N. 51 - Marzo 2012
(LXXXII)
islam e diritto di famiglia
tra passato e presente
di Francesca zamboni
Il Corano recita: “Gli uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donano dei loro beni per mantenerle; le donne devote sono dunque devote a Dio e sollecite della propria castità, così come Dio è stato sollecito di loro; quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti, poi battetele; ma se vi ubbidiranno, allora non cercate pretesti per maltrattarle; chè Iddio è grande e sublime” (IV, 34).
Il versetto in questione
rappresenta
la
sintesi
della
condizione
della
donna
nel
dār
al-Islam,
frutto
a
sua
volta
del
dislivello
che
esalta
la
figura
maschile
rispetto
a
quella
femminile.
Si
tratta
di
una
struttura
gerarchica
in
cui
tuttavia
uomo
e
donna
giocano
un
ruolo
vicendevolmente
complementare,
poiché
non
esiste
la
realizzazione
dell’uno
senza
la
presenza
dell’altro.
Si
tratta
quindi
di
una
struttura
dicotomica,
ma
armonica
allo
stesso
tempo.
Una separazione bipolare
che
trova
stabilità
nell’unione
sessuale
legittimamente
consumata
all’interno
del
matrimonio,
dove
regna
un
cosmos
a
dispetto
di
un
caos,
figlio
dell’adulterio
propriamente
detto
zinā,
ovvero
la
pietra
di
paragone
che
permette
di
esaltare
la
positività
e la
necessità
dell’istituto
matrimoniale
affinché
si
realizzino
i
voleri
di
Allah,
i
quali
prendono
vita
a
partire
dal
ruolo
di
guida
che
Dio
ha
affidato
all’uomo.
La
donna
è
pertanto
fondamentale
alla
realizzazione
della
figura
maschile,
ma
resta
sempre
un
gradino
al
di
sotto
dell’uomo.
L’uomo, una volta raggiunta
la
pubertà,
diventa
parte
di
un
mondo
esclusivo
in
cui
predomina
lo
spirito
collettivo
tipicamente
maschile
a
svantaggio
dell’universo
femminile
che
viene
sistematicamente
privato
del
suo
valore.
Sebbene
il
Corano
abbia
segnato
un
progresso
rispetto
all’epoca
preislamica,
nel
passaggio
dalla
credenza
religiosa
allo
svolgimento
della
vita
quotidiana,
la
situazione
che
si
presenta
è
ben
diversa.
Infatti,
se
da
un
lato
la
donna
ha
gli
stessi
diritti
e
doveri
religiosi,
da
un
punto
di
vista
pratico
le
sono
preclusi
e
negati
molti
aspetti
giuridici
e
sociali.
Motivo per il quale la
donna
musulmana
non
può
sposare
uomini
appartenenti
ad
altre
religioni
e
non
può
pregare
nella
moschea,
se
non
a
patto
che
ciò
non
avvenga
alla
presenza
di
un
uomo
e
usufruendo
delle
apposite
zone
riservatele.
Non
solo,
essa
non
gode
di
nessun
potere
decisionale
né
per
quanto
riguarda
il
proprio
destino,
né
per
il
futuro
dei
propri
figli.
La
testimonianza
femminile
vale
la
metà
rispetto
a
quella
maschile
e,
in
caso
di
risarcimento
del
danno,
ha
diritto
sempre
alla
metà
di
quello
che
invece
spetterebbe
ad
un
uomo.
La donna, inoltre, ha il
dovere
di
indossare
il
velo
affinché
il
proprio
corpo
non
diventi
oggetto
di
desiderio
sessuale
che
non
sia
del
marito.
Sull’uso
del
velo
sono
state
date
molte
interpretazioni:
c’è
chi
sostiene
che
sia
una
prescrizione
coranica
volta
ad
esaltare
la
modestia
della
donna
e
c’è
chi
lo
considera
una
tradizione,
oltretutto
abolita
in
molti
paesi.
Gli
esempi
di
tale
superamento
sono
la
Turchia
e la
Tunisia,
dove
esiste
la
famosa
“circolare
108”,
emanata
negli
anni
Novanta,
che
proibisce
l’uso
del
velo
nei
luoghi
pubblici.
Infine,
per
completare
il
quadro
della
condizione
della
donna
nell’Islam,
è
sufficiente
chiudere
questa
panoramica
sull’universo
femminile
con
la
questione
dell’eredità,
e
ciò
per
sottolineare
ancora
una
volta
la
netta
inferiorità
femminile.
Infatti anche in tale
caso
vale
il
principio
per
cui
il
maschio
riceve
due
volte
la
parte
della
femmina
e
questo
perché
gli
obblighi
economici
del
marito
eccedono
quelli
della
donna
a
partire
dalla
dote
nuziale,
che
l’uomo
le
versa
e
che
rimane
nella
esclusiva
proprietà
della
stessa,
anche
nel
caso
in
cui
i
coniugi
dovessero
divorziare.
La
donna
può,
inoltre,
gestire
i
suoi
guadagni,
mentre
all’uomo
spetta
il
suo
mantenimento
e
quello
dei
propri
figli.
La
normativa
in
materia
prevede
che
si
parli
di
successione
quando,
alla
morte
di
una
persona,
l’insieme
dei
suoi
beni
(tariqa)
venga
impiegato
per
pagare
il
rito
funebre
e i
debiti.
La
parte
restante
è
destinata
agli
eredi
indicati
dalla
legge
a
meno
che
il
de
cuius
abbia
compiuto
un
atto
di
ultima
volontà
(wasiya).
Poi
si
procede
a
dare
la
parte
alla
moglie
o al
marito
del
defunto
e
ancora
una
parte
spetta
al
padre
e
alla
madre.
Infine
quel
che
resta
viene
diviso
tra
i
figli
ed è
in
tal
caso
che
la
femmina
riceve
la
metà
di
quello
che
spetta
al
maschio.
Nel
caso
in
cui
il
defunto
non
abbia
figli
la
porzione
dei
genitori
verrà
aumentata
e,
se
vi
sono
fratelli
o
sorelle,
anche
loro
avranno
diritto
ad
una
parte.
Nel
caso
in
cui
egli
non
abbia
né
genitori
in
vita
né
figli,
tutti
i
beni
andranno
a
fratelli
e
sorelle.
Dall’eredità
va
tenuto
distinto
il
testamento,
che
è un
atto
doveroso
che
deve
essere
compiuto
davanti
a
due
testimoni.
Con
il
testamento
il
profeta
Muhammad
voleva
perfezionare
la
successione
legittima,
assicurando,
sulla
parte
disponibile
della
successione,
la
condizione
dei
parenti
più
poveri,
che
erano
stati
esclusi
dall’eredità.
Da
quanto
detto
si
può
dedurre
come
il
Corano
sia
volto
al
mantenimento
dei
buoni
rapporti
familiari,
tuttavia
la
donna,
pur
facendo
parte
di
un
nucleo
che
dovrebbe
essere
il
più
armonico
possibile,
non
riesce
mai
ad
incarnare
tali
diritti
nella
loro
pienezza.
È
nell’istituto
matrimoniale
che
il
ruolo
della
donna
si
manifesta
nella
sua
totalità,
poiché
il
confronto
tra
i
due
sessi
è
inevitabile.
Per
il
diritto
musulmano
il
matrimonio
(nikāh)
è un
contratto
privato
a
tempo
indeterminato
con
cui
un
uomo
si
impegna
a
dare
alla
sua
donna
una
dote
(mahr),
in
cambio
del
diritto
ad
avere
con
lei
rapporti
sessuali
leciti.
Il
matrimonio
islamico
rappresenta,
infatti,
la
legittimazione
dei
bisogni
sessuali,
opponendosi
a
qualsiasi
altra
forma
di
unione
extra-coniugale,
la
quale
prende
il
nome
di
zinā,
che
significa
appunto
adulterio
o
fornicazione.
Nell’Islam
non
vi è
posto
per
il
celibato
e il
matrimonio
non
ha
valore
di
sacramento,
come
avviene
invece
per
il
Cristianesimo,
poiché
si
tratta
di
un
atto
lodevole,
il
cui
scopo
va
oltre
la
legittimazione
dei
rapporti
tra
uomo
e
donna,
sfociando
nella
tutela
delle
parti,
la
procreazione,
la
perpetuazione
della
specie
e la
gratificazione
sessuale,
affinché
il
legame
divenga
un
evento
solenne
per
vivere
in
pace
secondo
i
comandamenti
di
Allah.
Il
matrimonio
deve
essere,
comunque,
visto
da
due
punti
di
vista:
quello
dell’uomo
e
quello
della
donna.
Per
il
primo
si
tratta
del
mezzo
tramite
il
quale
egli
può
esercitare
la
propria
autorità
maritale
e il
proprio
intimo
godimento,
mentre
per
la
seconda
si
tratta
del
diritto
ad
un
compenso
(‘iwad)
e al
sostentamento,
che
comprende
vitto,
alloggio
e
vestiario.
Nikāh,
in
arabo,
significa
“accoppiamento”,
“coito”
quindi
matrimonio
significa
accoppiare
e
affinché
esso
sia
valido
devono
sussistere
i
seguenti
requisiti
fondamentali:
la
capacità
giuridica
delle
parti,
il
consenso
dei
futuri
coniugi,
l’intervento
del
tutore
(wali)
e il
donativo
nuziale
(mahr).
La
capacità
delle
parti
prevede,
secondo
il
diritto
malikita,
che
le
parti
abbiano
la
capacità
giuridica
per
sottoscrivere
il
contratto
in
questione,
ovvero
un
negozio
giuridico
frutto
di
un
accordo
tra
i
due
sposi
e
perfezionato
da
clausole
ben
determinate;
il
tutto
alla
presenza
dello
sposo,
del
wali
(tutore)
e di
due
adoul
(funzionari
giuridici
islamici).
Le
parti
contraenti
(gli
sposi
e il
curatore
matrimoniale)
devono
godere
di
requisiti
precisi.
Lo
sposo
deve
essere
pubere,
sano
di
mente
e
abile
alla
consumazione
del
matrimonio;
la
donna
deve
essere,
anch’essa,
pubere,
sana
di
mente,
abile
a
consumare
il
matrimonio
e
infine
deve
essere
musulmana,
ebrea
o
cristiana.
Per
quanto
concerne
il
wali,
anch’egli
parte
contraente
del
negozio
giuridico,
deve
godere
di
determinate
caratteristiche.
Infatti,
per
la
dottrina
malikita,
il
curatore
dovrebbe
essere
il
parente
prossimo
nella
linea
maschile
ed
essendo
colui
che
esprime
la
volontà
della
futura
sposa
e
che
la
concede
al
coniuge,
la
sua
assenza
significherebbe
invalidità
del
matrimonio.
Egli
rappresenta
quindi
il
perfezionamento
dell’istituto
matrimoniale
e
come
tale
deve
essere
musulmano,
di
sesso
maschile
e
sano
di
mente.
Il
secondo
elemento
essenziale
dell’istituto
matrimoniale
islamico
è il
consenso
delle
parti.
Secondo
il
diritto
musulmano,
come
per
ogni
contratto
che
si
rispetti,
il
matrimonio
deve
essere
concluso
con
la
manifesta
volontà
di
entrambe
le
parti,
che
non
necessariamente
coincidono
con
gli
sposi.
Sulla
base
di
quanto
previsto
dalla
shari’a,
ogni
individuo
può
essere
titolare
di
un
rapporto
matrimoniale,
anche
il
bambino
appena
nato.
Ovviamente
in
quest’ultimo
caso
vi
sarà
qualcuno
che
obbligatoriamente
lo
farà
per
lui,
ovvero
il
tutore
matrimoniale
(wali),
che
solitamente
è il
padre
e
che
come
tale
ha
il
diritto
di
esercitare
il
cosiddetto
potere
di
costrizione
(wilayat
al-
igbar),
che
di
regola
cessa
al
momento
in
cui
il
figlio
raggiunge
la
maggiore
età.
Tale
regola
è
propria
della
scuola
hanafita
e
hanbalita.
Ma
ad
esse
fanno
eccezione
quella
malikita
e
sciafiita,
per
le
quali
la
verginità
della
donna
comporta
ulteriormente
l’esercizio
del
potere
di
costrizione
al
matrimonio,
poiché
essere
illibate
significa
non
avere
alcuna
esperienza
di
vita
e
quindi
incapacità
ad
essere
titolari
di
interessi
personali
e
patrimoniali
che
sono
parti
fondamentali
del
nikāh.
Tuttavia
il
potere
di
costrizione
è
stato
eliminato
dalle
moderne
legislazioni,
anche
il
Regno
del
Marocco,
che
all’articolo
4
del
proprio
codice
di
famiglia
manteneva
l’igbar
(potere
di
costrizione)
nel
caso
di
condotta
impropria
da
parte
della
donna,
ha
eliminato
tale
istituto
l’8
marzo
2004.
Se è vero da un lato che
la
donna
non
può
essere
più
costretta
al
matrimonio,
è
anche
vero,
dall’altro
lato,
che
non
le è
ancora
stato
concesso,
ad
oggi,
di
contrarre
le
nozze
autonomamente
senza
l’assistenza
del
wali,
la
volontà
del
quale
concorre,
parallelamente
a
quella
della
donna,
alla
scelta
del
coniuge.
Quindi
possiamo
dedurre
come
la
donna
non
abbia
potere
decisionale
e
come
la
figura
femminile
sia
sempre
un
grado
inferiore
rispetto
a
quella
dell’uomo,
anche
se
il
Corano
ha,
per
alcuni
aspetti,
rivalutato
la
donna
soprattutto
sul
piano
religioso.
Se
pensiamo
infatti
al
matrimonio
preislamico,
dove
la
donna
veniva
considerata
un
oggetto
concesso
dal
padre
al
marito
dietro
compenso
e
dove
la
poligamia
non
aveva
limiti
e la
prostituzione
era
imposta,
allora
la
rivalutazione
della
donna
diventa
palese.
Non solo, le attuali
riforme
matrimoniali
hanno
ulteriormente
modificato,
migliorandola,
la
condizione
della
donna
rispetto
al
diritto
musulmano
classico.
Per
quanto
concerne
la
forma
del
consenso
è
sufficiente
che
il
wali
utilizzi
la
formula
“Io
ho
dato
mia
figlia
in
matrimonio”,
e
che
lo
sposo,
o
chi
la
rappresenta,
dichiari
di
accettare.
Le
dichiarazioni,
così
come
il
consenso
della
sposa,
devono
essere
sempre
chiare,
dirette
e
manifeste.
Alla
capacità
delle
parti
e al
consenso
delle
stesse
fa
seguito,
come
abbiamo
potuto
già
mostrare,
un
altro
elemento
essenziale,
ovvero
l’intervento
del
wali,
frutto
di
una
remota
usanza
araba,
che
consiste
appunto
nel
rappresentare
il
consenso
della
donna,
concedendola
al
marito.
Un
altro
elemento
fondamentale,
che
trae
origine
dall’epoca
preislamica,
è il
mahr
o
sadāq,
ovvero
un
corrispettivo
che
si
pagava
ai
congiunti
della
sposa
per
ottenere
il
consenso
all’unione.
Tuttavia
con
il
Corano,
il
mahr
ha
acquisito
un’altra
funzione,
facendo
compiere
un
progresso
a
favore
della
figura
femminile,
poiché
il
donativo
nuziale,
il
cui
ammontare
è
solitamente
indicato
nel
contratto,
viene
attribuito
direttamente
e
obbligatoriamente
alla
donna,
divenendo
proprietà
della
stessa,
la
quale
ne
può
disporre
a
suo
piacimento.
Il
donativo,
la
cui
mancanza
è
causa
di
nullità
matrimoniale,
sta
ad
indicare
l’impegno
coscienzioso
dello
sposo
e la
serietà
delle
sue
intenzioni.
La
sua
determinazione
può
essere
rimessa
al
marito,
alla
moglie
oppure
ad
un
terzo.
Nel
caso
in
cui
il
mahr
non
venga
citato
a
livello
contrattuale,
o
nel
caso
in
cui
le
parti
non
riescano
ad
accordarsi
circa
il
suo
ammontare,
la
sposa
potrà
rivolgersi
ad
un
giudice,
affinché
le
venga
assegnato
un
mahr
equivalente
(mahr
al-mithl).
Il
donativo,
che
consiste
in
cose
determinate,
o
rimesse
alla
scelta
della
sposa,
deve
essere
pagato
alla
conclusione
del
contratto,
anche
se
solitamente
una
parte
viene
remunerata
al
momento
della
stipulazione,
l’altra
alla
scadenza.
Tale
parte
di
mahr
prende
il
nome
di
kali,
che
significa
appunto
credito
a
termine
della
moglie
verso
il
coniuge.
Ovviamente,
al
fine
di
un
corretto
rispetto
delle
clausole
contrattuali,
il
negozio
giuridico
deve
indicare
il
termine
entro
il
quale
il
kali
deve
essere
pagato.
Nel
caso
in
cui
tale
scadenza
venga
omessa
il
contratto
diverrebbe
rescindibile,
fino
all’avvenuta
consumazione
del
matrimonio.
Viceversa,
nel
caso
in
cui
la
consumazione
fosse
già
avvenuta,
sarà
il
giudice
ad
assegnare
al
marito
un
termine
entro
il
quale
effettuare
il
previsto
pagamento.
La
determinazione
non
solo
deve
essere
definita
nel
contratto,
ma
deve
avere
per
oggetto
un
bene
lecito
e
quantificabile
economicamente.
Tuttavia,
secondo
quanto
recita
un
versetto
del
Corano,
non
è
mai
stato
possibile
fissare
un
limite
massimo
all’ammontare
del
donativo
e, a
tal
proposito,
i
giuristi
hanno
sempre
sostenuto
di
non
pretendere
doti
troppo
elevate.
Come
è
già
stato
detto
in
precedenza,
il
donativo
nuziale,
una
parte
del
quale
consiste
in
denaro,
deve
essere
pagato
alla
sposa,
che
lo
deve
impiegare
per
l’acquisto
del
corredo.
Lo
sposo
ha
inoltre
il
diritto
di
accertarsi
che
quella
parte
di
mahr
sia
stata
utilizzata
per
il
fine
suddetto.
Ma,
al
di
là
della
definizione
di
dote
e
del
suo
ammontare,
vi è
un
caso
dove
il
diritto
della
donna
al
mantenimento
diviene
atto
di
sottomissione
ai
voleri
del
coniuge,
infatti,
affinché
la
donna
possa
rivendicare
il
diritto
al
proprio
sostentamento
non
solo
deve
essere
la
parte
di
un
contratto
validamente
stipulato,
ma
deve
aver
consumato
le
nozze,
o
meglio,
deve
essersi
messa
a
disposizione
del
proprio
coniuge,
piegandosi
all’autorità
maritale.
Quindi
l’apparente
protezione
economica,
che
il
Corano
sembra
concedere
alla
donna,
nasconde
ancora
una
volta
lo
stato
di
inferiorità
della
figura
femminile
rispetto
a
quella
dell’uomo.
Quindi se la donna vuole
godere
dei
propri
diritti
deve
obbedire,
ovvero
acconsentire
ai
rapporti
sessuali,
coabitare
col
marito,
uscire
o
ricevere
visite
solo
con
il
suo
consenso,
seguirlo
nei
suoi
viaggi
lavorativi
(salvo
clausole
contrarie
stabilite
nel
contratto)
ed
infine
non
deve
mostrarsi
in
pubblico
senza
velo.
Nel
caso
in
cui
la
donna
non
rispettasse
i
suoi
doveri,
l’uomo
può
privarla
degli
alimenti
o
ancora
ricorrere
al
ripudio.
Tuttavia
la
moglie
ha
il
diritto
di
negarsi
al
coniuge
nel
caso
in
cui
sia
malata
o
incinta,
si
trovi
in
pellegrinaggio,
o in
periodo
mestruale,
ed
infine
nel
caso
in
cui
il
marito
non
abbia
pagato
il
dono
nuziale.
Da
qui
si
deduce
che,
qualora
il
marito
venga
meno
ai
suoi
doveri,
contravvenendo
così
agli
obblighi
previsti
dal
nikāh,
la
sposa
possa
ricorrere
al
giudice
affinché
egli
versi
la
nafaqah.
Se l’uomo continuasse ad
essere
inadempiente,
il
suo
patrimonio
sarà
sottoposto
ad
esecuzione
forzata.
Gli
effetti
del
matrimonio
non
riguardano
soltanto
i
rapporti
personali,
ma
anche
quelli
patrimoniali.
Il
matrimonio
islamico,
infatti,
non
presume
la
comunione
dei
beni,
tanto
che
ogni
coniuge
è
proprietario
dei
beni
posseduti
prima
delle
nozze
e di
quelli
acquistati
in
seguito,
disponendone
a
suo
piacimento.
Le
nozze
sono
anche
fonte
di
vincolo
ereditario,
facendo
del
coniuge
rimasto
vedovo
il
legittimo
erede,
ad
eccezione
però
dei
seguenti
casi:
quando
il
matrimonio
è
nullo,
quando,
nonostante
la
validità
dell’unione,
la
donna
non
sia
musulmana
e
infine
nel
caso
in
cui
il
matrimonio
divenga
definitivo
per
essere
trascorso
il
termine
del
ritiro
legale
(idda).
Gli
effetti
del
matrimonio
continuano
quando
i
coniugi
divengono
genitori,
assumendo
distinti
diritti
e
doveri
nei
confronti
del
figlio
sin
dalla
sua
nascita.
La
madre
ha
un
diritto
di
custodia
per
i
maschi
fino
alla
pubertà
e
per
le
femmine
fino
alla
conclusione
del
matrimonio.
Al
padre
invece
spetta
l’educazione
del
figlio,
la
tutela
legale
e il
suo
mantenimento,
fino
alla
pubertà
per
i
maschi
e
fino
al
matrimonio
per
le
femmine,
esercitando
parità
di
trattamento
a
prescindere
dal
sesso.
Il
padre,
però,
non
è
tenuto
al
sostentamento
della
figlia
ripudiata
o
vedova
e
neanche
a
quello
del
figlio
pubere
e
incapace
all’attività
lavorativa.
Infine
non
sono
dovuti
gli
alimenti
ai
nipoti
e ai
figli
avuti
dalla
prima
moglie.
Il
padre
è
esentato
da
tali
doveri
in
caso
di
ristrettezza
economica
e
quando
il
figlio
sia
capace
di
provvedere
autonomamente
al
proprio
mantenimento.
La
madre
quindi
non
è
tenuta
al
sostentamento
del
proprio
figlio,
salvo
il
caso
in
cui
egli
sia
impubere
e il
padre
non
sia
presente,
morto
o
inadempiente.
Il
padre
rappresenta
di
conseguenza
la
figura
predominante
sia
al
cospetto
della
propria
donna
che
a
quello
dei
propri
figli,
ma,
nonostante
ciò,
vi
sono
clausole
assimilabili
al
nikāh.
Il
loro
contenuto
va
dalla
possibilità
per
la
moglie
di
esercitare
una
professione
alla
clausola
monogamica
con
cui
il
marito
si
impegna
a
non
contrarre
altri
vincoli
matrimoniali.
Si
tratta
di
clausole
risolutive
espresse,
il
cui
mancato
adempimento
comporta
la
richiesta
di
divorzio
da
parte
della
moglie.
Infine
un'altra
clausola
paragonabile
al
contratto
matrimoniale
è
l’istituto
della
mut’ah
o
più
precisamente
al-nikāh
al-
mut’ah,
che
significa
matrimonio
di
piacere,
contratto
per
un
periodo
di
tempo
determinato
al
fine
di
legittimare
rapporti
sessuali,
che
altrimenti
sarebbero
considerati
illeciti.
La
pratica
del
matrimonio
temporaneo
se
da
alcuni
viene
vista
come
emancipazione
sessuale
della
donna,
da
altri
viene
considerata
una
forma
di
prostituzione.
Non
solo,
in
alcuni
casi,
secondo
quanto
prescritto
da
alcuni
testi
giuridici,
la
mut’ah
prevede
un
termine
speciale
che
fa
della
donna
un
oggetto
da
affittare
(musta’jara).
La donna ancora una volta
diviene
oggetto
di
sottomissione
anche
se,
come
già
sottolineato,
il
Corano
ha
per
certi
aspetti
rivalutato
la
donna.
Basti
pensare
al
versetto
del
Corano
che
legittima
la
poligamia,
ma
al
contempo
sancisce
l’obbligo
di
equità
e
giustizia
verso
le
proprie
spose.
Il
Libro
Sacro
recita
(IV,
3):
“E
se
temete
di
essere
ingiusti
nei
confronti
degli
orfani,
sposate
allora
due
o
tre
tra
le
donne
che
vi
piacciono;
ma
se
temete
di
essere
ingiusti,
allora
sia
una
sola
o le
ancelle
che
le
vostre
destre
possiedono,
ciò
è
più
atto
ad
evitare
di
essere
ingiusti”.
A
tale
versetto
può
esserne
accostato
un
altro
(IV,
129):
“non
potete
mai
essere
equi
con
le
vostre
mogli
anche
se
lo
desiderate.
Non
seguite
però
la
vostra
inclinazione
fino
al
lasciarne
una
in
sospeso
[…].
Ed è proprio sulla base
di
questi
versetti
che
i
giuristi
musulmani
sono
arrivati
ad
affermare
l’interdizione
della
poliginia,
ovvero
il
diritto
di
arrivare
a
sposare
fino
a
quattro
mogli
diacronicamente
(l’una
a
distanza
dell’altra).
Tuttavia
la
poligamia
è
stata
abolita
in
Turchia
nel
1926
e in
Tunisia
nel
1956
con
l’adozione
del
Codice
dello
Statuto
Personale
(CSP),
dove
si
afferma,
all’art.
18,
che
l’istituto
in
questione
costituisce
una
fattispecie
delittuosa.
Alcuni
legislatori
hanno
riconosciuto
inoltre
alla
donna
il
diritto
di
inserire,
all’interno
del
contratto
matrimoniale,
quella
clausola
monogamica
(cosiddetta
limitazione
convenzionale),
il
cui
mancato
rispetto
legittima
la
moglie
al
diritto
di
chiedere
il
divorzio.
Il
divieto
della
poligamia
sfocia
però
in
un
sempre
più
frequente
ricorso
al
ripudio
della
propria
donna
per
sposarne
un’altra.
Il
ripudio
costringe
la
donna,
per
motivi
spesso
finanziari,
a
tornare
presso
la
famiglia
di
origine
e,
una
volta
trascorso
il
periodo
di
ritiro
legale
(idda),
essa
perde
ogni
diritto
successorio
e al
mantenimento.
E
nel
caso
vi
siano
figli
può
perderne
la
custodia.
Il
talāq
per
il
diritto
islamico
rappresenta
lo
scioglimento
del
matrimonio
tra
sposi
viventi
e si
può
realizzare
in
tre
modi:
l’annullamento
(tafrīq)
davanti
ad
un
qādī
per
gravi
motivi
(sterilità,
impotenza
e
maltrattamenti),
il
divorzio
per
mutuo
consenso
(kuhl’)
ed
infine
il
ripudio
unilaterale
(talāq),
previsto
dal
Corano
e
che
può
essere
revocabile
(raj’ī)
o
definitivo
(bā’in).
Ciò
dipende
dalla
formula
pronunciata
dal
marito.
Il
ripudio
non
richiede
la
presenza
della
moglie
e
può
essere
esercitato
anche
da
terzi
con
apposito
mandato.
Si
tratta
di
un
atto
unilaterale
non
ricettizio.
L’Islam ha limitato a
tre
il
numero
dei
ripudi
e al
terzo
esso
diviene
definitivo.
Tuttavia
il
Corano
prevede
una
conciliazione
di
tipo
arbitrale:
“E
se
temete
una
rottura
fra
marito
e
moglie,
nominate
un
arbitro
della
parte
di
lui
e
uno
della
parte
di
lei,
e se
i
coniugi
desiderano
riconciliarsi,
Dio
metterà
armonia
tra
loro,
poiché
Dio
è
sapiente
e di
tutti
ha
notizia”
(IV,
35).
In
tal
caso
i
moderni
legislatori
hanno
introdotto
una
norma
la
quale
prevede
che,
in
caso
di
istanza
di
divorzio,
la
donna
debba
essere
informata
del
ripudio
che
prende
validità
solo
con
la
sua
registrazione.
Oltre
alla
classica
forma
di
ripudio
ne è
stata
prevista
un’altra,
che
può
essere
pronunciata
dall’uomo
quando
la
donna
è in
periodo
mestruale,
dopo
aver
avuto
rapporti
sessuali
con
lei
e
durante
il
periodo
di
ritiro
legale
(idda).
Il tutto tramite
un’unica
formula
senza
ricorrere
a
quel
triplice
rituale
intervallato
da
lunghi
lassi
temporali.
Esso
viene
definito
laico,
poiché
non
è
previsto
dal
Corano
ed è
il
frutto
delle
decisioni
dei
moderni
legislatori.
Non
è
valido,
inoltre,
il
ripudio
esercitato
dall’ubriaco,
dall’infermo
di
mente
e da
colui
che
è
alterato
emotivamente.
È
stato
inoltre
proibito
il
ripudio
sottoposto
al
verificarsi
di
un
dato
evento
o
sottoposto
a
termine.
Al
giudice
spetta
poi
definire
gli
obblighi
che
derivano
dallo
scioglimento
ed
eventualmente
stabilire
il
risarcimento
del
danno
a
carico
del
ripudiante,
nel
caso
in
cui
la
donna
sia
stata
danneggiata
dal
ripudio
stesso.
Il risarcimento non è da
confondersi
con
il
dono
di
consolazione
(al-mut’ah)
e
neanche
con
il
matrimonio
di
piacere.
Da
sottolineare,
infine,
che
ogni
scioglimento
di
matrimonio
consumato
comporta
un
periodo
di
ritiro
legale
(idda),
che
la
moglie
dovrà
osservare
prima
di
contrarre
nuove
nozze.
Il
ritiro
legale
della
donna
in
gravidanza
dura
fino
alla
nascita
del
bambino;
nel
caso
in
cui
la
donna
non
sia
in
stato
interessante
dura
quattro
mesi
e
dieci
giorni;
per
i
casi
restanti
(anche
quello
in
cui
la
donna
abbia
avuto
un
rapporto
sessuale
al
di
fuori
del
matrimonio)
dura
l’arco
di
tre
cicli
mestruali.
Invece,
se
la
donna
non
è
mestruata
il
periodo
di
continenza
dura
tre
mesi.
Il
ripudio
(al-tālaq)
è da
tenersi
distinto
dal
divorzio
(al-tatliq),
che
indica
invece
lo
scioglimento
del
matrimonio,
richiesto
al
giudice
su
istanza
di
uno
dei
due
coniugi
e
che
si
contrappone
quindi
al
potere
unilaterale
dell’uomo
di
ripudiare
la
moglie.
Una
causa
di
divorzio
è il
mancato
pagamento
previsto
per
il
mantenimento,
ma
ciò
vale
per
la
scuola
malikita,
sciafiita,
hanbalita,
ma
non
per
quella
hanafita,
che
non
concede
alla
donna
il
diritto
di
agire
in
giudizio
per
ottenere
lo
scioglimento
del
matrimonio,
nel
caso
in
cui
sia
impossibile
condurre
una
normale
vita
coniugale
a
causa
di
malattie
psichiatriche
invalidanti
la
salute
del
coniuge.
Inoltre
si
ha
diritto
al
divorzio
in
caso
di
assenza
prolungata
del
marito,
che
cagiona
alla
donna
non
tanto
un
deficit
economico
o la
mancanza
di
un
supporto
affettivo
anche
per
i
figli,
quanto
la
possibile
esposizione
della
sposa
a
tentazioni
adulterine.
Infine
l’ultima
causa
di
divorzio
è il
mancato
pagamento
della
parte
di
donativo
da
versarsi
al
momento
della
stipulazione
contrattuale
e
prima
che
il
matrimonio
venga
consumato.
Quindi,
affinché
il
matrimonio
islamico
sia
valido,
non
solo
devono
sussistere
elementi
essenziali,
ma
entrano
in
gioco
anche
elementi
religiosi,
giuridici,
sociali
e
morali
senza
i
quali
il
matrimonio
risulta
invalido.
Inoltre
il
ripudio,
il
divorzio,
la
mancanza
di
un
elemento
essenziale
incidono
sulla
corretta
fattispecie
del
contratto
in
questione,
come
la
presenza
di
impedimenti
permanenti
o
temporanei.
I
primi
sono
la
parentela,
l’affinità
e
l’allattamento,
che
crea
tra
la
nutrice
e il
lattante
un
rapporto
pari
a
quello
tra
madre
e
figlio.
I
secondi
riguardano:
1)
la
disparità
di
religione,
poiché
la
donna
non
può
sposare
un
non
musulmano,
mentre
il
musulmano
può
sposare
una
non
musulmana,
purché
ebrea
o
cristiana;
2)
il
triplice
ripudio,
ovvero
l’uomo
non
può
contrarre
nozze
con
la
donna
che
ha
ripudiato
tre
volte,
a
meno
che
la
donna
non
si
sia
sposata
di
nuovo,
abbia
consumato
tale
matrimonio
oppure
si
trovi
libera
dal
vincolo
in
seguito
alla
morte
del
marito,
al
ripudio
o al
divorzio;
3)
infine
l’assenza
di
uno
“stato
di
libertà”
per
il
quale
è
proibito
ogni
matrimonio
con
una
donna
che
si
trova
ancora
sotto
la
tutela
matrimoniale,
matrimonio
non
sciolto
oppure
ritiro
di
continenza
(idda).
Il matrimonio islamico è
volto
quindi
all’armonia
familiare
anche
se
come
sintesi
di
un
rapporto
dialettico
tra
uomo
e
donna,
che
tuttavia
trova
la
sua
realizzazione
nella
procreazione
e
nel
mantenimento
della
specie.
L’aborto,
quindi,
è
teoricamente
proibito,
salvo
i
casi
in
cui
la
vita
della
madre
è in
pericolo
e
quando
il
contesto
sociale
e
personale
della
stessa
non
favoriscano
la
prosecuzione
della
gravidanza.
In
Tunisia
l’aborto
è
consentito
non
solo
nel
caso
in
cui
la
gravidanza
possa
mettere
a
repentaglio
la
vita
della
madre
o
quando
non
vi
siano
situazioni
economiche
favorevoli,
ma
anche
quando
la
gestazione
sia
la
conseguenza
di
una
violenza
sessuale
o di
un
incesto.
In
Algeria
e
Marocco
la
pratica
è
permessa
al
solo
fine
di
garantire
la
salute
fisica
e
mentale
della
madre.
L’interruzione
di
gravidanza
è
comunque
possibile
fino
al
quarto
mese.
Dopo
tale
termine
l’aborto
viene
considerato
un
omicidio.
Conseguentemente,
anche
la
contraccezione
rientra
nelle
azioni
proibite,
dal
momento
che
l’unione
di
uomo
e
donna
è
indirizzata
alla
creazione,
tuttavia
l’Islam
riconosce
che
l’atto
sessuale
non
è
soltanto
finalizzato
alla
riproduzione,
ma
anche
al
piacere.
Con il
tempo,
sono
stati
considerati
leciti
tutti
i
sistemi
contraccettivi
temporanei
e
severamente
proibiti
quelli
irreversibili
come
la
sterilizzazione.