attualità
BELFAST CALLING
LO SCENARIO IRLANDESE NEL POST-BREXIT
di Gian Marco Boellisi
Dopo mesi e mesi di ritardi e
trattative, alla fine la tanto agognata
Brexit ha preso il via. Dal primo
gennaio 2021 infatti la Gran Bretagna
non fa più parte dell’Unione Europea.
Ora essa dovrà seguire un percorso fatto
di numerosi iter burocratici e
amministrativi, i quali porteranno al
completo scioglimento di tutti quei
legami creatisi tra Europa e Gran
Bretagna all’indomani del Secondo
Conflitto Mondiale.
Non è un segreto tuttavia che gli
accordi hanno richiesto mesi e mesi di
negoziazione da parte di entrambe le
parti, portando concretamente il rischio
del tanto famigerato “no deal”, ovvero
il mancato accordo. Uno dei punti più
critici delle trattative e che ancora
oggi presenta il maggior numero di
incognite è la questione irlandese, alla
luce soprattutto della tregua stipulata
nel 1998 e oggi messa in dubbio
dall’uscita inglese fuori dalla UE.
Infatti, come svariati analisti avevano
previsto, già dopo appena tre mesi
dall’inizio della Brexit i rapporti tra
Regno Unito e Irlanda stanno incontrando
i primi ostacoli e probabilmente non
siamo che all’inizio. È interessante
quindi analizzare quanto sta succedendo
in queste settimane in Irlanda del Nord,
Irlanda e Gran Bretagna, così da
comprendere a pieno quale sarà il futuro
delle relazioni di queste importanti
nazioni.
In primis è importante partire da una
breve analisi storica. I rapporti tra
l’Irlanda e l’Inghilterra sono sempre
stati particolari, in virtù
prevalentemente del forte espansionismo
inglese, il quale ha sempre considerato
l’isola vicina un vero e proprio
giardino di casa. Le attività militari
di Londra possono essere fatte risalire
all’invasione inglese del 1171 da parte
di Enrico II d’Inghilterra. Da qui in
avanti la storia delle due nazioni è
stata un susseguirsi di invasioni,
guerre e successive tregue che hanno
portato infine all’indipendenza del
1921, a esclusione delle 6 delle 9
contee dell’Ulster a maggioranza
protestante, le quali sono ancora oggi
in mano britannica.
Questa divisione, sia politica ma anche
religiosa tra cattolici e protestanti,
portò a quelli che oggi sono noti come i
Troubles, ovvero un periodo della durata
di circa 30 anni in cui gruppi armati,
appartenenti sia alla fazione
nazionalista che lottava per un’Irlanda
unita sia alla fazione unionista che
preferiva la permanenza del’Irlanda del
Nord nel Regno Unito (quest’ultima con
supporto logistico e militare da parte
dell’esercito di sua Maestà),
scatenarono una lotta senza quartiere
per il raggiungimento dei propri
obiettivi. Tutto ciò ebbe termine nel
1998 con gli accordi di pace del Venerdì
Santo, ponendo fine a un conflitto che
aveva causato svariate migliaia di morti
(se ne stimano circa 4.000) durante
tutta la sua durata.
Uno dei principi cardine degli accordi
di pace, sul quale tra l’altro si regge
ancora oggi il fragile equilibrio tra le
due regioni, è sempre stato un confine
aperto e libero tra l’Irlanda e
l’Irlanda del Nord. Ciò fu reso
possibile solamente dal fatto che sia
Gran Bretagna, e quindi Irlanda del
Nord, sia l’Irlanda stessa facessero
parte dell’Unione Europea, e quindi non
vi fu una reale necessità di porre
barriere doganali o altre tipologie di
controlli a merci o persone nel
passaggio da una regione all’altra.
Questo status di cose tuttavia ha
trovato una sua fine con la Brexit,
essendo oggi il confine di 449 km che
separa le due Irlande de facto il
confine tra uno stato europeo
(l’Irlanda) e uno stato extra-europeo
(la Gran Bretagna).
Non c’è da farsi illusioni: sia per i
nazionalisti irlandesi sia per gli
unionisti nordirlandesi gli accordi di
pace del Venerdì Santo hanno
rappresentato solamente una tregua
temporanea dalla guerra che tanto
aspramente entrambe le parti avevano
combattuto. Questo prevalentemente
perché nessuna delle due fazioni ha
ottenuto gli obiettivi sperati,
lasciando un enorme amaro in bocca a
entrambe. Infatti la pace portò una
libera circolazione all’interno
dell’isola irlandese, ovvero il
desiderio più recondito delle forze
nazionaliste irlandesi, lasciando però
una grossa porzione della stessa ancora
in mano agli inglesi, il quale era
l’obiettivo principale degli unionisti.
Risulta quindi fuori discussione che,
nonostante gli interessi enormemente
differenti in gioco, l’Unione Europea
abbia assicurato per più di 20 anni
un’isola pacificata e unita, seppure
allo stesso tempo profondamente divisa.
Ed è in questo contesto estremamente
complesso che si inseriscono gli
avvenimenti delle ultime settimane. È
infatti notizia recente che i
rappresentanti delle forze unioniste
hanno inviato una lettera al primo
ministro britannico Boris Johnson, con
notifica in conoscenza al premier
irlandese e alla Commissione Europea, di
volersi ritirare dagli accordi di pace
del Venerdì Santo. Tra i gruppi lealisti
vi sono anche alcuni gruppi paramilitari
tra cui l’UVF (Ulster Volunteer Force),
l’UDA (Ulster Defense Association) e il
Red Hand Commando. Non è la prima volta
che i gruppi lealisti ritirano il
proprio sostegno dagli accordi di pace.
Infatti vi fu un caso analogo nel 2001
con il gruppo dell’UFF (Ulster Freedom
Fighters), tuttavia in questa occasione
la motivazione è stata inerente
all’accordo tra Regno Unito e Unione
Europea per quanto riguarda la Brexit.
Gli accordi della Brexit prevedono che,
a seguito del distacco di Londra da
Bruxelles, Gran Bretagna e Unione
Europea possano commerciare senza
tariffe aggiuntive, ma istituisce nuovi
controlli doganali e ostacoli
burocratici da rispettare affinché gli
scambi commerciali possano avere luogo.
Ciò riguarda direttamente la questione
irlandese poiché in questa maniera è
stata evitata la costruzione di una
barriera, commerciale o fisica che sia,
tra Irlanda del Nord e Irlanda,
mantenendo l’isola sia dentro l’unione
doganale inglese sia dentro il mercato
comune europeo.
In questa maniera gli scambi avvengono
tra le due parti senza controlli, ma
Londra al contrario è costretta a
limitare enormemente con controlli e
lungaggini di vario genere le merci in
entrata e in uscita dall’Irlanda del
Nord, facente parte questa della propria
unione territoriale. Ciò ha già causato
negli scorsi mesi danni economici non di
poco conto all’economia nordirlandese e
ha messo in crisi la circolazione delle
merci all’interno del Regno Unito.
Ed è proprio questo che gli unionisti
rimproverano al governo inglese, ovvero
che nel tentativo di mantenere salda la
pace tra le due Irlande esso abbia
indebolito de facto il legame tra
Irlanda del Nord e Regno Unito. Allo
stato attuale il Regno risulta essere
“economicamente diviso”, considerando
che Londra non ha potuto fare altro che
isolare parzialmente la propria
provincia in attesa di assestarsi su un
nuovo equilibrio commerciale. I gruppi
unionisti hanno dichiarato di voler
effettuare una pacifica opposizione,
senza che quindi questa uscita dagli
accordi si traduca in una chiamata alle
armi generali per gli irlandesi del
nord, fino a quando Londra non prenderà
provvedimenti per risolvere la crisi
attuale.
Gli effetti di questo isolamento
tuttavia si stanno già facendo sentire.
La prima conseguenza è stata un’iniziale
penuria di generi alimentari, visto che
la maggior parte dei supermercati
nordirlandesi si riforniva fino a
qualche mese dalla Gran Bretagna, per
poi giungere in queste settimane a un
cambiamento generale dei canali e delle
rotte commerciali tra le due isole,
privilegiando quindi quelle che passano
direttamente dall’Unione Europea e in
parte dall’Irlanda. E questo è solo
l’inizio. Infatti molte misure
definitive sono attualmente sospese per
poter concedere una transizione più
smussata ai nordirlandesi, ma che si
tradurrà in una crisi di proporzioni
bibliche per l’economia dell’Ulster da
qui a pochi mesi quando tutte le nuove
norme entreranno in vigore.
E inoltre, come se al danno si volesse
aggiungere la beffa, il risultato finale
è proprio quello auspicato dai
nazionalisti irlandesi e tanto temuto
dagli unionisti, ovvero con la
depauperazione dell’economia
nordirlandese alla lunga si rischia di
avvicinare Belfast a Dublino e al tempo
stesso di allontanarla da Londra.
Johnson quindi avrebbe ottenuto,
involontariamente, ciò che tanto aveva
cercato di evitare con mesi e mesi di
estenuanti trattative con la Commissione
Europea. Non è un segreto infatti che i
colloqui si sono protratti a lungo per
trovare una quadra sul mantenimento
della pace tra le due Irlande e al tempo
stesso impedire alla Gran Bretagna di
accedere al mercato europeo, con tutti i
benefici che esso comporta, attraverso
il confine irlandese. È interessante
osservare come al referendum per la
Brexit la popolazione dell’Irlanda del
Nord abbia votato in larga parte in
favore alla permanenza nell’Unione.
Forse perché si sapeva con largo
anticipo a cosa sarebbero andati
incontro in caso di vittoria del “Leave”
e lo si è cercato di evitare con tutte
le forze.
Se da un lato gli unionisti affermano
che non rientreranno negli accordi di
pace fin quando Londra non tutelerà i
diritti commerciali con l’Irlanda del
Nord, dall’altro lato i nazionalisti si
sono svegliati con rinnovata forza
all’indomani della Brexit. Oltre al
successo nelle ultime elezioni del
partito cattolico Sinn Fein, molti
movimenti indipendentisti, più o meno
estremi, hanno ripreso vigore,
soprattutto all’indomani del progressivo
isolamento dell’Ulster. Vi è inoltre la
consapevolezza che, secondo gli accordi
di pace del Venerdì Santo, nel caso in
cui si raggiunga una maggioranza
cattolica in Irlanda del Nord, la qual
cosa si verificherà verosimilmente entro
15 anni a questa parte, Belfast e tutto
l’Ulster avranno diritto a un referendum
consultivo inerente all’indipendenza da
Londra e all’unione formale con Dublino.
Visti i recenti avvenimenti, forse
questa eventualità, che nel 1998
sembrava solo una possibilità lontana e
remota, potrebbe diventare un fatto
concreto.
Oltre ai malumori interni, Londra deve
affrontare anche le pressioni non
indifferenti che provengono da
Bruxelles. Infatti inizialmente si sono
avute solamente accuse da parte della
Commissione di violazione degli accordi
internazionali a seguito dell’intenzione
di Londra di agire unilateralmente per
dare tempo alle aziende nordirlandesi
per adattarsi ai cambiamenti commerciali
in atto.
Inizialmente era stato scelto un periodo
di pochi mesi per permettere questo
adattamento, tuttavia poi il governo
Johnson ha deciso di estendere questo
periodo fino a ottobre 2021. A seguito
di questa decisione l’Unione Europea ha
avviato una vera e propria procedura
legale nei confronti del Regno Unito per
aver violato gli accordi comuni sulla
questione irlandese. Nonostante questa
sia la prima contesa tra le due parti
inerente alla Brexit, di sicuro non sarà
l’ultima.
In conclusione, la Brexit sta già
portando alla luce le prime difficoltà
di quella che è stata sempre una
questione estremamente delicata nonché
uno dei conflitti che ha insanguinato
maggiormente il Vecchio Continente dalla
fine della Secondo Guerra Mondiale in
poi. Gli attuali provvedimenti e le
conseguenti reazioni da parte della
popolazione irlandese devono essere
presi come un avvertimento sia da parte
di Gran Bretagna sia dall’Europa,
entrambe parti con grandi interessi
affinché la pace perduri tra le due
Irlande.
Qualora una situazione tanto delicata
venisse ignorata o trascurata
ulteriormente, il rischio di avere una
ripresa della stagione delle ostilità
sarebbe drammaticamente concreta. Allo
stato attuale nessuna delle parti
contraenti l’accordo sulla Brexit sembra
voler revisionare il trattato e forse
solo un forte scossone proveniente dalle
terre d’Irlanda potrebbe rendere
necessaria una simile decisione.
Una considerazione finale la merita in
particolare il premier inglese Boris
Johnson, il quale è passato dal
“lasciamo l’Europa per rimanere uniti”
al cercare di trovare un cavillo
giuridico per allungare una transizione
commerciale necessaria a tenere insieme
l’unione politica della Gran Bretagna. È
il caso di dire che forse Johnson
qualche anno fa la Brexit non se la
immaginava propriamente così. |