
tutti
messi
fuori
legge
per
la
violazione
di
queste
leggi).
Proprio
su
questa
base,
nel
momento
in
cui
si
era
permesso
al
“Refah
Partisi”
di
esistere,
si
poteva
prevedere
come
conseguenza
naturale
che
influenza
religiosa
repressa
per
tanti
anni
sarebbe
emersa
in
forma
di
sostegno
per
il
partito,
senza
per
questo
dover
ricorrere
a
considerazioni
estreme
come
quelle
riguardanti
il
fatto
che
la
Turchia
possa
essere
vittima
di
un
“Sindrome
iraniana”.
Il
successo
della
piattaforma
di
Refah
può
anche
essere
compreso
anche
sulla
base
della
sostanziale
moderazione
e
modernità
che
la
caratterizzava
in
quel
momento:
il
cuore
della
sua
azione
politica
era
dato
dalla
decisione
di
concentrarsi
sulla
modernizzazione
dell’economia
turca
al
fine
di
rendere
un’unione
doganale
con
l’Unione
Europea
possibile
e
sul
pieno
sostegno
di
un
giro
di
vite
militare
a
tutto
campo
contro
il
partito
fuorilegge
del
Kurdistan
(Pkk )
nel
sud-est
della
Turchia,
entrambi
fronti
sui
quali
il
governo
Ciller
aveva
fatto
progressi
solo
marginali,
senza
risolvere
completamente
la
situazione.
Inoltre,
la
crisi
economica
del
1994
aveva
visto
un
crollo
del
tenore
di
vita
nel
momento
in
cui
i
redditi
dei
turchi
non
erano
riusciti
a
tenere
il
passo
con
un
tasso
del
134%
di
inflazione
e,
seppure
nel
1995
tale
tasso
era
migliorato
scendendo
al
90
per
cento,
le
classi
inferiori
avevano
continuato
ad
avere
enormi
difficoltà
nel
provvedere
al
proprio
sostentamento:
Refah,
auto-nominandosi
difensore
di
operai,
artigiani
e
piccoli
commercianti
minacciati
dai
tassi
di
interesse
e
dalla
alta
disoccupazione
“contrari
all’islam”,
non
poteva
che
diventare
la
“via
di
salvezza
possibile”
proprio
per
le
classi
più
colpite.
In
realtà,
fin
dal
1985
molti
membri
della
stampa
turca
pensavano
che
Refah
avrebbe
giocato
un
ruolo
significativo
nel
futuro
della
politica
nazionale,
ma
una
spiegazione
per
i
suoi
scarsi
risultati
elettorali
in
quella
tornata
può
essere
data
dalla
dispersione
e
dalla
competizione
tra
le
fazioni
islamiche:
insieme
con
la
creazione
di
Refah,
i
superstiti
del
Partito
di
Salvezza
Nazionale
si
erano
allineati
anche
con
il
nuovo
Partito
Madrepatria
e,
infatti,
la
forza
dell’elemento
islamista
nell’ANAP
era
divenuta
evidente,
soprattutto
in
entrambi
i
vice-presidenti
del
partito
e
nel
Ministero
della
Pubblica
Istruzione,
con
numerose
decisioni
controverse
quali
il
divieto
di
insegnamento
della
teoria
di
Darwin
sia
nelle
scuole
primarie
che
secondarie,
il
divieto
di
pubblicità
della
birra
alla
radio
e
sulla
televisione
nazionale,
la
legge
che
vietava
l’apertura
di
bar
nel
raggio
di
200
metri
da
scuole,
dormitori
studenteschi,
società
sportive,
o
moschee,
l’aggiunta
dell’arabo
nei
programmi
scolastici,
l’ampliamento
dell’istruzione
religiosa
e la
censura
religiosa
sui
libri
di
testo,
che
aveva
finito
per
cancellare
la
conoscenza
di
alcuni
dei
personaggi
più
fermamente
laicisti
del
periodo
kemalista.
In
sostanza,
dunque,
una
forte
presenza
musulmana
nella
politica
nazionale
esisteva
già,
sebbene
ipocriticamente
velata,
e,
anzi,
si
trattava
di
una
presenza
fortemente
tradizionalista,
in
realtà
molto
meno
moderata
di
quella
apparentemente
richiesta
del
partito
Refah
che,
dopo
il
referendum
del
1987
per
rimuovere
il
divieto
ai
politici
pre-1980
di
partecipare
alla
vita
pubblica,
era
di
nuovo
in
mano
a
Erbekan,
ormai
veterano
della
politica
con
30
anni
di
esperienza,
capace
di
modellare
l’ideologia
del
partito
sulla
sua
visione
della
società,
basata
su
un
rifiuto
dello
stretto
laicismo
di
stato
ma
anche
sulla
volontà
di
mantenere
la
democrazia.
Certamente,
però,
quella
di
Refah
è
stata
a
lungo
una
posizione
ondivaga:
se,
da
un
lato,
il
partito
ha,
come
detto,
sempre
avuto
come
obiettivo
l’entrata
nell’Unione
Europea,
da
un
altro
lato
la
visione
di
Erbekan
è
spesso
sembrata
completamente
opposta,
tesa
a
riallineare
la
Turchia
verso
il
mondo
islamico
e a
voltare
le
spalle
all’Occidente,
che,
secondo
lui,
stava
riducendo
il
Paese
alla
“schiavitù”. Questo
doppio
registro
avrebbe
da
subito
dovuto
risultare
un
campanello
d’allarme
per
chi
vedeva
in
Refah
una
forza
in
fin
dei
conti
solo
tendenzialmente
islamica.
Il
fatto
è
che
sia
il
carattere
precipuo
dell’Islam,
che
è
una
religione
non
solo
spirituale
ma
assegna
anche
doveri
politici
ai
suoi
seguaci,
sia
la
situazione
economica
disastrosa
di
metà
degli
anni
‘90,
che
aveva
portato
l’Islam
a
essere
visto
come
l’ideologia
politica
dei
poveri,
degli
emarginati
e
degli
indigenti,
sia
infine,
la
mancanza
di
una
vera
leadership
politica
del
Paese
che
potesse
contrastare
il
peso
del
sogno
di
un
ritorno
alla
grandezza
del
passato
islamico
sono
stati
tutti
elementi
che
hanno
giocato
fortemente
a
favore
di
Refah
e
del
suo
presidente,
che,
infatti,
tra
1996
e
1997
ha
assunto
una
premiership
rivelatasi
piuttosto
disastrosa.
Giunto
al
potere,
infatti,
Erbekan
ha
cominciato,
in
contrapposizione
con
le
linee
guida
del
suo
stesso
schieramento,
a
descrivere
l’Unione
Europea
come
un
“club
dei
Cristiani”
a
cui
contrapporre
una
“Unione
Islamica
dal
Kazakistan
al
Marocco”,
ha
definito
la
sua
nuova
Turchia
come
liberatrice
di
Bosnia,
Cecenia,
Azerbaigian
e
Gerusalemme
e,
inevitabilmente,
ha
fatto
affondare
l’indice
borsistico
di
Istanbul.
Solo
l’ennesimo
intervento
militare,
nel
1997,
in
quello
che
è
stato
definito
“un
colpo
di
Stato
post-moderno”
(l’esercito
ha
solo
minacciato
di
intervenire
e,
così
facendo,
ha
imposto
le
proprie
decisioni
al
mondo
politico
ed
economico),
ha
salvato
la
Turchia
da
una
deriva
fondamentalista,
interdicendo
Erbakan,
ma
non
il
suo
partito,
dalla
politica
(per
altro
egli
è
rimasto
il
“grande
vecchio”
dell’Islamismo
politico,
prima
alle
spalle
di
Refah,
poi
fondando,
attraverso
figure
fantoccio,
il
“Partito
della
Virtù”,
incostituzionale
dal
2001
e,
dunque,
trasformato
nel
“Partito
della
felicità”,
ancora
esistente)
e
reinstaurando,
con
la
premiership
di
Mesut
Yilmaz
dell’ANAP,
una
parvenza
di
laicità
kemalista.
Il
problema
è
che
il
danno
è
ormai
stato
fatto
tra
metà
degli
anni
‘80
e
metà
degli
anni
‘90:
se
anche
i
successivi
governi
di
Yilmaz
(pur
nella
imperante
corruzione
che
ha
caratterizzato
i
suoi
mandati)
e di
Bülent
Ecevit
(dell’RPP)
hanno
rallentato,
in
nome
del
laicismo,
il
processo
di
islamizzazione
del
Paese,
l’idea
di
un
ritorno
alla
Nazione
musulmana
è
ormai
penetrato
in
profondità
nei
gangli
della
società,
come
è
visibile
passeggiando
in
qualsiasi
città
turca,
dove
gli
hijab
sono
progressivamente
sempre
di
più,
dove
sono
riapparsi
i
vestiti
tradizionali,
dove
le
preghiere
pubbliche
sono
sempre
più
affollate
e
dove
le
prediche
degli
Imam
sono
sempre
più
radicali.
Così,
il
progetto
di
una
Nazione
laica
ponte
tra
est
e
ovest,
in
cui
una
cultura
tradizionale
convivesse
con
elementi
di
modernità
occidentale
sembra
essere
svanito
in
una
deriva
che
sta
sempre
più
riportando
la
Turchia
nelle
braccia
del
fondamentalismo
e la
sta
riportando
dal
basso,
dalle
periferie
di
Istambul,
Smirne
e
Ankara,
dai
quartieri
poveri
in
cui
l’Islam
sembra
essere
la
sola
speranza,
dalla
marea
crescente
di
disoccupati
sempre
più
lontani
dal
sogno
di
un
benessere
di
“stile
europeo”.
L’elezione
di
Recep
Tayyip
Erdoğan
a
Primo
Ministro
nel
2003
e di
Abdullah
Gül
a
Presidente
(primo
Presidente
islamico
della
storia
della
Repubblica
turca)
nel
2007,
entrambi
appartenenti
al
“Partito
della
Giustizia
e
del
Progresso”,
nato
dalla
scissione
dell’ala
più
moderata
del
vecchio
Refah
(ora
legalmente
disciolto)
e da
quasi
dieci
anni
partito
di
maggioranza
relativa
sono
indicativi
in
questo
senso,
ma
la
vera
questione
rimane
aperta:
per
ora
la
Turchia
ha
scelto
una
“via
mediana”,
in
cui
Islam
e
modernità
tentano
di
convivere,
ma
se
la
situazione
socio-economica
non
avrà
miglioramenti
in
tempi
brevi,
il
processo
di
islamizzazione
in
atto
continuerà
e
finirà
per
ramificarsi
fino
a
inglobare
il
mondo
politico.
Il
fondamentalismo
è
dietro
l’angolo
e la
Nazione-ponte
potrebbe,
tragicamente,
diventare
l’avamposto
dell’Islam
radicale
verso
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