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Filosofia & religione


N. 40 - Aprile 2011 (LXXI)

Da Atatürk ad Allah
L'ascesa dell'Islam nella laica TurcHIa

di Lawrence M.F. Sudbury

 

La Turchia è il solo Paese musulmano in cui l’Islam non è religione di Stato, mentre il laicismo è sancito dalla Costituzione e quando si analizza il revival della politica islamica nelle aree mediorientali molto raramente si pensa di primo acchito alla Repubblica turca.

 

In realtà, però, la Turchia è oggi, e a partire dagli anni ‘90, un Paese notevolmente più islamico che negli anni ‘60 e ‘70, al punto di poter parlare di una vera e propria insorgenza musulmana: dal colpo di stato militare del 1980 (e forse anche prima) il revivalismo religioso è stato il nemico primario dello Stato kemalista e, se anche, in confronto agli sconvolgimenti religiosi del passato recente di molti Paesi mediorientali, può apparire che la Turchia, per la sua storia e per il suo assetto costituzionale, sia “protetta” da insorgenze radicali, ugualmente le recenti tendenze politiche forniscono un quadro di mutamento della situazione di uno dei governi più fortemente secolari del mondo.


Per comprendere la radice di tale mutamento a partire dalla struttura del governo turco moderno, si deve studiare il periodo immediatamente successivo alla caduta dell’Impero Ottomano e la nascita della repubblica di Mustafa Kemal, il padre della moderna Turchia. 

 

Fondamentalmente, come è noto, la tendenza ultranazionalista che si era diffusa nel Paese dopo la sconfitta ottomana nella Prima Guerra Mondiale portò il governo da una situazione di oligarchia ereditaria religiosa a una repubblica laica.

 

Questo processo fu sostenuto dalla figura carismatica e molto amata di Atatürk, la cui popolarità aveva una duplice origine: come un eroe nella difesa, durante la guerra, dell’Anatolia dall’intervento straniero si era guadagnato il sostegno delle masse turche, mentre la sua volontà di occidentalizzare la vita dei suoi compatrioti e di allontanarsi dalla vecchia politica religiosa gli aveva garantito il sostengono di molti politici fuori dal Medio Oriente, in particolare tra i governi delle potenze occidentali. Fu proprio grazie a questi due “pilastri del suo potere” che egli riuscì ad aprire una nuova fase della storia turca e a creare un nuovo Paese sulle ceneri di un impero ormai scomparso.


Il Partito del Popolo Repubblicano (RPP), fondato proprio da Atatürk, subito dopo la rivoluzione del 1923 si mosse rapidamente per creare un programma di sviluppo sulla base degli ideali del suo leader. In particolare, per quanto riguarda il movimento verso l’occidentalizzazione, i passi principali furono:

nel 1924 l’abolizione del califfato ottomano, le chiusure di massa delle scuole islamiche e una nuova Costituzione basata su elezioni quadriennali e sul concetto di suffragio universale maschile;

nel 1925 l’eliminazione del calendario islamico con l’adozione del sistema di datazione gregoriano e la messa al bando del fez e del turbante, sostituiti da copricapo di stile più occidentale;

nel 1926 l’adozione del codice civile svizzero e del codice penale italiano;

nel 1928 l’eliminazione della clausola costituzionale che definiva l’Islam religione di Stato e la sostituzione dell’alfabeto arabo con un alfabeto latinizzato turco creato da Atatürk stesso;

nel 1934 l’adozione giuridica dei cognomi, quando Kemal prese ufficialmente il nome di Atatürk, il “padre dei turchi”; 

nel 1936, infine, l’elaborazione delle cosiddette “Sei frecce” dell’RPP, cioè dei principi ideologici su cui il nuovo Stato avrebbe dovuto reggersi e che sarebbero stati inseriti nella Costituzione nazionale (repubblicanesimo, nazionalismo, populismo, laicità, rivoluzionarismo, statalismo).

 

Con queste riforme la Turchia sarebbe emersa come Nazione ponte tra l’Europa e il Medio Oriente ma anche come entità singolare, non completamente appartenente a nessuna delle due culture. Per portare a termine questo processo risultava assolutamente fondamentale spingere la vita pubblica e politica verso una secolarizzazione dell’interpretazione del concetto di società e Atatürk si mosse con grande decisione in questo senso. 

 

Egli si spinse fino a dichiarare che gli Ulema erano una forza restaurativa e retrograda e iniziò ad erodere il potere della religione pretendendo il controllo statale di tutta l’educazione, la chiusura dei tribunali islamici che adottavano la Sha’aria, lo scioglimento delle organizzazioni e delle confraternite religiose e l’inclusione di tutti i funzionari religiosi nel corpus dei dipendenti pubblici. 

 

Lo scoraggiamento di Atatürk di ogni pratica religiosa venne effettuato con tale autorità che, dopo il cambio del giorno ufficiale di riposo dal venerdì alla domenica, molti dei suoi colleghi politici arrivarono addirittura a cambiare il proprio comportamento religioso nel giro di pochi giorni.


Un tale livello di rivoluzione sociale non avvenne né in modo indolore, né senza costi per la democrazia: nella repubblica il potere politico venne completamente concentrato nella Grande Assemblea Nazionale, in cui il Partito Popolare Repubblicano era, per usare un termine eufemistico, “forza trainante”. In realtà, al di là delle circonvoluzioni linguistiche formali, la Turchia di Atatürk era un Paese con un sistema a partito unico, tranne per il periodo di un breve flirt del Presidente con il Partito Liberale, nel 1930, in cui questa nuova forza politica venne creata come forza di opposizione ufficiale ma venne cancellata nell’arco di tre mesi allorché risultò chiaro che essa stava diventando un veicolo per tutti coloro che si opponevano alla repubblica, inclusi i fondamentalisti religiosi.

 

Da quel momento in poi, Atatürk pose in atto la creazione della figura dei “deputati indipendenti,” non-membri dell’RPP il cui compito era quello di criticare il governo in pubblico e di ampliare la teoria della “opposizione leale”, ma che, in fondo, risultavano unicamente organici al governo stesso, soprattutto perché la loro nascita fu parallela a quella delle “halkevleri”, o “case della gente”, istituzioni che teoricamente dovevano servire da modelli di auto-amministrazione popolare e per l’incremento dell’istruzione generale ma che, all’atto pratico, furono solamente strumenti di indottrinamento politico. 


Il periodo degli anni ‘30 vide l’espansione dello sviluppo economico e sociale, con miglioramenti notevoli in settori quali istruzione statale, sistemi di trasporto e comunicazioni e con i primi accenni di industrializzazione, per quanto possibile con le risorse limitate della Turchia. 

 

Questo, però, fu anche il momento in cui la neonata Nazione si trovò ad affrontare la sua prova più dura, la morte di Atatürk nel 1938. Fu da questo punto in avanti che i cambiamenti nella politica turca portarono l’assetto statale alla sua forma attuale, con una serie di riforme iniziate sotto Ismet Inönü, successore di Atatürk, nel 1946. Inönü chiese l’allentamento delle restrizioni nei confronti dei partiti politici, permettendo a quattro membri di spicco dell’RPP di dar vita a una scissione e formare il Partito Democratico (DP), che vinse un piccolo numero di seggi nelle elezioni del 1946.

 

Non fu, però, che nel 1950 che la Nazione venne sconvolta dalla vittoria di massa del nuovo partito e dal trasferimento pacifico dei poteri dall’RPP al DP che pose termine al periodo kemalista all’interno della politica turca.

 
Il decennio successivo vide importanti cambiamenti nella pratica del governo turco, con particolare riguardo alla religione. Il governo RPP, ad esempio, aveva permesso l’insegnamento religioso nelle scuole statali se richiesto dai genitori, mentre il DP annunciò che ora sarebbe stato previsto per tutti gli studenti, a meno che i genitori non avessero chiesto una esenzione per i figli. Allo stesso modo, i finanziamenti governativi per le moschee aumentarono e la politica di scoraggiamento generale della pratica religiosa venne attenuata.
 

 

L’economia fu il il secondo centro della riforma del DP: si accrebbero gi incentivi alle imprese private e ciò portò, in accordo con la Dottrina Truman, ad aiuti su larga scala dagli Stati Uniti, cosicché, nonostante il disavanzo finanziario dopo l’impennata dei prezzi dei cereali a seguito della guerra di Corea, che, con i problemi legati alla crescente urbanizzazione, portò ad un periodo di rapida inflazione, nell’insieme il tenore di vita migliorò e la popolarità del DP crebbe nelle votazioni del 1954 e del 1957, permettendo al partito di mantenere il suo potere politico. 

 

Il periodo che inizia con il 1959 inaugurò la successiva ondata di riforme nella politica turca: quando la situazione economica divenne ancora più instabile, i creditori della Turchia invitarono la Banca Mondiale a normalizzare la situazione e l’opposizione del RPP diventato più forte. Nel maggio del 1960 la Turchia affrontò il suo primo colpo di Stato militare quando l’esercito estromise il DP dal governo e il gruppo di ufficiali che formava il Comitato di Unità Nazionale avviò la riforma del diritto costituzionale ed elettorale sulla base dei principi di Atatürk. Venne redatta una nuova Costituzione in cui si chiedeva la creazione di un Senato e di una Corte Costituzionale e un nuovo sistema elettorale basato sul concetto di rappresentanza proporzionale. 

 

Ottenuto questo, i militari si ritirarono dalla politica e la repubblica tornò al’ordine: l’ RPP tornò al potere alla testa di una coalizione di governo, solo per essere sconfitto nel 1965 quando il Partito della Giustizia (JP), il successore del DP, ottenne una netta vittoria alle elezioni, che, con un programma economico e sociale simile a quello del suo predecessore, si confermò nel 1969. 

Tuttavia, nel 1968 Necmettin Erbekan spaccò l’unità del Partito della Giustizia di Suleiman Demirel per formare il Partito Islamico Nazionale dell’Ordine, mentre, poco dopo, un altro gruppo di ministri del JP formarono il neo-fascista Partito di Azione Nazionale. Gli scontri tra JP, RPP e queste nuove fazioni portarono ad anni di stagnazione politica e a enormi problemi economici, tanto che, ancora una volta, nel 1971, i militari si sentirono in dovere di compiere un colpo di Stato che avrebbe dovuto essere “un avvertimento al governo Demirel” e che portò immediatamente alle dimissioni di Demirel stesso e, nel tentativo di garantire un ritorno alla laicità kemalista, alla messa al bando del Partito Nazionale dell’Ordine. L’RPP tornò al potere nel 1973, sotto la guida del nuovo Primo Ministro Bulent Ecevit, in coalizione, però, con Necmettin Erbekan, ora a capo del Partito di Salvezza Nazionale (PSN), formato dalle ceneri proprio del PNO.
 


Instabilità e violenza segnarono il periodo successivo della vita politica turca, guidata sempre dall’RPP, soprattutto dopo che nel 1974 la Turchia invase la parte settentrionale di Cipro e gli Stati Uniti tagliarono gli aiuti al Paese. 

 

Sia il PAN che il PSN svilupparono, in questo periodo, alleanze con associazioni giovanili e sindacati vicini alle loro rispettive ideologie ed entrambi i partiti cominciarono anche a instaurare legami con gruppi di lavoratori turchi in Europa, così da ottenere un buon afflusso di capitali governativi nelle loro casse. 

 

Nelle elezioni del 1977 il Partito della Giustizia fu in grado di formare coalizioni con entrambi e, così facendo, di mantenere una presa precaria sul potere come maggior forza d’opposizione. Nel frattempo, si assisteva alla forte attrazione esercitata sui ranghi del RPP dalla sinistra radicale, cosa che portò a una forte frattura politica interna e a una paralisi di governo: appariva chiaro che ala destra e ala sinistra dell’RPP non potevano convivere e risolvere congiuntamente i problemi economici o sociali del Paese che, tra l’altro, stava conoscendo un periodo di violenza e di guerriglia urbana tra i gruppi radicali della destra e della sinistra . 

Nel frattempo il deterioramento delle condizioni economiche persisteva: i prezzi mondiali del petrolio continuavano salire innescando una recessione globale. e il governo, spesso accusato di negligenza nel controllo delle spese, vide crescere il debito estero turco a livelli tali che i mercati esteri cominciarono a rifiutare i pagamenti in Lira turca, innescando una spirale inflattiva abnorme. 

 

Con l’economia turca vicino collasso i militari intervennero nuovamente nel settembre 1980 e, con un golpe accolto con sollievo da praticamente tutto il Paese, il controllo del governo fu posto nelle mani del generale Kenan Evren e del suo Consiglio di Sicurezza Nazionale, che subito iniziarono a cercare di normalizzare la democrazia turca. 

 

La seguente “sanificazione” della politica turca portò alla dissoluzione di tutti i partiti e alla promozione di nuovi attori politici senza collegamento con la politica pre-1980. Tuttavia, i partiti che nacquero in questo nuovo contesto risultarono essere tutte ricreazioni di organizzazioni preesistenti: il Partito Madrepatria (ANAP), nato dal golpe, emerse più o meno dalle ceneri dell’ala destra dell’RPP, il JP cambiò leggermente la sua piattaforma rinominandosi Partito del Vero Sentiero e il PSN semplicemente cambiò nome in “Refah” o Partito del Benessere. 

 

Tutti questi gruppi erano, comunque, sotto la guida di nuovi leader, dal momento che alla maggior parte dei politici pre-1980 era stata vietata ogni attività pubblica. Venne anche elaborata una nuova Costituzione che dava più potere al Presidente rispetto all’Assemblea, il Senato fu abolito, e Kenan venne eletto Presidente per un mandato di sette anni.

 
Le elezioni del 1983 portarono al successo dell’ANAP per diversi motivi: l’ANAP era visto come il partito più in grado di ripristinare un governo civile a causa del non coinvolgimento del suo leader, Turgut Özal, con la tutela militare; la 
piattaforma economica dello schieramento, basata sull’esportazione di manufatti altamente competitivi sui mercati mondiali e molto vicina al piano di ristrutturazione economica del FMI del 1980 era considerata molto positivamente in vista del ripristino degli aiuti degli Stati Uniti (anche in seguito alla rivoluzione iraniana); la composizione del partito, che univa elementi di estrazione religiosa, nazionalisti e figure provenienti da gruppi regionali dava una garanzia di stabilità anche a causa della debolezza dei partiti d’opposizione.

 

 Il successo del Partito Madrepatria venne confermato alle elezioni generali del 1987 allorché si assicurò il 36,3% dei voti. seguito dal populista Partito Social Democratico (SHP) con il 24,8%, e da “Vero Sentiero” con il 19,8%, mentre nessun altro gruppo superò lo sbarramento del 10% costituzionalmente necessario per avere rappresentanza parlamentare. 

 

Tuttavia, nel 1989, alle elezioni comunali, il sostegno ANAP era già sceso al 21,7%, in un processo di perdita del consenso degli elettori che appariva irreversibile, soprattutto a causa di numerose decisioni politico-economiche basate più sulle opinioni dei ministri del governo che su un normale processo burocratico-legislativo e sulla concessione di sussidi e crediti alle imprese assegnati solo a sostenitori del partito e punitive nei confronti delle aziende che avevano favorito partiti rivali. 

Alle elezioni del 1991, così, apparve evidente l’emersione di una nuova tendenza: sorprendentemente il partito Vero Sentiero salì al potere nel nuovo parlamento, Suleiman Demirel riemerse come Presidente della Turchia e, poco dopo, nel 1994, Tansu Ciller venne scelta come Primo Ministro, prima donna a ricoprire tale carica nella storia turca.
 

 

Il vero shock fu, però, il ritorno di Necmettin Erbekan e del suo partito “Refah”, che ottenne il 5% dei seggi alla Grande Assemblea nazionale e fu in grado di vincere elezioni locali per posizioni di grande prestigio quali quelle del sindaco di Istanbul e del sindaco della capitale Ankara.


Il ritorno di un partito religioso fu inaspettato per molti sia all’interno che all’esterno della scena politica turca: pur occupando una posizione di minoranza nel governo, l’elezione di ministri di Refah fu un segnale del riemergere della religione nella politica nella repubblica laica. Tale tendenza proseguì nelle elezioni del 1995, allorché l’ANAP e Vero Sentiero si attestarono sotto il 20% dei seggi in parlamento e Refah sconvolse il mondo ottenendo un decisivo 21,3% della Grande Assemblea Nazionale. 

 

Con nessun partito in grado di avere la maggioranza assoluta, l’idea di una coalizione islamista al governo della Turchia divenne una realtà. 

 

Ci sono diverse ragioni che possono spiegare tale revival della religione nella politica in Turchia. Tra esse, la prima è, ovviamente che la popolazione della Turchia è per il 99% musulmana, e, comprensibilmente, risulta favorevole ad un governo a guida islamica. Di fatto, però, il percorso delle riforme di Atatürk e la tradizione del kemalismo dopo la sua morte avevano effettivamente bloccato la partecipazione religiosa al governo: la religione era stata sotto il controllo statale dall’inizio della Repubblica, l’organizzazione di Islam era stato sotto il controllo della Presidenza degli Affari religiosi, che viene nominato dal Consiglio dei Ministri, a sua volta nominato dal Primo Ministro e gli insegnanti, i libri di testo, e i curricula di tutte le scuole religiose erano stati posti sotto la diretta supervisione del Direttore Generale dell’Educazione religiosa, un ufficio separato del Ministero della Pubblica Istruzione, il cui personale risultava sotto il Controllo dello Stato.

 

La Costituzione del 1982, inoltre era stata progettata per sopprimere la religione negli affari pubblici: tre articoli della Costituzione e diversi altri dal codice penale proibiscono tutt’ora l’uso della religione per scopi politici o per guadagno privato (il Partito Repubblicano Progressista del 1924, il Libero Partito Repubblicano del 1930, il Partito della Nazione del 1954, il Partito Nazionale dell’ Ordine del 1972 e il Partito di Salvezza Nazionale del 1980 sono stati tutti messi fuori legge per la violazione di queste leggi).

 

Proprio su questa base, nel momento in cui si era permesso al “Refah Partisi” di esistere, si poteva prevedere come conseguenza naturale che influenza religiosa repressa per tanti anni sarebbe emersa in forma di sostegno per il partito, senza per questo dover ricorrere a considerazioni estreme come quelle riguardanti il fatto che la Turchia possa essere vittima di un “Sindrome iraniana”. 

Il successo della piattaforma di Refah può anche essere compreso anche sulla base della sostanziale moderazione e modernità che la caratterizzava in quel momento: il cuore della sua azione politica era dato dalla decisione di concentrarsi sulla modernizzazione dell’economia turca al fine di rendere un’unione doganale con l’Unione Europea possibile e sul pieno sostegno di un giro di vite militare a tutto campo contro il partito fuorilegge del Kurdistan (Pkk ) nel sud-est della Turchia, entrambi fronti sui quali il governo Ciller aveva fatto progressi solo marginali, senza risolvere completamente la situazione.
 

 

Inoltre, la crisi economica del 1994 aveva visto un crollo del tenore di vita nel momento in cui i redditi dei turchi non erano riusciti a tenere il passo con un tasso del 134% di inflazione e, seppure nel 1995 tale tasso era migliorato scendendo al 90 per cento, le classi inferiori avevano continuato ad avere enormi difficoltà nel provvedere al proprio sostentamento: Refah, auto-nominandosi difensore di operai, artigiani e piccoli commercianti minacciati dai tassi di interesse e dalla alta disoccupazione “contrari all’islam”, non poteva che diventare la “via di salvezza possibile” proprio per le classi più colpite. 


In realtà, fin dal 1985 molti membri della stampa turca pensavano che Refah avrebbe giocato un ruolo significativo nel futuro della politica nazionale, ma una spiegazione per i suoi scarsi risultati elettorali in quella tornata può essere data dalla dispersione e dalla competizione tra le fazioni islamiche: insieme con la creazione di Refah, i superstiti del Partito di Salvezza Nazionale si erano allineati anche con il nuovo Partito Madrepatria e, infatti, la forza dell’elemento islamista nell’ANAP era divenuta evidente, soprattutto in entrambi i vice-presidenti del partito e nel Ministero della Pubblica Istruzione, con numerose decisioni controverse quali il divieto di insegnamento della teoria di Darwin sia nelle scuole primarie che secondarie, il divieto di pubblicità della birra alla radio e sulla televisione nazionale, la legge che vietava l’apertura di bar nel raggio di 200 metri da scuole, dormitori studenteschi, società sportive, o moschee, l’aggiunta dell’arabo nei programmi scolastici, l’ampliamento dell’istruzione religiosa e la censura religiosa sui libri di testo, che aveva finito per cancellare la conoscenza di alcuni dei personaggi più fermamente laicisti del periodo kemalista.


In sostanza, dunque, una forte presenza musulmana nella politica nazionale esisteva già, sebbene ipocriticamente velata, e, anzi, si trattava di una presenza fortemente tradizionalista, in realtà molto meno moderata di quella apparentemente richiesta del partito Refah che, dopo il referendum del 1987 per rimuovere il divieto ai politici pre-1980 di partecipare alla vita pubblica, era di nuovo in mano a Erbekan, ormai veterano della politica con 30 anni di esperienza, capace di modellare l’ideologia del partito sulla sua visione della società, basata su un rifiuto dello stretto laicismo di stato ma anche sulla volontà di mantenere la democrazia.

 

Certamente, però, quella di Refah è stata a lungo una posizione ondivaga: se, da un lato, il partito ha, come detto, sempre avuto come obiettivo l’entrata nell’Unione Europea, da un altro lato la visione di Erbekan è spesso sembrata completamente opposta, tesa a riallineare la Turchia verso il mondo islamico e a voltare le spalle all’Occidente, che, secondo lui, stava riducendo il Paese alla “schiavitù”. Questo doppio registro avrebbe da subito dovuto risultare un campanello d’allarme per chi vedeva in Refah una forza in fin dei conti solo tendenzialmente islamica.

 

Il fatto è che sia il carattere precipuo dell’Islam, che è una religione non solo spirituale ma assegna anche doveri politici ai suoi seguaci, sia la situazione economica disastrosa di metà degli anni ‘90, che aveva portato l’Islam a essere visto come l’ideologia politica dei poveri, degli emarginati e degli indigenti, sia infine, la mancanza di una vera leadership politica del Paese che potesse contrastare il peso del sogno di un ritorno alla grandezza del passato islamico sono stati tutti elementi che hanno giocato fortemente a favore di Refah e del suo presidente, che, infatti, tra 1996 e 1997 ha assunto una premiership rivelatasi piuttosto disastrosa.

 

Giunto al potere, infatti, Erbekan ha cominciato, in contrapposizione con le linee guida del suo stesso schieramento, a descrivere l’Unione Europea come un “club dei Cristiani” a cui contrapporre una “Unione Islamica dal Kazakistan al Marocco”, ha definito la sua nuova Turchia come liberatrice di Bosnia, Cecenia, Azerbaigian e Gerusalemme e, inevitabilmente, ha fatto affondare l’indice borsistico di Istanbul.

 

Solo l’ennesimo intervento militare, nel 1997, in quello che è stato definito “un colpo di Stato post-moderno” (l’esercito ha solo minacciato di intervenire e, così facendo, ha imposto le proprie decisioni al mondo politico ed economico), ha salvato la Turchia da una deriva fondamentalista, interdicendo Erbakan, ma non il suo partito, dalla politica (per altro egli è rimasto il “grande vecchio” dell’Islamismo politico, prima alle spalle di Refah, poi fondando, attraverso figure fantoccio, il “Partito della Virtù”, incostituzionale dal 2001 e, dunque, trasformato nel “Partito della felicità”, ancora esistente) e reinstaurando, con la premiership di Mesut Yilmaz dell’ANAP, una parvenza di laicità kemalista.

 

Il problema è che il danno è ormai stato fatto tra metà degli anni ‘80 e metà degli anni ‘90: se anche i successivi governi di Yilmaz (pur nella imperante corruzione che ha caratterizzato i suoi mandati) e di Bülent Ecevit (dell’RPP) hanno rallentato, in nome del laicismo, il processo di islamizzazione del Paese, l’idea di un ritorno alla Nazione musulmana è ormai penetrato in profondità nei gangli della società, come è visibile passeggiando in qualsiasi città turca, dove gli hijab sono progressivamente sempre di più, dove sono riapparsi i vestiti tradizionali, dove le preghiere pubbliche sono sempre più affollate e dove le prediche degli Imam sono sempre più radicali.

 

Così, il progetto di una Nazione laica ponte tra est e ovest, in cui una cultura tradizionale convivesse con elementi di modernità occidentale sembra essere svanito in una deriva che sta sempre più riportando la Turchia nelle braccia del fondamentalismo e la sta riportando dal basso, dalle periferie di Istambul, Smirne e Ankara, dai quartieri poveri in cui l’Islam sembra essere la sola speranza, dalla marea crescente di disoccupati sempre più lontani dal sogno di un benessere di “stile europeo”.

 

L’elezione di Recep Tayyip Erdoğan a Primo Ministro nel 2003 e di Abdullah Gül a Presidente (primo Presidente islamico della storia della Repubblica turca) nel 2007, entrambi appartenenti al “Partito della Giustizia e del Progresso”, nato dalla scissione dell’ala più moderata del vecchio Refah (ora legalmente disciolto) e da quasi dieci anni partito di maggioranza relativa sono indicativi in questo senso, ma la vera questione rimane aperta: per ora la Turchia ha scelto una “via mediana”, in cui Islam e modernità tentano di convivere, ma se la situazione socio-economica non avrà miglioramenti in tempi brevi, il processo di islamizzazione in atto continuerà e finirà per ramificarsi fino a inglobare il mondo politico.

 

Il fondamentalismo è dietro l’angolo e la Nazione-ponte potrebbe, tragicamente, diventare l’avamposto dell’Islam radicale verso l’occidente.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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W. Hale, E. Ozbudun, Islamism, Democracy and Liberalism in Turkey, Routledge 2009

S. Kinzer, Crescent and Star: Turkey Between Two Worlds, Farrar, Straus and Giroux 2008;

C. Tugal, Passive Revolution: Absorbing the Islamic Challenge to Capitalism, Stanford University Press 2009

E.J. Zürcher, Turkey: A Modern History, I. B. Tauris 2004.



 

 

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