N. 93 - Settembre 2015
(CXXIV)
Iraqi Freedom
Come l’America perse se stessa
di Giovanni De Notaris
“Ladies and gentlemen, we got him!” esordì un radioso Paul Bremer nella conferenza stampa del 13 dicembre 2003, ma in realtà aveva ben poco di cui essere felice. In quello stesso mese gli attacchi terroristici in Iraq erano giunti alla quota allarmante di 800 al mese. La strategia americana non aveva fino a allora sortito alcun effetto positivo.
Ma
di
chi
stava
parlando
Bremer?
E
come
mai
gli
Stati
Uniti
erano
di
nuovo
presenti
sul
territorio
iracheno
dopo
averlo
lasciato
al
termine
della
guerra
del
Golfo
del
1991?
Nella
primavera
del
1991
infatti,
dopo
che
l’esercito
iracheno
era
stato
cacciato
dal
Kuwait,
alcuni
sia
all’interno
che
all’esterno
dell’amministrazione
di
George
Bush
senior
lo
invitarono
a
inviare
in
Iraq
i
soldati
americani
per
destituire
Saddam
Hussein
e
istituire
a
Baghdad
un
regime
democratico.
Immaginavano
che
la
trasformazione
democratica
dell’Iraq
avrebbe
innescato
in
tutto
il
Medio
Oriente
una
spirale
democratica.
Ma
Bush
rifiutò
dicendo
che
la
missione
comprendeva
la
sola
liberazione
del
Kuwait
ed
era
conclusa.
Nessuno
credeva
però
che
dopo
quella
sconfitta
bruciante
Saddam
riuscisse
a
mantenere
il
potere.
Come
conseguenza
per
il
ritiro
delle
truppe
fu
approvata
la
risoluzione
dell’ONU
687
che
imponeva
all’Iraq
di
distruggere
le
armi
di
distruzione
di
massa
e i
missili
con
un
raggio
d’azione
di
più
di
90
miglia.
La
risoluzione
inoltre
vietava
al
paese
di
possedere
armi
biologiche,
chimiche
o
nucleari
e di
produrle.
Inoltre
fu
richiesto
un
monitoraggio
da
parte
dell’ONU.
Con
il
tempo
però,
l’ONU
si
rese
conto
che
Saddam
non
rispettava
gli
accordi
e
così
impose
delle
sanzioni.
Per
undici
anni
gli
Stati
Uniti
furono
quindi
coinvolti
in
una
guerra
mai
dichiarata
per
tenere
a
bada
Saddam.
Gli
aerei
da
guerra
americani
pattugliavano
le
due
no
fly
zone
dell’Iraq,
dove
non
poteva
transitare
alcun
veicolo
iracheno.
Nel
2001
però
le
atrocità
di
Saddam
e
dei
suoi
figli
contro
gli
iracheni
riaccesero
il
dibattito
politico
in
America
perché
i
sostenitori
dei
diritti
civili
si
erano
mobilitati.
Cosicché
dopo
l’11
settembre,
e
dopo
la
campagna
di
Afghanistan,
l’amministrazione
di
George
W.
Bush
decise
di
occuparsi
dell’Iraq.
Nonostante
non
fossero
emerse
prove
che
Saddam
fosse
coinvolto
negli
attentati
di
New
York,
su
richiesta
del
presidente
il
Pentagono
cominciò
a
predisporre
i
piani
necessari
per
un
invasione
del
paese.
L’idea
di
creare
la
democrazia
in
Iraq
e
poi
da
lì
in
tutto
il
Medio
Oriente
catturò
il
pensiero
del
presidente.
Il
suo
vice
Dick
Cheney
si
mostrò
il
più
deciso
sostenitore
della
guerra,
sostenendo
che
Saddam
possedeva
armi
di
distruzione
di
massa
e
che
si
stava
preparando
a
utilizzarle
contro
gli
americani.
Cheney
sosteneva
inoltre
che
era
necessaria
un’azione
unilaterale
degli
Stati
Uniti
senza
l’avallo
dell’ONU
e
Donald
Rumsfeld,
il
segretario
alla
Difesa,
riteneva
che
grazie
all’uso
di
nuove
tecnologie
sarebbero
bastate
non
più
di
150.000
unità.
Si
riteneva
inoltre
di
poter
istituire
un
governo
democratico
guidato
da
Ahmed
Chalabi
un
esule
leader
del
Congresso
Nazionale
Iracheno.
Dall‘Iraq
poi
gli
Stati
Uniti
avrebbero
potuto
controllare
meglio
le
minacce
provenienti
da
Iran
e
Siria.
Le
motivazioni
quindi,
come
si
può
notare,
non
erano
principalmente
legate
al
petrolio
ma,
almeno
per
una
parte
del
gabinetto
di
Bush
e
del
presidente
stesso,
a un
onesto
timore
che
Saddam
avesse
davvero
armi
di
distruzione
di
massa,
o
che
realmente
si
potesse
democratizzare
il
Medio
Oriente.
Nell’autunno
del
2002
George
Tenet,
il
direttore
della
CIA,
e
Bush
ebbero
una
conversazione
in
cui
il
presidente
disse
che
la
guerra
in
Iraq
era
necessaria
e
inevitabile
perché
con
il
passare
del
tempo
il
pericolo
rappresentato
da
Saddam
sarebbe
aumentato.
Tenet
disse
a
Bush
che
non
era
saggio
invadere
l’Iraq
e
che
il
post
guerra
non
sarebbe
stato
facile.
Il 5
agosto
2002
il
generale
Tommy
Franks
presentò
nella
“Situation
Room”
della
Casa
Bianca
un
piano
di
invasione
e di
ricerca
delle
armi
nucleari.
Durante
l’estate,
intanto,
anche
il
terrorista
afghano
affiliato
di
al
Qaeda
Abu
Musab
al-Zarqawi
cominciò
ad
operare
nel
nordest
dell’Iraq.
Il
12
settembre
del
2002
il
presidente
si
rivolse
all’Assemblea
Generale
dell’ONU
chiedendo
un
intervento
contro
l’Iraq
adducendo
come
motivazione
il
fatto
che
Saddam
avesse
armi
di
distruzione
di
massa
e
potesse
usarle
contro
gli
Stati
Uniti
e i
suoi
alleati.
Gli
Stati
Uniti
avrebbero
chiesto
all’ONU
la
ripresa
delle
ispezioni.
Poi
Bush
si
rivolse
al
Congresso
chiedendo
l’autorizzazione
a
invadere
l’Iraq
con
le
stesse
motivazioni
dell’ONU,
ritenendo
che
con
il
sostegno
del
Congresso
gli
Stati
Uniti
avrebbero
avuto
un
consenso
maggiore
anche
all’ONU.
Verso
la
fine
di
settembre
il
generale
James
Marks
fu
posto
a
capo
dell’intelligence
per
l’invasione
dell’Iraq.
Il 4
ottobre
riunì
in
una
sala
conferenze
al
Pentagono
una
decina
di
esperti
i
quali
disponevano
di
un
database
noto
come
“Weapons
of
Mass
Destruction
Master
Site
List”,
un
elenco
di
946
siti
indicati
da
fonti
di
intelligence
come
impianti
di
stoccaggio
o
produzione
di
materiali
chimici,
biologici
e
nucleari
in
Iraq.
Ma
il
generale
non
sembrò
convinto
delle
capacità
degli
esperti,
e i
siti
segnalati
non
erano
per
nulla
significativi,
oltre
al
fatto
che
le
immagini
satellitari
non
erano
aggiornate.
Ritenne
dunque
di
non
poter
essere
certo
della
presenza
effettiva
di
armi
in
quei
luoghi.
Nonostante
tutto
il
10 e
l’11
ottobre
il
Congresso
autorizzò
l’uso
della
forza.
Durante
l’autunno
migliaia
di
soldati
americani
furono
dislocati
nelle
vicinanze
dell’Iraq.
A
quel
punto
il
governo
iracheno
annunciò
che
gli
ispettori
dell’ONU
potevano
riprendere
le
loro
ispezioni.
Il 4
novembre
2002
Rob
Richer,
ex
direttore
della
base
CIA
di
Amman
in
Giordania,
assunse
il
ruolo
di
capo
delle
operazioni
della
CIA
nel
Vicino
Oriente
e
nell’Asia
del
sud,
comprendendo
così
tutto
il
Medio
Oriente.
Nel
giro
di
un
mese
il
suo
gruppo
di
specialisti,
l’”Iraq
Operations
Group”,
stava
trasferendo
di
nascosto
due
squadre
della
CIA
nel
nord
del
paese.
L’8
novembre
l’ONU
varò
la
risoluzione
1441
che
imponeva
all’Iraq,
entro
trenta
giorni,
di
dichiarare
se
aveva
o
meno
programmi
per
armi
di
distruzione
di
massa.
Dalla
fine
di
novembre
2002
l’avvocato
svedese
Hans
Blix,
a
capo
della
delegazione,
ritenne,
e
con
lui
l’Europa,
che
a
quel
punto
non
ci
sarebbe
stato
più
bisogno
dell’uso
della
forza.
Marks
però
aveva
rilevato
con
vedute
satellitari
che
quando
gli
ispettori
entravano
in
un
sito,
nello
stesso
momento
gli
iracheni
portavano
fuori
dal
retro
materiale
sospetto
sui
camion
fino
al
confine
siriano,
anche
se
non
vi
era
la
certezza
che
fossero
armi
di
distruzione
di
massa.
In
novembre
gli
Stati
Uniti
e la
Francia
prepararono
una
nuova
risoluzione
di
compromesso
che
imponeva
all’Iraq
di
consegnare
tutte
le
armi
di
distruzione
di
massa
in
suo
possesso
pur
non
comprendendo
l’uso
della
forza.
L’ONU
approvò.
Nel
mese
di
dicembre
lo
stanziamento
di
truppe
americane
nella
zona
continuava
però
ad
arricchirsi
di
nuove
unità.
Intanto
Blix
e
gli
ispettori
accusarono
Saddam
di
inadempienza
ma,
dopo
alcune
minacce
di
intervento
armato,
il
dittatore
divenne
più
cooperativo.
Blix
però
non
aveva
ancora
trovato
le
armi
e il
Pentagono
voleva
agire
prima
dell’inizio
della
primavera,
prima
che
le
alte
temperature
del
deserto
diventassero
un
problema.
Il
piano
d’attacco
era
già
pronto
col
nome
di
“Op
Plan
1003
V” e
comprendeva
anche
la
creazione
di
un
battaglione
per
trovare
le
armi
di
distruzione
di
massa
chiamato
“Sensitive
Site
Exploitation
Task
Force”;
composto
da
400
persone
era
capitanato
dal
colonnello
Richard
McPhee.
Intanto
poiché
l’Europa
continuava
a
opporsi
a
un’invasione,
il
primo
ministro
inglese
Tony
Blair
sollecitò
una
nuova
risoluzione
dell’ONU.
Così
il 5
febbraio
il
segretario
di
Stato
Colin
Powell
propose
la
seconda
risoluzione
presentando
al
Consiglio
le
prove
dell’esistenza
delle
armi,
riuscendo
a
convincere
alcuni
paesi,
ma
non
tutti
quelli
europei
oltre
alla
Cina
e
alla
Russia.
Bisognava
dare
agli
ispettori
più
tempo.
L’Amministrazione
Bush
insisteva
però
per
accelerare
senza
l’autorizzazione
dell’ONU.
Bush
era
ormai
riuscito
a
convincere
l’opinione
pubblica
americana
che
l’Iraq
fosse
coinvolto
negli
attentati
dell’11
settembre;
la
fortuna
sembrò
venirgli
incontro.
Il
27
gennaio
2003
infatti,
Blix
dichiarò
che
il
governo
iracheno
aveva
ripreso
a
fare
ostruzionismo,
e
così
il
24
febbraio
l’ONU
promulgò
una
seconda
risoluzione.
Il
19
marzo
2003
avendo
ricevuto
un
rapporto
dai
servizi
segreti
che
indicava
la
presenza
di
Saddam
nella
periferia
di
Baghdad,
a
Dora
Farm,
a
sudest
della
capitale
irachena,
sulle
rive
del
Tigri,
Bush
autorizzò
un
attacco
per
ucciderlo.
Fu
l’alba
dell’operazione
“Iraqi
Freedom.”
Due
bombardieri
F117
colpirono
il
bersaglio.
L’idea
era
quella
che
ucciso
il
dittatore
il
governo
si
sarebbe
arreso.
Ma
Saddam
non
era
lì.
La
notizia
era
falsa.
In
tutto
il
Medio
Oriente
gli
islamisti,
anche
quelli
ostili
ad
al
Qaeda
e a
Saddam,
invitarono
i
loro
seguaci
a
iniziare
una
Jihad
per
difendere
l’Iraq
dagli
Stati
Uniti.
Il
giorno
dopo
il
fallito
attacco
a
Dora
Farm
dal
Kuwait
penetrarono
in
Iraq
i
marines
diretti
a
Baghdad.
Nel
nord
dell’Iraq
intanto
il
campo
di
Zarqawi
veniva
distrutto.
In
sole
tre
settimane
le
forze
americane
erano
entrate
a
Baghdad.
Il
governo
iracheno
era
caduto
ma
ora
cominciava
il
caos
civile
e
istituzionale
a
cui
gli
americani
non
erano
preparati;
oltre
a
tutto
questo
non
vi
era
ancora
traccia
delle
armi
di
distruzione
di
massa.
Cosicché
il
battaglione
incaricato
di
trovare
le
armi
dovette
suddividersi:
cinque
squadre
con
le
forze
armate
dovevano
catalogare
e
gestire
in
tempi
brevi
qualunque
tipo
di
arma
di
distruzione,
mentre
altre
tre
squadre
avrebbero
ispezionato
sistematicamente
i
luoghi
presenti
nell’elenco.
Intanto
ospedali,
musei
e
edifici
pubblici
venivano
saccheggiati.
I
residenti
a
Baghdad
furono
privati
dei
beni
di
prima
necessità
e
pur
essendo
felici
di
esseri
liberi
da
Saddam
speravano
però
in
una
rapida
riorganizzazione
del
paese
da
parte
degli
Stati
Uniti.
Alla
guida
della
nuova
Amministrazione
civile
fu
posto
Jay
Garner
un
generale
in
congedo
che
nel
1991,
durante
la
prima
guerra
del
Golfo,
si
era
fatto
degli
amici
tra
i
curdi
iracheni.
Aveva
condotto
l’operazione
“Provide
Comfort”,
dopo
la
guerra
del
1991,
in
aiuto
di
migliaia
di
curdi
nell‘Iraq
del
nord.
La
situazione
era
difficile.
I
curdi
avevano
preso
il
controllo
del
nord
del
paese,
a
sud
il
potere
passò
nelle
mani
dei
leader
religiosi
sciiti,
a
Baghdad
e
nella
zona
centrale
dell’Iraq,
il
cosiddetto
“triangolo
sunnita”,
le
forze
ostili
agli
Stati
Unti
creavano
più
problemi.
Per
difendersi
dagli
attentatori
gli
americani
usavano
far
fuoco
uccidendo
e
ferendo
molti
civili
innocenti,
accrescendo
così
l’odio
della
popolazione
nei
loro
confronti.
A
quel
punto
l’Amministrazione
Bush,
che
sperava
in
una
rapida
vittoria,
comprese
che
sarebbero
dovuti
restare
lì a
lungo
e
avrebbero
dovuto
assumersi
la
responsabilità
della
ricostruzione
del
paese.
Il
21 e
22
febbraio
Garner
convocò
200
persone
alla
National
Defense
University
di
Fort
Macnair,
nella
zona
sudovest
di
Washington
per
una
riunione,
dove
elencò
una
serie
di
problemi:
le
forze
sul
campo
erano
inadeguate
per
garantire
la
sicurezza
nelle
strade
rischiando
il
caos
civile,
il
Congresso
non
si
era
preoccupato
di
che
futuro
garantire
all’Iraq,
e
poi
c’era
bisogno
anche
dell‘appoggio
di
un
governo
civile
per
mantenere
la
sicurezza.
Era
convinto
che
con
circa
260.000
soldati
americani
più
altri
300.000
iracheni
si
sarebbe
potuta
garantire
la
sicurezza
nel
paese.
Per
la
ricostruzione
sarebbero
serviti
circa
800.000.000
di
dollari,
Garner
ne
disponeva
di
appena
27.
Intanto
il
colonnello
McPhee
e la
sua
squadra
non
avevano
ancora
trovato
traccia
di
armi
di
distruzione
di
massa
mentre
il
generale
Franks
comunicava
che
avevano
distrutto
circa
il
90%
delle
forze
nemiche
e
che
non
c’era
traccia
di
crisi
umanitaria.
Garner
era
convinto
che
bisognasse
stipulare
dei
contratti
ai
civili
iracheni
per
farli
lavorare
alla
ricostruzione
del
paese,
ma
non
essendo
in
linea
con
le
idee
dell’Amministrazione
americana
fu
sostituito
da
Paul
L.
Bremer,
esperto
di
terrorismo
ed
ex
diplomatico.
Arrivò
a
Baghdad
il
12
maggio
2003
affermando
la
necessità
di
un
occupazione
prolungata
e di
almeno
500.000
unità
per
gestire
il
caos.
Provò
da
subito
a
rendere
più
libero
l’Iraq
creando
una
stampa
libera
e
anche
dei
mezzi
di
telecomunicazione.
Furono
forniti
dei
generatori
elettrici
per
tutti
gli
ospedali
di
Baghdad.
Il
19
maggio
emanò
poi
l’ordine
di
sciogliere
l’esercito
iracheno,
provocando
le
proteste
della
popolazione.
Garner
rimase
stupito
dal
fatto
che
Bremer
non
accettasse
il
suo
piano
di
usare
200.000
o
300.000
uomini
dell’esercito
iracheno
per
gestire
il
paese.
A
giugno
Moqtada
al-Sadr,
un
religioso
sciita,
organizzò
delle
milizie
contro
gli
americani.
I
due
leader
curdi
Massoud
Barzani
e
Jalal
Talabani
avevano
messo
da
parte
le
divergenze
per
creare
assieme
un
futuro
governo
per
l’Iraq.
Garner
però
si
allarmò
ritenendo
che
il
paese
a
maggioranza
sciita
non
avrebbe
ben
tollerato
una
maggioranza
curda.
Talabani
propose
allora
tre
nomi
per
il
futuro
governo:
Adnan
Pachachi,
ex
ministro
degli
esteri
prima
della
presa
del
potere
da
parte
di
Saddam,
Ayad
Allawi,
il
leader
sciita
di
una
gruppo
di
opposizione
all’ex
regime
chiamato
“Iraqi
National
Accord”
con
base
a
Londra,
e
infine
Ahmed
Chalabi.
Il
piano
studiato
prevedeva
una
lunga
occupazione
e
poi
il
passaggio
di
potere,
con
l’aiuto
dell’
ONU,
dagli
Stati
Uniti
agli
iracheni.
Bush
intanto
continuava
a
vedere
fosche
nubi
all’orizzonte
perché
le
armi
di
distruzione
di
massa
non
erano
ancora
state
trovate.
Si
diffuse
così
l’opinione
che
il
presidente
avesse
mentito
al
paese
e
che
in
realtà
le
armi
non
erano
mai
esistite.
In
luglio
anche
l’ayatollah
Ali
Sistani,
il
più
importante
religioso
sciita,
entrò
in
rotta
con
Bremer.
Verso
la
fine
del
mese
gli
americani
scoprirono
dove
erano
nascosti
i
figli
di
Saddam,
Uday
e
Qusay,
e li
uccisero
mostrandone
poi
i
corpi
in
TV.
Il
19
agosto
2003
fu
uno
dei
più
tragici
dall’inizio
dell’occupazione
con
l’attentato
alla
sede
dell’ONU
a
Baghdad
che
causò
la
morte
del
rappresentante
speciale
Sergio
Vieira
de
Mello,
oltre
a 22
morti
e
molti
feriti.
Cosicché
l’ONU
decise
di
abbandonare
l’Iraq
e di
ritornare
solo
quando
il
paese
fosse
stato
davvero
messo
in
sicurezza.
In
Iraq
era
il
caos
totale.
I
soldati
americani
ormai
uccidevano
senza
distinguere
tra
buoni
e
cattivi.
Solo
nelle
zone
del
nord
controllate
dai
curdi
c’era
più
tranquillità.
A
luglio
c’erano
stati
500
attacchi
contro
le
forze
della
coalizione,
con
un
incremento
nel
mese
seguente.
Nel
settembre
2003
Bremer
e il
Pentagono
annunciarono
che
entro
il
2005
si
sarebbe
formato
un
esercito
iracheno
di
circa
40.000
uomini
oltre
a
146.000
mila
poliziotti.
Ma
al
momento
quei
numeri
erano
solo
un’utopia.
Il 2
ottobre
2003
David
Kay,
il
nuovo
ispettore
capo
per
la
ricerca
delle
armi
di
distruzione
di
massa
riferì
al
Congresso
di
non
aver
trovato
niente.
Aveva
cominciato
in
Qatar
il
18
giugno
con
il
suo
gruppo
di
analisi
formato
da
circa
1.400
persone
tra
agenti
della
CIA,
esperti
di
armi
biologiche,
analisti
e
traduttori.
In
novembre
l’Amministrazione
Bush
promise
finalmente
di
restituire
la
sovranità
a un
governo
iracheno
e di
terminare
l’occupazione
il
30
giugno
del
2004
dopo
che
fosse
stata
creata
una
costituzione
e un
parlamento
con
un
primo
ministro.
Ma
l’insurrezione
proseguì.
Il 4
novembre
gli
americani
comunicarono
a
Sistani
che
si
sarebbe
stilata
una
costituzione
provvisoria
e
delle
elezioni.
Sistani
approvò.
Inaspettatamente
giunse
una
buona
notizia
quando
la
sera
del
13
dicembre
i
soldati
americani
trovarono
Saddam
nascosto
in
una
fossa
in
una
fattoria
vicino
alla
sua
citta
natale
Tikrit.
In
America
sembrò
che
l’incubo
fosse
finalmente
finito;
ma
gli
attacchi
contro
le
forze
della
coalizione
si
intensificarono.
Intanto
il
progetto
di
creare
un
governo
di
transizione
entro
il
30
giugno
sembrava
allontanarsi
sempre
di
più.
L’ayatollah
Sistani
chiese
che
la
futura
costituzione
fosse
redatta
da
iracheni
democraticamente
eletti
e
insistette
affinché
fosse
l’ONU
a
stabilire
la
data
per
le
elezioni.
Kofi
Annan,
segretario
generale
delle
Nazioni
Unite,
inviò
sul
posto
l’ex
ministro
degli
esteri
algerino
Lakhdar
Brahimi
come
suo
rappresentante.
Il
28
gennaio
Kay
si
dimise
dopo
aver
testimoniato
davanti
al
Congresso
dichiarando
l’assenza
di
armi
di
distruzione
di
massa,
e
spingendo
quindi
il
Congresso
stesso
a
avviare
un’inchiesta
in
quanto
era
ormai
diventato
palese
che
l’Amministrazione
Bush
aveva
mentito.
Il
22
giugno
circa
2.000
sciiti
protestarono
davanti
al
quartier
generale
di
Bremer
chiedendo
le
elezioni.
Nel
luglio
2003
Bremer
approvò
quindi
un
governo
ad
interim
che
doveva
eleggere
un
presidente.
La
presidenza
sarebbe
stata
attribuita
a
rotazione
a
nove
persone
ognuna
delle
quali
darebbe
rimasta
in
carica
un
mese.
Solo
nel
febbraio
del
2004
però
Brahimi
arrivò
in
Iraq
indicando
d’accordo
con
Sistani
e
con
gli
americani
la
data
delle
elezioni
per
la
fine
del
2004.
Bremer
acconsentì
che
l’80%
del
nuovo
esercito
fosse
formato
da
militari
del
vecchio
esercito.
C’era
poi
il
problema
della
costituzione
provvisoria
che
doveva
essere
pronta
per
il
28
febbraio,
ma
all’interno
del
Consiglio
governativo
i
curdi
non
volevano
trattare
con
Sistani.
Bremer
riuscì
allora
a
proporre
un
compromesso
in
cui
il
1°
marzo
sarebbe
stato
scritto
un
documento
in
cui
i
curdi
mantenevano
la
loro
autonomia,
l’Islam
sarebbe
stata
la
religione
ufficiale
di
stato,
con
garanzia
di
libertà
per
altre
religioni,
e la
legge
islamica
sarebbe
stata
una
delle
fonti
della
nuova
costituzione.
Non
sarebbero
state
approvate
norme
contrarie
alle
leggi
islamiche.
Tutto
sembrava
procedere
per
il
meglio.
Almeno
fino
al
31
marzo
2004,
quando
a
Fallujah
quattro
contractors
civili
della
Blackwater
addetti
alla
sicurezza
furono
uccisi.
I
marines
allora
attaccarono
Fallujah,
una
città
di
250.000
abitanti
sulla
rive
dell’Eufrate
a 80
chilometri
da
Baghdad.
La
città
era
ormai
diventata
l’epicentro
della
resistenza
sunnita.
Brahimi
però
ammonì
di
non
attaccare
altrimenti
avrebbe
ritirato
la
missione
ONU.
Bremer
era
d’accordo.
Bush
al
contrario
ordinò
l’attacco
provocando
la
morte
di
civili
innocenti
e la
dura
reazione
degli
abitanti
della
città
che
si
armarono
e
costrinsero
gli
americani
a
ritirarsi.
Intanto
l’Autorità
Provvisoria
aveva
deciso
di
arrestare,
nell’agosto
del
2004,
Sadr,
che
era
diventato
portavoce
degli
sciiti
nei
bassifondi
di
Baghdad
e
che
aveva
radunato
un
esercito.
L’esercito
di
Sadr
insorse
e
prese
il
controllo
della
citta
di
Najaf.
4.000
marines
e i
soldati
iracheni
circondarono
la
città.
La
rivolta
fu
domata
ma
Sadr
non
fu
catturato
perché
Sistani
lo
convinse
a
ritirarsi
nella
zona
nordovest
della
capitale.
In
tutto
l’Iraq
la
violenza
continuava
ad
aumentare
con
1.750
attacchi
al
mese.
A
questo
punto
Bush
decise
di
assegnare
un
ruolo
più
importante
all’ONU
assegnando
a
Brahimi,
e
non
a
Bremer,
il
compito
di
nominare
l’Assemblea
Provvisoria
che
il
10
giugno
sarebbe
succeduta
al
Consiglio
Governativo
Iracheno.
L’ONU
avrebbe
sovrainteso
alle
elezioni
previste
per
il
gennaio
2005
che
avrebbero
portato
alla
nascita
di
una
Assemblea
Nazionale
che
a
sua
volta
avrebbe
formato
un
governo
e la
costituzione
poi
sottoposta
a un
referendum
con
conseguenti
nuove
elezioni
per
il
vero
e
proprio
governo
ufficiale.
Ma
le
fosche
nubi
non
accennavano
a
diradarsi.
Prima
della
fine
del
mese
vennero
a
galla
le
atrocità
commesse
da
alcuni
marines
nel
carcere
di
Abu
Ghraib.
Il
28
aprile
la
CBS,
nel
programma
“60
Minutes
II”,
mandò
in
onda
le
immagini
raccapriccianti
delle
torture.
L’Amministrazione
Bush
tentò
di
correre
ai
ripari
ma
era
ormai
evidente
che
la
situazione
gli
era
sfuggita
di
mano
e la
violenza
continuava
a
crescere.
Ormai
noi
vi
era
più
una
strategia
utile
per
riprendere
il
controllo
politico
e
militare
del
paese.
L’ONU
propose
allora
una
nuova
risoluzione
e
Bush
dovette
garantire
agli
iracheni
la
piena
sovranità,
la
piena
gestione
del
gas
e
del
petrolio,
e la
possibilità
per
il
nuovo
governo
iracheno
di
disporre
la
decisione
di
quando
le
truppe
americane
avrebbero
dovuto
ritirarsi.
Il
Consiglio
governativo
scelse
Allawi
come
primo
ministro
ad
interim.
Il
28
giugno
Bremer
trasmise
il
potere
agli
iracheni
e
lasciò
il
paese.
Lo
stesso
giorno
arrivò
al
suo
posto
John
Negroponte,
anche
lui
un
ex
diplomatico,
che
stabilì
come
prima
cosa
da
fare
di
ristabilire
l’autorità
del
governo
iracheno.
Intanto
in
Iraq
era
cambiato
anche
il
comandante
generale
delle
forze
di
occupazione,
ora
era
George
Casey.
Negroponte
mise
a
disposizione
3.000.000.000
di
dollari
per
progetti
più
immediati
e
diede
a
Casey
2.000.000.000
per
la
sicurezza
e
200.000.000
per
assumere
gli
iracheni.
130.000
soldati
americani
e
20.000
contractors
rimasero
nel
paese.
Nel
giugno
del
2004
anche
Tenet
si
dimise.
Il
28
giugno
2004
l’occupazione
era
ufficialmente
terminata
e le
elezioni
del
30
gennaio
2005
sembrarono
la
fine
delle
violenze
ma
non
fu
così.
Gli
sciiti
e i
curdi
infatti
avevano
avuto
la
maggioranza
e
questo
provocò
una
reazione
dei
sunniti
più
radicali
con
nuovi
attentati.
Il
principale
candidato
alla
nomina
di
primo
ministro
dopo
le
elezioni
del
30
fu
Ibrahim
al-Jafari
uno
sciita
e
come
presidente
Talabani.
Casey
intanto
aveva
avuto
l’ordine
di
cercare
e
uccidere
Zarqawi.
Il
governo
iracheno
non
riusciva
infatti
a
garantire
la
governabilità
e si
temeva
inoltre
che
il
gruppo
terrorista
iraniano
Hezbollah
addestrasse
i
ribelli
iracheni.
A
ottobre
del
2005
gli
attentati
raggiunsero
quota
3.000.
Il
15
dicembre
furono
indette
le
nuove
elezioni
e
andarono
a
votare
circa
11.000.000
di
persone.
Il
20
aprile
il
nuovo
parlamento
iracheno
scelse
come
nuovo
primo
ministro Jawad
al-Maliki,
uno
sciita,
che
si
insediò
poi
il
20
maggio.
L’operazione
“Iraqi
Freedom”
si
concludeva,
ma
la
pace
e la
democrazia
non
erano
nemmeno
iniziate.
Da
quel
momento,
dopo
anni
di
distanza,
e
alla
luce
degli
ultimi
sanguinosi
eventi
accaduti
in
quella
zona,
si
può
dire
che
l’unico
risultato
certo
di
quella
sciagurata
invasione
è
stato
l’ISIS.