N. 68 - Agosto 2013
(XCIX)
quando in prima pagina c’era l’Iran
I cambiamenti in Iran del 1979 attraverso le prime pagine
dei giornali italiani
di Vincenzo Grienti
La
situazione
politica
e
sociale
che
sta
attraversando
l’Egitto
sottolinea
come
il
Medio
Oriente
da
sempre
è
stato
oggetto
di
interesse
della
grande
stampa
nazionale
e
internazionale.
Così
come
oggi
le
notizie
e
gli
sconvolgimenti
che
stanno
avvenendo
in
Egitto
hanno
non
poche
ricadute
nelle
relazioni
internazionali
e
diplomatiche,
allo
stesso
modo
nel
1979
l’Iran
si
trovò
al
centro
delle
cronache
estere
di
tutti
i
quotidiani.
Il
1979
sotto
il
profilo
giornalistico
rappresenta
un
periodo
effervescente
e
contradditorio
anche
nel
modo
di
scrivere
e di
fare
giornalismo.
Ai
quotidiani
nazionali
e
blasonati
come
il
Corriere
della
Sera
o
La
Stampa
si
affiancano
Paese
Sera
oppure
L’Ora
di
Palermo,
le
cui
redazioni
sono
state
una
vera
e
propria
fucina
per
tanti
cronisti
investigativi,
di
nera
e
giudiziaria.
A
questi
va
aggiunto
il
ruolo
di
alcuni
giornali
politici
come
Il
Manifesto,
Lotta
Continua
e
tanti
altri
senza
dimenticare
il
contributo
delle
testate
regionali
e
locali.
Il
1979
e i
così
detti
“anni
di
piombo”
non
furono
facili.
La
rilettura
della
cronaca
di
quel
periodo
permette
di
inquadrare
in
modo
oggettivo
i
fatti
di
quegli
anni
dando
il
giusto
peso
ai
commenti
e
una
corretta
e
oggettiva
visione
degli
accadimenti
nazionali
e
internazionali.
Tra
la
fine
degli
anni
Settanta
e
l’inizio
degli
anni
Ottanta
si
registrano
profondi
mutamenti
politici,
sociali
e
culturali
in
Italia
e
nel
mondo.
Fatti
e
notizie
che
la
Stampa
non
può
fare
a
meno
di
registrare.
La
situazione
internazionale
è
caratterizzata
da
profonda
incertezza
a
causa
del
processo
di
modernizzazione
a
livello
globale,
delle
ripercussioni
economiche
a
seguito
della
crisi
petrolifera,
dalla
divisione
del
mondo
tra
il
blocco
occidentale
rappresentato
dalla
Nato
contrapposto
a
quello
sovietico
del
Patto
di
Varsavia.
Gli
ultimi
365
giorni
degli
anni
Settanta
sono
lo
specchio
di
un’umanità
che,
dalla
società
civile
ai
rappresentanti
delle
istituzioni
e di
governo,
è
alla
ricerca
di
un
cambiamento.
Per
tale
ragione
il
1979
è un
anno
di
transizione,
ma
anche
di
svolta.
La
lettura
della
cronaca,
dei
commenti
e
degli
approfondimenti
pubblicati
sui
maggiori
quotidiani
italiani
mette
in
evidenza
come
il
1979
apre
un
nuovo
e
importante
capitolo
della
storia
delle
relazioni
internazionali
e
della
storia
politica
in
generale.
Il
7
gennaio,
in
Cambogia,
dopo
quattro
anni
di
dittatura
il
regime
dei
Khmer
Rossi
di
Pol
Pot
viene
deposto
da
truppe
regolari
vietnamite,
che
insediano
al
suo
posto
un
governo-fantoccio
filosovietico;
il
regime
di
Pol
Pot
in
meno
di
quattro
anni
ha
provocato
la
morte
di
quasi
due
milioni
di
persone,
circa
un
terzo
della
popolazione
cambogiana;
l’assetto
in
Medio
Oriente,
soprattutto
dopo
il
crollo
in
Iran
della
dinastia
dei
Pahlavi
e
l’annuncio
del
rientro
nell’ex
Persia
dell’ayatollah
Khomeini;
la
Cina
e
gli
Stati
Uniti
riallacciano
ufficialmente
le
relazioni
diplomatiche.
È il
punto
di
approdo
della
così
detta
"diplomazia
del
ping-pong"
avviata
nel
1971;
in
Afghanistan
viene
attuato
dai
russi
un
golpe
che
di
fatto
applica
la
così
detta
“Dottrina
Breznev”
che
si
rivelerà
fallimentare
tanto
da
far
definire
la
campagna
sovietica
in
Afghanistan
“il
Vietnam
dei
russi”;
la
Polonia,
sottomessa
al
regime
filo-comunista
sovietico,
troverà
la
via
dell’emancipazione
e
della
libertà
dopo
l’elezione
del
cardinale
polacco
Karol
Wojtyla,
salito
al
soglio
pontificio
il
16
ottobre
del
1978
con
il
nome
di
Giovanni
Paolo
II.
La
visita
del
Papa
nel
giugno
del
1979
inciderà
notevolmente
nella
cultura
polacca
sotto
il
profilo
sociale
e
politico
stimolando
le
radici
cristiane
della
Polonia
soggiogata
all’ateismo
di
Stato
sovietico.
I
fatti
di
Danzica
del
1980
e la
nascita
del
sindacato
autonomo
e
indipendente
Solidarnosc
sono
la
conseguenza
dei
così
detti
“nove
giorni”
di
visita
di
Karol
Wojtyla
nella
terra
natìa.
La
Gran
Bretagna,
guidata
dalla
lady
di
ferro
Margaret
Thatcher
rappresenterà
un
grande
alleato
degli
Usa,
soprattutto
a
seguito
dell’elezione
nel
1980
del
repubblicano
Ronald
Reagan,
nella
lotta
contro
il
comunismo
e la
dittatura
sovietica.
Non
pochi
storici
e
commentatori,
infatti,
indicano
il
1979
come
l’anno
d’inizio
dell’implosione
dell’Urss
e
del
progressivo
e
sistematico
sgretolamento
del
blocco
socialista
che
condurrà
alla
storica
caduta
del
muro
di
Berlino.
In
Italia
sono
gli
anni
del
terrorismo
e
delle
Brigate
Rosse.
Proprio
nel
’79
viene
ucciso
il
sindacalista
Guido
Rossa,
il
sostituto
procuratore
Emilio
Alessandrini,
ma
avvengono
anche
uccisioni
che
maturano
nel
sottobosco
spionistico-ricattatorio
della
capitale
come
nel
caso
del
giornalista
e
direttore
di
Op,
Mino
Pecorelli,
oppure
l’assassinio
a
Palermo
del
giudice
Cesare
Terranova.
Al
terrorismo,
alla
mafia
e
alla
criminalità
lo
Stato
tenterà
di
reagire
innanzitutto
sotto
il
profilo
istituzionale
e
poi
sensibilizzando
la
società
civile.
Non
a
caso
il
14
dicembre
del
1979
viene
varato
il
decreto
legge
antiterrorismo,
con
misure
straordinarie
quali
il
fermo
di
polizia
per
48
ore,
inasprimenti
di
pene
e
misure
di
clemenza
per
i
terroristi
pentiti.
I
titoli,
gli
articoli,
gli
editoriali,
gli
approfondimenti
dei
giornali
italiani
mettono
in
evidenza
come
le
tappe
percorse
a
livello
nazionale
e
internazionale
furono
fondamentali
e
decisive
a
tal
punto
da
definire
il
1979
come
un
giro
di
boa
nella
storia
politica
dell’Europa
e
del
mondo.
La
cronaca
estera
del
1979
è
concentrata
su
un
colpo
di
scena
a
livello
internazionale:
dopo
37
anni
di
regno
lo
Scià
di
Persia
abbandona
l’Iran.
è
una
breve
cerimonia
di
commiato
per
Reza
Pahlavi
e
Farah
Diba,
visibilmente
commossi,
quella
che
precede
la
loro
partenza
per
l’Egitto.
A
narrare
l’addio
del
monarca
e
della
sua
dinastia
al
potere
per
quasi
mezzo
secolo
di
storia,
un
maestro
del
giornalismo
italiano:
Igor
Man,
inviato
a
Teheran
per
il
quotidiano
La
Stampa
di
Torino,
che
in
apertura,
in
prima
pagina,
scrive:
“Lo
Scià
se
ne
va
lasciando
i
suoi
fidi
(e i
suoi
complici)
nel
marasma
più
totale.
Nei
suoi
trentasette
anni
di
regno
si è
avuto
un
morto
ogni
quarantotto
minuti.
4900
sono
i
giustiziati,
125mila
i
prigionieri
politici
e i
morti
assommano
365.995.
Se
ne
va
lasciando
dietro
una
scia
sanguinosa
e un
castello
di
sogni
infranti
che
si
compendiano
in
queste
date.
1963:
varo
della
“rivoluzione
bianca”;
1973:
lancio
dei
piani
per
una
industrializzazione
accelerata
che
deve
trasformare
l’Iran
in
una
potenza
mondiale;
1977:
la
produzione
cade,
l’inflazione
divora
stipendi
e
salari,
aumenta
la
disoccupazione
e
comincia
a
serpeggiare
la
rivolta
che
scoppia
nell’estate
del
1978
(I.
Man,
L’addio
dello
Scià
all’Iran.
La
folla
esulta
nelle
strade,
La
Stampa,
p.1
del
17
gennaio
1979).
Una
notizia
che
sottolineava
i
momenti
convulsi
e
confusi
in
cui
era
piombato
l’Iran
in
corsa
verso
un
giorno
che
avrebbe
definitivamente
segnato
la
storia
dell’ex
Persia:
l’11
febbraio
1979.
Alle
11
del
mattino
la
resa
della
Guardia
imperiale
dello
Scià
e
l’apertura
delle
porte
del
palazzo
di
Niavaran,
simbolo
di
un
potere
millenario.
I
guerriglieri
islamici
non
trovano
alcuna
resistenza
da
parte
del
vecchio
regime.
Si
insedia
il
primo
ministro
del
governo
provvisorio
Mehdi
Bazargan,
subito
riconosciuto
dall’Unione
Sovietica.
Quanto
agli
Stati
Uniti,
il
presidente
Jimmy
Carter,
dichiara
di
essere
pronto
a
stabilire
momenti
di
dialogo
e di
collaborazione
con
il
nuovo
governo
di
Teheran.
In
realtà
c’è
preoccupazione.
Dalle
rovine
dell’impero
di
Reza
Pahlavi
c’è
la
«Paura
di
una
“Guerra
santa”
del
petrolio»
come
titola
il
Corriere
della
Sera
del
13
febbraio
1979.
In
un
corsivo
pubblicato
al
centro
della
prima
pagina
Michel
Foucalt
riflette
e
scrive:
«11
febbraio
1979:
rivoluzione
in
Iran.
Questa
frase
ho
l’impressione
di
leggerla
nei
giornali
di
domani
e
nei
futuri
libri
di
storia.
è
vero
che
in
questa
serie
di
strani
avvenimenti
che
hanno
caratterizzato
gli
ultimi
dodici
mesi
della
vita
politica
iraniana
una
figura
nota,
infine,
appare.
Ma
questa
lunga
successione
di
feste
e di
lutti,
questi
milioni
di
uomini
nelle
strade
a
invocare
Allah,
i
mollahs
nei
cimiteri
che
gridano
la
rivolta
e la
preghiera,
questi
sermoni
distribuiti
in
minicassetta,
e il
vecchio
che
ogni
giorno
attraversava
la
strada
in
una
cittadina
della
periferia
di
Parigi
per
inginocchiarsi
in
direzione
della
Mecca:
tutto
questo
ci
era
difficile
chiamarlo
«rivoluzione».
Oggi
ci
sentiamo
in
un
mondo
più
familiare:
ci
sono
state
delle
barricate;
delle
riserve
di
armi
saccheggiate;
e un
consiglio
riunito
in
fretta
ha
lasciato
ai
ministri
solo
il
tempo
di
dare
le
dimissioni
prima
che
le
pietre
spaccassero
i
vetri
e
che
le
porte
cadessero
sotto
la
spinta
della
folla.
La
storia
ha
posto
in
fondo
alla
pagina
il
sigillo
rosso
che
autentica
la
rivoluzione.
La
religione
ha
svolto
il
suo
ruolo
di
sollevare
il
sipario;
i
mollahs
ora
si
disperderanno
in
un
grande
volo
di
abiti
neri
e
bianchi.
La
scena
cambia.
L’atto
principale
sta
per
cominciare:
quello
della
lotta
di
classe,
delle
avanguardie
armate
del
partito
che
organizza
le
masse
popolari,
eccetera».
Da
New
York,
Ugo
Stille,
riporta
le
dichiarazioni
del
presidente
Usa
in
un
articolo
dal
titolo
Carter:
apriamo
subito
il
dialogo
con
i
vincitori,
(Corriere
della
Sera,
p.1,
13
febbraio
1979).
Stille
scrive:
«Come
in
passato
il
nostro
obiettivo
è un
Iran
stabile
e
indipendente
che
mantenga
buoni
rapporti
con
gli
Stati
Uniti.
Noi
speriamo
che
i
contrasti
che
hanno
diviso
il
popolo
iraniano
per
tanti
mesi
possano
adesso
venire
chiusi».
Un
auspicio
quello
del
presidente
Usa
che
non
inciderà
più
di
tanto
sulla
politica
internazionale
né
tantomeno
sull’economia
mondiale.
I
prezzi
del
greggio,
anche
in
Italia,
registrano
un
incremento
e la
notizia
come
di
consueto
viene
data
da
tutte
le
pagine
economiche
dei
quotidiani
italiani,
sia
nazionali
che
locali.
«Carter,
Begin
e
Sadat
firmano
domani
una
pace
molto
fragile»
titola
il
quotidiano
romano
La
Repubblica
del
26
marzo
in
riferimento
all’imminente
cerimonia
della
firma
del
trattato
di
pace
fra
Egitto
e
Israele
sotto
il
porticato
della
Casa
Bianca.
Una
notizia
che
fa
ben
sperare
per
la
pace
in
Medio
Oriente
dopo
i
venti
di
guerra
che
però
non
resterà
decisiva.