N. 34 - Ottobre 2010
(LXV)
Islam, socialismo e camaleontismo
La parabola di Al Qaddafi
di Lawrence M.F. Sudbury
Certo
il
personaggio
è di
quelli
che
non
lasciano
indifferenti:
centinaia
di
capi
di
stato
visitano
l’Italia
ogni
anno,
ma
solo
Muhammar
Gheddafi
(o
meglio,
con
una
traslitterazione
dall’arabo
un
po’
più
precisa
di
quella
normalmente
utilizzata,
Mu’ammar
al-Qaddafi)
può
riuscire
a
riempire
le
pagine
dei
giornali
come
in
occasione
della
sua
ultima
visita
del
mese
scorso.
D’altra
parte,
chi
altro
presentandosi
in
un
paese
straniero
in
visita
di
stato,
si
porterebbe
dietro
una
tenda
beduina
in
cui
soggiornare,
uno
stuolo
di
cavalieri
berberi
con
relativi
cavalli
e
una
squadra
di
amazzoni-guardie
del
corpo
pronte
a
sacrificare
la
loro
vita
per
lui?
Chi
altri
chiederebbe
di
organizzare
un
incontro
con
500
hostess
(pagate)
da
catechizzare
sull’Islam,
con
tanto
di
regalo
di
una
copia
tradotta
del
Corano?
Chi
altri,
con
un
tratto
diplomatico
a
dir
poco
“inusuale”,
non
solo
non
si
periterebbe
di
chiedere
cinque
miliardi
all’Unione
Europea
per
bloccare
l’emigrazione
clandestina
che
investe
il
nostro
continente
a
partire
dal
suo
paese,
ma
arriverebbe
addirittura
ad
affermare
che,
in
pratica,
risulta
inevitabile
che
a
breve
l’intera
Europa
si
convertirà
alla
religione
del
Profeta?
Anche
dal
punto
di
vista
politico,
le
reazioni
provocate
dal
“colonnello”
(per
autonomina,
visto
che
il
suo
ultimo
grado
nell’esercito
libico
è
stato
capitano)
sono
state
a
dir
poco
diseguali:
se
da
una
parte
si
vantano
rapporti
privilegiati
con
lui
e si
considerano
tali
rapporti
come
una
chiave
per
uno
sviluppo
commerciale
in
tutta
l’Africa,
dall’altra
si è
sollevato
un
coro
piuttosto
“bipartisan”
contro
l’idea
di
essersi
piegati
alle
sue
“stranezze”
e di
aver
fatto
dell’Italia
un
palcoscenico
per
i
suoi
proclami.
Questioni
di
schieramenti
interni
e di
alleanze
politiche,
certo,
che,
ovviamente,
risultano
contingenti:
ben
più
interessante,
allora,
risulta
cercare
di
capire
chi
sia
quest’uomo
odiato
o
idolatrato
che,
al
di
là
delle
sue
eccentricità,
a
lungo
è
stato
in
grado,
come
vedremo,
di
tener
testa
alla
più
grande
potenza
militare
del
pianeta
e
ancor
oggi
non
si
perita,
come
nel
caso
del
recentissimo
braccio
di
ferro
con
la
Svizzera,
di
rompere
relazioni
diplomatiche
per
questioni
meramente
personali.
In
realtà,
della
gioventù
di
Qaddafi
prima
della
sua
presa
di
potere
in
Libia
(avvenuta
a
soli
27
anni),
si
sa
ben
poco,
sia
per
la
difficoltà
di
reperire
dati
storici
all’interno
dei
clan
bedu
da
cui
la
sua
famiglia
proviene,
sia
per
uno
stretto
riserbo
che
l’ex
ufficiale
ha,
stranamente
visto
le
sue
predisposizioni
all’esternazione
e
all’autoincensamento,
sempre
dimostrato
e
che
ha
fatto
nascere
una
ridda
di
pettegolezzi
sulle
sue
origine,
da
quello
relativo
all’essere
figlio
illegittimo
di
un
ufficiale
corso
dell’aeronautica
della
Francia
libera
di
stanza
in
Libia
durante
la
II
Guerra
Mondiale
a
quello
riguardante
una
sua
discendenza
ebraica,
come
figlio
di
una
ebrea
convertita
scacciata
dalla
sua
famiglia
per
aver
sposato
un
musulmano:
nessuna
delle
ipotesi
è,
però,
stata
provata,
anche
se,
almeno
parzialmente,
la
prima
potrebbe
spiegare
la
lunga
ostilità
con
l’occidente
e la
seconda
il
rapporto
difficile
con
la
“razza
ebraica”
che
lo
ha
portato,
subito
dopo
la
“rivoluzione”,
a
scacciare
tutti
gli
ebrei
da
Cirenaica
e
Tripolitania.
Di
certo,
comunque,
il
rapporto
altalenante
e a
lungo
apertamente
ostile
nei
confronti
dell’Italia
deriva
dall’essere
nato
presso
Sirte,
nell’allora
provincia
coloniale
fascista
di
Misurata
e
dall’essere
rimasto
ferito
a
sei
anni
dallo
scoppio
di
una
bomba
italiana
inesplosa
che
provocò
la
morte
di
due
suoi
cugini:
sia
quest’ultimo
episodio
che
l’odio
instillatogli
dal
suo
clan
per
l’occupazione
italiana
sono
stati
riferiti,
nel
corso
di
varie
interviste,
dal
diretto
interessato.
Dopo
aver
frequentato,
dai
quattordici
ai
diciannove
anni,
la
scuola
coranica
di
Sirte,
nella
quale
si
distinse
per
quell’incrollabile
fede
islamica
che,
a
quanto
pare,
sembra
ancora
animarlo,
Qaddafi,
nella
migliore
tradizione
bedu,
entrò
nell’Accademia
Militare
di
Bengasi,
al
termina
della
quale
e
dopo
un
breve
soggiorno
di
specializzazione
in
Gran
Bretagna,
ebbe,
nel
1968,
la
sua
prima
(e
unica)
nomina
come
capitano
di
una
unità
militare
nella
sua
regione
natale.
Già
ai
tempi
della
scuola
coranica,
il
neo-ufficiale
era
entrato
in
contatto
con
le
idee
nazionaliste
e
relative
ad
una
“via
araba
al
socialismo”
del
presidente
egiziano
Gamal
Abdel
Nasser,
rimanendone
molto
colpito,
ma
era
stato
nel
periodo
dell’Accademia
che
il
giovane
Qaddafi
aveva
sviluppato,
proprio
a
partire
dalle
idee
nasseriane
che
aveva
fatte
proprie,
una
profonda
ostilità
per
il
governo
di
re
Idris,
che,
come
molti
altri
militari
e
comuni
cittadini,
riteneva
corrotto,
infiltrato
da
elementi
sionisti
e
prono
ai
voleri
neo-coloniali
occidentali.
Per
comprendere
quanto
ci
potesse
essere
di
sensato
in
simili
opinioni,
è
necessario
dare
una
rapida
scorsa
a
quanto
era
accaduto
nel
paese
al
termine
della
II
Guerra
Mondiale.
Il
21
novembre
1949
l’Assemblea
generale
dell’ONU
aveva
approvato
una
risoluzione
in
cui
si
affermava
che
la
Libia
dovesse
diventare
una
nazione
indipendente
(dopo
essere
stata
parte
dell’Impero
turco
per
poi
divenire
colonia
italiana)
prima
del
1
gennaio
1952.
I
negoziati
all’O.N.U.,
in
rappresentanza
del
popolo
libico,
erano
state
affidati
dai
vari
clan
dominanti
a
Sidi
Muhammad
Idris
al-Mahdi
al-Senussi,
una
guida
sufi
già
emiro
della
Cirenaica
e
della
Tripolitania
e
strenuo
sostenitore
(con
l’appoggio
della
Gran
Bretagna)
dell’indipendenza
dal
Regno
d’Italia,
e,
quindi,
quando
la
Libia,
il
24
dicembre
1951,
divenne
il
primo
stato
a
raggiungere
l’indipendenza
attraverso
le
Nazioni
Unite,
sembrò
naturale
a
tutti
che
il
paese
si
trasformasse,
come
sancito
dalla
costituzione
varata
nell’ottobre
1951,
in
una
monarchia
costituzionale
federale
guidata
proprio
da
re
Idris
I, i
cui
poteri
risultavano
notevolmente
ampi.
I
problemi
derivanti
da
tale
eccessiva
concentrazione
di
potere
nelle
mani
reali
non
tardarono
a
farsi
sentire
già
subito
dopo
le
prime
elezioni
generali
del
febbraio
1952,
quando
i
partiti
politici
furono
aboliti,
il
governo
federale
entrò
in
conflitto
con
quelli
locali
della
federazione
nel
tentativo
di
accentrare
la
politica
nazionale
e re
Idris
incominciò
ad
attuare
una
politica
assolutistica.
Tutti
questi
elementi,
rientrando
nel
normale
assetto
governativo
nord-africano,
avrebbero
potuto
essere
tranquillamente
assorbiti
dalla
popolazione,
se
non
fosse
stato
per
la
volontà
del
re
di
mantenere
i
suoi
contatti
con
l’occidente
che
lo
portò
a
stipulare,
nel
1953,
un
trattato
ventennale
di
amicizia
e
alleanza
con
la
Gran
Bretagna
in
base
al
quale
quest’ultima
avrebbe
avuto
basi
militari
in
territorio
libico
in
cambio
di
aiuti
finanziari
e
militari
e,
l’anno
successivo,
un
accordo
con
gli
Stati
Uniti,
a
cui
si
prometteva
il
diritto
di
costruire
basi
militari
e un
poligono
aereo
nel
deserto
(la
Wheelus
Air
Base)
in
cambio
di
sovvenzioni
economiche.
Nello
stesso
periodo,
la Libia
strinse
legami
segreti
con
Francia,
Italia,
Grecia
e
Turchia,
che
offrirono
programmi
di
aiuto
tecnico
e
sociale,
ottenendone
in
cambio
mano
libera
nel
gestire
l’economia
del
nuovo
stato.
Ciò portò
certamente
ad
un
miglioramento
del
bilancio
statale,
ma
il
ritmo
di
crescita
fu
lento
e la
Libia
rimase
a
lungo
un
paese
povero
e
sottosviluppato
fortemente
dipendente
dagli
aiuti
stranieri.
La situazione
cambiò
improvvisamente
e
drammaticamente
nel
giugno
del
1959,
quando
i
prospettori
della
Esso
confermarono
la
presenza
di
grandi
giacimenti
petroliferi
a
Zaltan
in
Cirenaica
e di
numerosi
altri
pozzi
sparsi
nella
regione:
lo
sfruttamento
commerciale
dell’estrazione
del
greggio
venne
rapidamente
sviluppato
dai
proprietari
delle
concessioni,
con
un
ritorno
del
50%
dei
profitti
globali
che,
sotto
forma
di
tasse,
andava
alla
Libia,
rendendola
una
nazione
indipendente,
ricca
e
con
ampie
potenzialità
di
sviluppo.
Su questa base, nel 1963 venne lanciato da governo un piano quinquennale
che,
però,
cercando
di
favorire
in
ogni
modo
lo
sviluppo
di
investimenti
stranieri
in
campo
industriale,
non
solo
deprimeva
nettamente
il
settore
agricolo,
principale
fonte
di
sostentamento
di
gran
parte
della
popolazione,
ma
aboliva
anche
l’assetto
federale
a
favore
della
centralizzazione
e
manteneva
la
Libia,
pur
parte
integrante
della
Lega
Araba
e
co-fondatrice
dell’Organizzazione
per
l’Unità
Africana,
ai
margini
del
mondo
arabo,
come
chiaramente
dimostrato
dal
basso
profilo
tenuto
dal
paese
nel
conflitto
arabo-israeliano.
Con questi presupposti legati al neo-colonialismo e fortemente opposti
al
trend
nasseriano
allora
in
pieno
sviluppo,
era
ovvio
che
il
governo
di
re
Idris
non
suscitasse
nessuna
simpatia
sia
nelle
masse
che,
tantomeno,
in
un
esercito
imbevuto
di
idee
provenienti
dal
vicino
Egitto.
A farsi portavoce del malcontento fu un gruppo di ufficiali intermedi,
guidato
proprio
da
Qaddafi,
che,
approfittando
dell’assenza
del
re,
in
Grecia
per
trattamenti
medici,
il
26
agosto
1969
organizzò
un
colpo
di
stato
incruento
che
portò,
il 1
settembre,
alla
dichiarazione
di
deposizione
di
Idris,
all’arresto
dell’erede
al
trono,
principe
Sayyid Hasan ar-Rida
al-Mahdi
as-Sanussi
(a
cui
venne
poi
riservato,
con
la
sua
famiglia,
un
trattamento
terribile,
con
anni
di
arresti
domiciliari,
confisca
di
tutti
i
beni
e,
infine,
con
l’assegnazione
come
abitazione
di
tre
cabine
presso
i
bagni
pubblici
di
una
spiaggia
di
Tripoli,
cosa
che
gli
provocò
un
ictus
paralizzante
a 60
anni
e la
conseguente
morte
due
anni
dopo)
e
alla
proclamazione
della
“repubblica
araba”.
Il
paese
venne
posto
sotto
il
governo
di
un
Consiglio
di
Comando
della
Rivoluzione,
formato
da
12
militari
di
tendenze
panarabe
presieduti
dal
giovane
capitano
Qaddafi,
che
subito
salì
al
grado
di
colonnello.
Pochi
mesi
dopo,
accentrando
sempre
più
il
potere
nelle
sue
mani,
egli
assunse
anche
il
titolo
di
primo
ministro,
che,
però,
abbandonò
nel
1972,
mantenendo,
comunque,
il
ruolo
di
comandante
supremo
dell’esercito.
In
brevissimo
tempo
Qaddafi
si
impose
nettamente
sulla
giunta,
diventando
di
fatto
dittatore
assoluto
della
“Jamahiryya”
(neologismo
coniato
nel
1977
dal
colonnello
per
indicare
il
“governo
delle
masse”)
Islamica
e
sviluppando
un
regime
basato
su
una
miscela
molto
particolare
di
nazionalismo
arabo,
stato
sociale
e
(pseudo-)democrazia
popolare
definita
“Socialismo
Islamico”.
Nella
pratica,
si
doveva
trattare
di
una
sorta
di
“terza
via”
tra
comunismo
e
capitalismo,
con
l’unione
dei
principi
del
panarabismo
con
quelli
della
socialdemocrazia
cosi
come
in
seguito
esposto
in
quel
“Libretto
Verde”
che,
pubblicato
in
tre
volumi
tra
1975
e
1979,
sul
calco
del
“Libretto
Rosso”
di
Mao
doveva
essere
il
testo
di
riferimento
per
comprendere
l’ideologia
del
nuovo
stato.
Nella
realtà
dei
fatti,
comunque,
non
tutto
andò
nella
direzione
di
quel
“paradiso
dei
cittadini
arabi”
che
Qaddafi
aveva
preconizzato:
se è
vero
che
vi
fu
un
innalzamento
del
salario
minimo
dei
lavoratori,
una
loro
partecipazione
alla
gestione
delle
aziende
e,
soprattutto
grazie
ai
maggiori
introiti
petroliferi,
dal
1977
in
poi,
una
notevole
campagna
di
lavori
pubblici
con
la
costruzione
di
strade,
ospedali
e
acquedotti,
è
altrettanto
vero
che
il
nuovo
regime
si
presentò
immediatamente
come
repressivo
nei
confronti
di
ogni
libertà
individuale,
con
una
adozione
strettissima
della
Sha’aria
islamica
(con
eliminazione
dell’alcol
da
tutto
il
paese,
chiusura
di
ogni
locale
notturno
e
norme
morali
rigidissime)
e
con
l’eliminazione
fisica
di
ogni
voce
dissidente,
sia
all’interno
che
all’esterno
del
territorio
libico,
fino
all’editto
del
26
aprile
1980
in
cui
si
ordinava
il
rientro
di
ogni
oppositore
politico
in
Libia
per
essere
giudicato
da
un
tribunale
rivoluzionario
o,
in
caso
di
disobbedienza,
la
condanna
a
morte
in
contumacia
per
qualunque
libico
osasse
criticare
il
nuovo
assetto
statale
(e,
infatti,
nove
oppositori
della
dittatura
vennero
assassinati
in
Europa,
cinque
dei
quali
in
Italia).
Nella
pratica,
dunque,
il
governo
libico
si
caratterizzava
e
continua
a
caratterizzarsi
come
una
sorta
di
autocrazia
populista,
in
cui
si
fa
grande
ostentazione
di
termini
quali
“emancipazione
popolare”
o
“educazione
delle
masse”,
si
vanta
l’unicità
dell’idea
(anch’essa
sviluppata
nel
“Libretto
Verde”)
di
una
piccola
azienda
privata
e di
una
grande
azienda
nazionalizzata
e si
dà
enorme
risalto
a
elementi
propagandistici,
come
quelli
che,
per
un
presunto
taglio
alle
spese
pubbliche
(in
realtà
per
ragioni
di
sicurezza),
da
sempre
portano
Qaddafi
a
dormire
in
tende
beduine
(per
altro
lussuosissime)
o
che
lo
hanno
portato,
nel
corso
del
tempo,
ad
abbandonare,
in
nome
di
una
“alternanza
democratica”,
tutti
i
suoi
incarichi
(pur
rimanendo,
come
“Guida
della
Rivoluzione”
padrone
assoluto
della
vita
e
della
morte
di
ogni
libico
e
centro
unico
decisionale
di
tutto
il
paese),
ma
in
cui
viene
negato
ogni
forma
di
diritto
democratico.
Al
di
là
della
continua
negazione
della
libertà
dei
suoi
connazionali,
Qaddafi
sì
è,
soprattutto,
reso
protagonista,
fin
dalla
rivoluzione,
di
incredibili
violazioni
del
diritto
internazionale.
Già
dal
1969
il
colonnello
nazionalizzò
tutte
le
proprietà
petrolifere
straniere
(nonostante
contratti
legalmente
sottoscritti
dal
governo
precedente)
e
tutte
le
basi
militari
anglo-americane
(espropriate
con
il
materiale
bellico
in
esse
contenuto)
e,
il
15
ottobre
1970,
con
un
atto
a
dir
poco
proditorio,
al
fine
di
“restituire
al
popolo
libico
le
ricchezze
dei
suoi
figli
e
dei
suoi
avi
usurpate
dagli
oppressori”,
espulse
tutti
i
20.000
italiani
presenti
nella
ex-colonia,
privandoli
di
ogni
avere
(inclusi
i
contributi
INPS
versati,
trattenuti
come
presunto
“danni
di
guerra”).
Sempre
in
quel
periodo,
alla
ricerca
di
una
unita
pan-africana,
il
dittatore
non
si
peritò
di
sostenere
regimi
folli
come
quelli
di
Amin
in
Uganda
e di
Bokassa
nella
Repubblica
Centroafricana
e di
propugnare
la
nascita
di
una
fantomatica
entità
politica
che
avrebbe
dovuto
denominarsi
Stati
Uniti
d’Africa
e
che,
naturalmente,
non
vide
mai
la
luce.
Fu,
però,
negli
anni
‘80
che
la
politica
anti-occidentale
libica
raggiunse
il
suo
culmine:
Qaddafi
divenne
un
aperto
sostenitore
di
gruppi
terroristici
come
l’IRA,
l’ETA
e
Settembre
Nero
(fornendo
finanziamenti,
materiale
bellico
e
addestramento
militare),
si
rese
responsabile
di
attentati
(la
cui
paternità,
a
dire
il
vero,
non
fu
mai
provata
essere
libica,
sebbene
i
sospetti
fossero
fortissimi)
in
Italia,
Gran
Bretagna
e
Francia
e
arrivò
a
lanciare
un
missile
contro
la
Sicilia
per
questioni
di
violazioni
di
acque
territoriali.
Questo
atteggiamento
rese
a
poco
a
poco
la
Libia
il
nemico
numero
uno
dell’occidente
e
le
tensioni
raggiunsero
il
loro
apice
quando
Reagan
venne
eletto
presidente
degli
Stati
Uniti:
l’amministrazione
Reagan
vedeva
la
Libia
come
uno
“stato
canaglia
belligerante”
a
causa
del
suo
atteggiamento
intransigente
in
materia
di
indipendenza
palestinese,
del
suo
sostegno
all’Iran
nella
guerra
contro
l’Iraq
di
Saddam
Hussein
(1980-1988),
e
dei
suoi
aiuti
ai
“movimenti
di
liberazione” di
tutti
gli
stati
in
via
di
sviluppo,
tanto
che
il
presidente
arrivò
a
soprannominare
Qaddafi
il
“cane
pazzo
del
Medio
Oriente”
e a
vietare
l’importazione
di
petrolio
libico
nei
cinquanta
stati
federali
e
l’esportazione
di
tecnologia
statunitense
nella
Jamahiryya.
Inizialmente
gli
stati
europei
non
seguirono
gli
USA
in
queste
decisioni,
ma,
nel
1984,
quando
la
funzionaria
di
polizia
britannica
Yvonne
Fletcher,
in
servizio
di
sorveglianza
durante
una
manifestazione
di
protesta
davanti
all’ambasciata
libica
di
Londra,
venne
uccisa
da
un
colpo
di
arma
da
fuoco
esploso
dall’interno
dell’ambasciata
stessa
(i
responsabili,
avvalendosi
dell’immunità
diplomatica,
non
furono
mai
assicurati
alla
giustizia),
si
ebbe
la
rottura
delle
relazioni
diplomatiche
tra
Libia
e
Regno
Unito
(relazioni
riprese
solo
oltre
dieci
anni
più
tardi).
Infine,
dopo
alcuni
attacchi
americani
a
motovedette
libiche
che
rivendicavano
acque
territoriali
all’imboccatura
del
Golfo
della
Sirte
nel
gennaio-marzo
1986
(le
rivendicazioni
territoriali
non
erano
nuove
al
colonnello,
come
prova
la
ventennale
guerra
di
confine
con
il
Chad),
il
15
aprile
1986
Reagan
ordinò
la
cosiddetta
“Operazione
Eldorado”,
consistente
in
un
bombardamento
di
obiettivi
sensibili
a
Tripoli
e
Bengasi
che
provocò
la
morte
di
45
militari
e di
15
civili,
tra
cui
una
figlia
adottiva
di
Qaddafi
(che,
a
quanto
pare
dalle
ultime
versioni
in
circolazione,
si
salvò
solo
grazie
all’avvertimento
preventivo
dell’allora
premier
italiano
Bettino
Craxi,
in
completo
disaccordo
con
l’iniziativa
americana).
Arriviamo
così
al
21
dicembre
1988,
quando
un
aereo
della
Pan
Am
esplose
sopra
la
cittadina
scozzese
di
Lockerbie,
provocando
la
morte
delle
259
persone
a
bordo
e di
11
cittadini
della
località
britannica.
Subito
le
indagini
si
concentrarono
su
due
cittadini
libici,
la
cui
responsabilità
nell’attentato
risultava
così
evidente
da
indurre
l’ONU
a
chiedere
al
governo
di
Tripoli
l’arresto
dei
due
sospettati
e la
loro
estradizione
in
Scozia.
Al
rifiuto
di
Qaddafi,
le
Nazioni
Unite
votarono
la
Risoluzione
748,
che
sanciva
durissime
sanzioni
commerciali
contro
lo
stato
nordafricano,
che,
da
parte
sua,
stava
già
vivendo
una
discreta
contrazione
economica.
Per
la
maggior
parte
degli
anni
‘90
la
Libia
visse,
dunque,
in
una
situazione
di
embargo
e di
isolamento
diplomatico.
Solo
per
intercessione
del
presidente
sudafricano
Nelson
Mandela,
in
visita
ufficiale
da
Qaddafi
nel
1997,
e
del
Segretario
generale
dell’ONU
Kofi
Annan,
si
riuscì,
nel
1999,
ad
ottenere
una
soluzione
compromissoria
tale
per
cui
gli
imputati
vennero
consegnati
per
essere
processati
presso
la
Corte
Internazionale
dell’Aja
in
cambio
della
sospensione
delle
sanzioni
internazionali
(sebbene
quelle
statunitensi
rimanessero
in
vigore).
La
vicenda
giunse,
comunque,
finalmente
a
conclusione
solo
nel
2003,
quando,
due
anni
dopo
la
condanna
di
uno
dei
due
imputati,
la
Libia,
in
una
lettera
alle
Nazioni
Unite,
accettò
di
assumersi
formalmente
“la
responsabilità
delle
azioni
dei
suoi
funzionari”
per
quanto
riguardava
l’attentato
e di
pagare
un
risarcimento
fino
a
2,7
miliardi
di
euro
o
fino
a 10
milioni
di
dollari
ciascuno
alle
famiglie
delle
270
vittime.
Venti
giorni
dopo,
Gran
Bretagna
e
Bulgaria
co-sponsorizzarono
una
risoluzione
ONU,
che
aboliva
le
sanzioni
sospese.
La
missiva
di
Qaddafi
all’ONU
segnava,
in
qualche
modo,
una
importante
inversione
di
rotta
nella
politica
del
colonnello,
che
da
quel
momento
in
poi
sembrò
fare
di
tutto
per
“sdoganarsi”
nei
confronti
dell’occidente.
In
questo
senso,
alcuni
passi
risultarono
fondamentali:
-
già
dal
1999,
cioè
in
epoca
ben
precedente
l’attacco
dell’11
settembre,
la
Libia
si
impegnò
a
combattere
Al
Qaeda
e a
permettere
libero
accesso
agli
ispettori
internazionali
per
controllare
i
propri
depositi
di
armamenti
(cosa
mai
avvenuta
semplicemente
perché
la
Libia
non
era
già
più
ritenuta
un
pericolo
dall’amministrazione
Bush);
-
dopo
l’11
settembre
2001,
Qaddafi
stigmatizzò
duramente
l’attentato
alle
Torri
Gemelle
e
apparve
sulla
emittente
ABC
in
una
intervista
concessa
a
George
Stephanopulos;
-
dopo
la
caduta
di
Saddam
Hussein,
nel
2003,
il
leader
della
Jamahiryya
rinnovò
l’invito
agli
osservatori
internazionali
di
controllare
il
suo
programma
militare
e si
dichiarò
disposto
a
distruggere
ogni
arma
di
distruzione
di
massa
in
suo
possesso.
Sebbene
l’amministrazione
Bush
abbia
parlato
di
un
atto
dovuto
alla
paura
di
possibili
ritorsioni,
appare
più
verosimile
che
tali
azioni
rientrassero
pienamente
nel
tentativo
del
colonnello
di
rilegittimarsi
agli
occhi
dell’occidente
(e,
infatti,
tre
anni
dopo
la
Francia
concluse
un
accordo
con
la
Libia
per
sviluppare
un
programma
nucleare
congiunto
a
scopi
pacifici);
-
nel
marzo
2004
il
premier
britannico
Tony
Blair
incontrò
pubblicamente
Qaddafi
in
una
visita
ufficiale
a
Tripoli
e ne
elogiò
pubblicamente
le
nuove
propensioni
a
fungere
da
ponte
tra
occidente
e
mondo
arabo;
- il
15
maggio
2006
il
Dipartimento
di
Stato
americano
ripristinò
piene
relazioni
diplomatiche
con
la
Libia,
che
venne
rimossa
dalla
“lista
nera”
degli
stati
fiancheggiatori
del
terrorismo
(evidentemente
non
tenendo
conto
del
“terrorismo
interno”,
visto
che,
poco
più
di
tre
mesi
dopo,
Qaddafi
invitò
tutti
i
cittadini
libici
ad
uccidere
ogni
oppositore
del
regime
...);
-
nel
luglio
2007
il
presidente
francese
Sarkozy,
in
visita
ufficiale
in
Libia,
sottoscrisse
una
serie
di
accordi
commerciali
bilaterali
con
Qaddafi
e
alcuni
accordi
multilaterali
che
riguardavano
tutta
l’Unione
Europea;
-
nel
settembre
2008
il
segretario
di
stato
americano
Condoleezza
Rice
fu
la
prima
“ministra
degli
esteri”
americana
a
compiere
una
visita
ufficiale
in
Libia
dal
1953;
- il
23
settembre
2009
vide
la
prima
apparizione,
non
priva
di
manifestazioni
di
protesta
di
sostenitori
dei
diritti
umani,
di
Qaddafi
all’Assemblea
Generale
delle
nazioni
Unite,
presso
la
quale,
per
altro,
il
colonnello
tenne
un
duro
discorso
di
accusa
contro
la
politica
del
Consiglio
di
Sicurezza,
che
definì
“di
feudalesimo
della
paura”.
Quale
è
stato
il
ruolo
dell’Italia
in
questa
curiosa
parabola
politica
internazionale
del
colonnello?
Certamente
uno
dei
ruoli
più
particolari
tra
quelli
dei
paesi
europei,
che
ha
visto
lo
sviluppo
di
relazioni
italo-libiche
a
dir
poco
ondivaghe,
fluttuanti
tra
l’aperta
ostilità
e la
creazione
di
partnership
privilegiate.
Al
momento
del
colpo
di
stato
che
depone
Idris,
infatti,
Qaddafi
sfrutta
il
passato
coloniale
italiano
per
crearsi
un
“nemico
esterno”
contro
cui
coalizzare
la
popolazione
del
suo
paese:
da
qui
le
varie
mosse
propagandistiche
quali
la
confisca
dei
beni
italiani,
l’istituzione
del
“giorno
della
vendetta”
per
ricordare
la
“cacciata
dell’invasore”
e,
soprattutto,
il
lungo
contenzioso
sui
danni
di
guerra,
richiesti
allo
Stato
italiano
come
risarcimento
per
aver
il
governo
fascista
trascinato
la
Libia
(sua
colonia)
in
guerra.
Dal
punto
di
vista
del
diritto
internazionale,
quest’ultima
richiesta
è,
di
per
sé,
risibile,
essendo
stata
la
Libia,
tra
il
1940
e il
1945,
internazionalmente
riconosciuta
come
parte
integrante
del
Regno
d’Italia,
ma,
sia
per
questioni
relative
agli
interessi
petroliferi
italiani
in
territorio
libico,
sia
per
questioni
geo-politiche
legate
ai
flussi
migratori
e ai
rapporti
di
vicinato
sul
Mediterraneo,
non
può
essere
certamente
trattata
alla
leggera.
In
realtà,
un
“risarcimento”,
in
qualche
modo,
c’è
stato
già
dai
tempi
della
“rivoluzione
verde”:
con
la
confisca
dei
beni
dei
ventimila
italiani
espulsi
nel
1970,
infatti,
lo
stato
libico
ha
incamerato
circa
400
miliardi
di
lire
dell’epoca,
pari,
all’incirca,
a
310
miliardi
di
euro
attuali,
che
non
sono
mai
stati
neppure
menzionati
all’interno
dell’accordo
Dini-Mountasser
del
luglio
1998,
che
avrebbe
dovuto
chiudere
una
volta
per
tutte
il
contenzioso
tra
Italia
e
Libia
in
materia.
A
questa
cifra
va
aggiunta
quella
dei
crediti
vantati
da
oltre
100
aziende
italiane
tra
anni
‘80
e
2000
e
mai
saldati,
per
varie
motivazioni,
da
alcuni
enti
libici:
tali
crediti,
che
ammontano
a
oltre
620
milioni
di
euro,
sono
stati
calcolati
nel
2004
dal
governo
libico
come
elementi
per
un
rimborso
forfettario
molto
inferiore
al
valore
reale
e,
al
rifiuto
dei
debitori
di
accettare
la
proposta,
come
cifre
da
ricalcolare
singolarmente,
credito
per
credito
(ricalcolo
mai
avvenuto
nella
pratica).
Nonostante
tutto
ciò,
il
menzionato
accordo
Dini-Mountasser,
sancito
dal
Comunicato
Congiunto
firmato
il 4
luglio
1998,
è
chiaramente
fortemente
sbilanciato
a
favore
della
Libia,
prevedendo
un
esborso
(in
realtà
non
chiaramente
quantificato
e
mai
ratificato
dal
parlamento)
dell’Erario
italiano
a
favore
della
Jamahiryya,
risarcimenti
ai
libici
danneggiati
dalla
guerra
e
aiuti
per
lo
sminamento
dei
residui
bellici,
oltre
che
la
creazione
di
una
società
mista
pubblica
e
privata
di
cooperazione
economica
tra
Italia
e
Libia.
Visto
che
l’attuazione
delle
direttive
del
Comunicato
procedeva
a
rilento,
nel
2001,
anche
se
non
soprattutto
per
evitare
il
continuo
ripetersi
delle
minacce
libiche
di
ritorsione,
in
alcuni
casi
accompagnate
dal
sequestro
di
imprenditori
italiani
operanti
nel
paese
nordafricano,
l’Italia
decide
di
compiere
il
“Grande
Gesto”,
consistente
nella
costruzione
a
Tripoli,
con
capitali
a
fondo
perduto,
di
un
ospedale
oncologico
supervisionato
da
specialisti
italiani
e di
un’autostrada
sulla
costa
libica
tra
Tunisia
ed
Egitto
per
un
costo
complessivo
valutato
tra
1,5
e 6
miliardi
di
Euro.
Anche
questa
risoluzione
finsce
nel
nulla
(al
di
là
di
progetti
più
o
meno
ambiziosi),
non
essendo
l’Italia
in
grado
di
sostenere
l’esborso
economico
richiesto.
Tra
2004
e
2008
i
rapporti
tra
i
due
paesi
si
trascinano
con
alterne
vicende,
tra
una
visita
a
Tripoli
del
premier
Berlusconi
nel
2004
(con
il
colonnello
Qaddafi
che
decide
di
rinominare
il
“giorno
della
vendetta”
in
“giorno
dell’amicizia
italo-libica”,
sebbene
negli
anni
successivi
i
giornali
libici
continuino
a
utilizzare
il
primo
appellativo),
la
devastazione
del
Consolato
Generale
d’Italia
a
Bengasi
e un
proclama
anti-italiano
del
leader
libico
a
Sirte
nel
2006
e
convegni
di
riconciliazione
organizzati
dal
premier
Prodi
nel
2007.
Poi,
nel
2008,
avviene
la
svolta:
il
30
agosto
Berlusconi
e
Qaddafi
firmano,
a
Bengasi,
il
cosiddetto
trattato
di
Amicizia
e
Cooperazione.
E
tutto
si
può
dire
fuorché
esso
sia
minimamente
svantaggioso
per
la
Jamahiryya,
prevedendo,
nelle
sue
tre
parti:
a)
il
risarcimento
per
le
vicende
coloniali
attraverso
la
costruzione
di
un’autostrada
di
duemila
chilometri
lungo
la
costa
libica,
con
una
spesa
totale
3,5
miliardi
di
euro,
bilanciata
in
modo
solo
parziale
dalla
chiusura
del
contenzioso
con
le
ditte
italiane
danneggiate
dalle
decisioni
libiche
prese
nel
1970
(valore
stimato
di
600
milioni);
b)
l’impegno
da
parte
dell’Italia
a
realizzare
infrastrutture
in
Libia
per
un
valore
di 5
miliardi
di
dollari
tramite
esborso
di
250
milioni
di
dollari
all’anno
per
20
anni,
con
fondi
reperiti
tramite
addizionale
IRES
a
carico
delle
aziende
petrolifere
e
gestiti
direttamente
dall’Italia
tramite
commesse
a
ditte
italiane;
c)
lo
sviluppo
di
iniziative
speciali
a
carico
dell’Italia
quali
borse
di
studio
e un
programma
di
riabilitazione
per
i
feriti
dallo
scoppio
di
mine.
In
cambio,
la
Libia
prenderà
misure
per
combattere
l’immigrazione
clandestina
dalle
sue
coste,
e
favorirà
gli
investimenti
nelle
aziende
italiane,
in
particolare
dell’ENI,
operante
nel
deserto
libico
dagli
anni
‘50.
A
seguito
della
risoluzione
definitiva
della
questione,
nel
giugno
2009
Gheddafi
ha
compiuto
la
sua
prima
visita
ufficiale
a
Roma,
recandosi
in
Campidoglio,
all’università
La
Sapienza
(dove
è
stato
duramente
contestato),
alla
sede
di
Confindustria
e
incontrando
le
massime
cariche
italiane,
arrivando
costantemente
in
ritardo
agli
appuntamenti
e
sempre
mostrando,
appuntata
sulla
sua
divisa
militare
una
foto
dell’eroe
della
resistenza
libica
anti-italiana
Omar
al-Mukhtar.
Insomma,
a
quanto,
pare
questo
nuovo
corso
della
politica
di
Qaddafi
potrà
certamente
essere
positivo
per
la
pace
mediorientale,
per
la
cooperazione
mediterranea
e,
in
prospettiva,
forse
anche
per
l’industria
europea
in
generale
e
italiana
in
particolare,
ma,
fino
ad
ora,
non
sembra
essere
stata
un
grande
affare
per
l’Italia,
né
dal
punto
di
vista
finanziario
né,
soprattutto,
ieri
come
oggi,
dal
punto
di
vista
del
prestigio
e
dell’orgoglio
nazionale.
Riferimenti
bibliografici:
G.
Arnold,
Maverick
State:
Gaddafi
and
the
New
World
Order,
Continuum
1998
A.
Aruffo,
Muhammar
Gheddafi
e la
Nuova
Libia,
Datanews
2001
E.A.V.
De
Candole,
The
Life
and
Times
of
King
Idris
of
Libya,
Mohamed
Ben
Ghalbon
1990
A.Del
Boca,
Gheddafi.
Una
Sfida
dal
Deserto,
Laterza
2010
R.
Marquise,
Scotbom:
Evidence
and
the
Lockerbie
Investigation,
Algora
Publishing
2006
F.P.
Miller,
A.F.
Vandome,
J.
McBrewster,
Muammar
al-Gaddafi,
Alphascript
Publishing
2009
M.
Qaddafi,
The
Green
Book:
The
Solution
to
the
Problem
of
Democracy,
The
Solution
to
the
Economic
Problem,
The
Social
Basis
of
the
Third
Universal
Theory,
Ithaca
Press
2005
D.
Vandewalle,
A
History
of
Modern
Libya,
Cambridge
University
Press
2006
A.
Varvelli,
L’Italia
e
l’Ascesa
di
Gheddafi.
La
Cacciata
degli
Italiani,
le
Armi
e il
Petrolio
(1969-1974),
Baldini
Castoldi
Dalai
2009