[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

184 / APRILE 2023 (CCXV)


contemporanea

UN ESPERIMENTO COLONIALE E POST-COLONIALE
GLI INVESTIMENTI ITALIANI IN SOMALIA

di Lorenzo Capelli

 

Pur essendo una “ritardataria” tra le potenze coloniali del XIX secolo e concentrando principalmente la propria attenzione sulle ultime terre disponibili dopo la cosiddetta “Corsa all’Africa”, l’Italia era comunque conosciuta in tutto il mondo come una neo-nata nazione forgiata dai suoi instancabili lavoratori. È interessante notare come si dicesse che già nel periodo precoloniale, tra il 1830 e il 1885 dunque, circolasse un detto abbastanza comune tra le regioni della penisola somala, che recitava così: “se incontri un europeo che lavora con le proprie mani puoi essere sicuro che egli è un italiano”.

 

Gli interessi italiani sulla penisola somala, nell’area del Corno d’Africa, iniziarono nel 1889 con l’istituzione del “Protettorato italiano sui sultanati di Obbia e Migiurtina”, nel sud della Somalia. La sfera di influenza del Protettorato fu estesa, negli anni successivi, ai porti e alle coste settentrionali della penisola. Nel 1908, poi, questo territorio fu ufficialmente proclamato colonia dal Parlamento italiano, sotto il nome di “Somalia italiana”.

 

Istituire nuovi possedimenti d’oltremare non è mai stato un compito facile per una potenza coloniale, ma per l’Italia era ancora più cruciale, dato che l’azione colonizzatrice nazionale doveva iniziare il prima possibile. Tale fretta era infatti dovuta alla preoccupazione, comune a tutte le principali potenze coloniali, di evitare di acquisire solo “inutili scatoloni di sabbia”. L’Italia divenne inizialmente famosa tra gli altri imperi coloniali, tuttavia, per aver collezionato fallimenti nella propria espansione estera: la mancata gestione degli apparati coloniali italiani era, difatti, chiaramente visibile.

 

Alla luce di tale affermazione è facile notare come gli sviluppi economici e agricoli della Somalia italiana seguirono percorsi similmente squilibrati nel periodo coloniale e nella prima fase di decolonizzazione.

 

L’economia e gli investimenti economici nella Somalia italiana

dal 1893 al 1941

 

Nessuna moneta regolamentata ufficiale circolò nella Somalia italiana fino al 1925, permettendo così a valute più antiche, come il tallero austriaco di Maria Teresa, o a altre monete influenti, come la rupia indiana, di diffondersi indisturbate nella regione. Questa iniziale mancanza di valuta italiana nella colonia non aiutò di certo a riscuotere sufficienti investimenti di capitale diretti dalla madrepatria alla regione somala, e fu allora per tale ragione che la società commerciale di Vincenzo Filonardi si cimentò, nel 1893, in un primo tentativo di introdurre una moneta italiana semi-legalizzata.

 

In questo modo la cosiddetta “rupia promissoria” fu emessa per la prima volta per la circolazione comune, anche se le vere intenzioni di Filonardi erano quelle di promuovere la sua società come il solo intermediario commerciale con le istituzioni native, ritenute economicamente retrograde dai commercianti bianchi italiani.

 

Nei primi anni ‘20 la rupia promissoria fu poi unificata con i “buoni di cassa” emessi dalla Banca d’Italia nella sua filiale di Mogadiscio. Cinque anni dopo, il 18 giugno 1925, il Parlamento italiano approvò il decreto n. 1143, che autorizzava definitivamente l’introduzione della lira italiana nella colonia, dove la valuta sarebbe stata conosciuta sotto il nome di “lira somala”, venendo dunque destinata a sostituire la precedente moneta dell’era del Protettorato. I colonizzatori e gli imprenditori italiani, giunti alla ricerca di opportunità economiche redditizie e a basso prezzo nella colonia, temevano originariamente che i lavoratori nativi non avrebbero accettato questo nuovo tipo di rupia in contanti, ma ciò non si verificò, grazie alla simultanea istituzione di comuni attività commerciali che vendevano beni attraverso la nuova moneta di cassa fin dall’inizio della sua circolazione.

 

Anche se il tasso di cambio tra la lira italiana e quella somala fu pareggiato per volontà del Parlamento, questa decisione politica causò notevoli tensioni economiche a partire dal 1927, a causa della cosiddetta “battaglia per la lira” fascista. Proposta da Benito Mussolini per raggiungere l’utopica (rivalutazione della lira a) “Quota 90”, questa campagna economica ebbe esiti ambigui, sia per la madrepatria che per la colonia, portando infatti, da una parte, alla riduzione degli investimenti nella regione e, dall’altra, all’abbassamento dei salari retribuiti dalle aziende di beni di largo consumo.

 

Tutto ciò inflisse temporaneamente un colpo letale al cuore agricolo del Somalia italiana, dove le industrie pesanti, privilegiate da tale politica economica, erano quasi totalmente assenti in quel periodo. Nonostante questa spiacevole situazione per la regione somala, sia a livello economico che sociale, il tasso di cambio tra le rupie promissorie ancora in circolazione e la lira somala si scostò difficilmente da quel originale accordo di 8 a 1.

 

Dopo una fase di quasi stagnazione economica coloniale, nella metà degli anni ‘30, la nuova campagna militare in Etiopia (1935-36) sembrò tuttavia portare un debole vento di cambiamento: con la creazione dell’Impero Italiano nel Corno d’Africa e l’istituzione dell’Africa Orientale Italiana (A.O.I.), che unificava sotto un’unica bandiera le colonie di Eritrea, Etiopia e Somalia, il governo italiano iniziò infatti a emettere la “lira dell’Africa Orientale Italiana” nel 1938. È giusto sottolineare, tuttavia, che questi nuovi certificati di cassa emessi a uso esclusivo nella colonia, sebbene fossero quasi totalmente simili alla lira della madrepatria, ebbero un risultato molto insoddisfacente; il solo esito rilevante, infatti, fu che questa moneta contribuì a finanziare e mantenere gli stipendi della nuova “Regia Agenzia Monopolio Banane” (R.A.M.B.), la quale verrà nuovamente trattata a seguire.

 

Alla fine, dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia contro la Gran Bretagna e la Francia nel 1940, la Somalia italiana, economicamente e tecnologicamente svantaggiata sotto ogni punto di vista, fu presto conquistata, insieme ai restanti territori dell’A.O.I, dalle truppe britanniche nel 1941.

 

In seguito alla temporanea istituzione della “British Military Administration” (BMA), la lira italiana dell’Africa orientale fu rapidamente sostituita con gli “scellini dell’Africa orientale britannica”. Ciononostante, questo cambio di valuta non causò molti problemi economici per le entità coloniali di per sé, ma portò a una notevole diminuzione degli investimenti del capitale nel settore agricolo della Somalia. Infatti, proprio tale mancanza di investimenti, sotto dell’occupazione britannica, venne percepita localmente come la causa del prolungato periodo di sottosviluppo.

 

L’agricoltura e gli investimenti agricoli nella Somalia italiana dal 1910 al 1941:

caso di studio sulla “bananicoltura”

 

Osservando le dinamiche agricole della Somalia durante l’era coloniale italiana è facile individuare uno sviluppo tardivo e monopolistico delle risorse agricole locali. Il mercato coloniale della Somalia, infatti, potrebbe essere giustamente definito “monopolistico” in vista del fatto che la cosiddetta “bananicoltura”, cioè lo sviluppo estensivo e intensivo delle piantagioni di banane, rappresentava la vera risorsa redditizia della regione.

 

In seguito alla “ufficializzazione coloniale” del 1908, i primi studi ed esperimenti sui potenziali benefici della bananicoltura per la popolazione locale e per le vendite sul mercato furono eseguiti tra il 1910 e il 1918 dal Dr. Romolo Onor, capo del servizio agricolo somalo. È bene osservare, tuttavia, che questi primi tentativi scientifici non furono mai standardizzati e vennero intrapresi in strutture tutt’altro che ideali, considerando soprattutto che la prima “colonia agricola” funzionante, la quale assunse simultaneamente i connotati sia di piantagione che di struttura per la ricerca agricola, fu istituita solo nel 1920 all’interno dei confini della Somalia italiana.

 

Questo ritardo tra le sperimentazioni iniziali e la creazione di una vera e propria installazione dimostra la lentezza intrinseca che caratterizzava i progetti dello sviluppo coloniale italiano. Inoltre, lo scoppio della Prima Guerra Mondiale interruppe bruscamente, seppur solo temporaneamente, ogni possibile investimento nella colonia, rallentando ulteriormente ogni sforzo di sviluppo.

 

A ogni modo, la situazione iniziò a cambiare, nell’inverno 1918-19, grazie al nobile italiano Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, duca degli Abruzzi. Desideroso di iniziare a investire nella regione, il duca prese parte a due spedizioni agricolo-esplorative nelle fertili valli del Somalia centro-meridionale, essendo fermamente convinto che: «È […] giunto il momento di svolgere tutto un programma di miglioramento nella Colonia, per raggiungere il duplice intento di assicurare maggior benessere agli indigeni e di rendere questa Colonia fonte di ricchezza (sempre in limitate proporzioni) per la Madre Patria [...]».

 

Queste ispezioni in loco giovarono notevolmente sia al duca che alla sua squadra tecno-agricola, i quali riscontrarono una buona fertilità del suolo nella regione. In questo modo venne allora costituita a Milano, nell’arco di due anni (1920-1921), la “Società Agricola Italo-Somala” (S.A.I.S.), con un capitale iniziale di 24 milioni di lire, che garantì così un rinnovato flusso di risorse finanziarie e investimenti agricoli nella Somalia italiana. Nel frattempo veniva inoltre inaugurata, attraverso la collaborazione tra i tecnici idro-agricoli italiani e i braccianti autoctoni, la colonia agricola “Villaggio Duca degli Abruzzi”, posta sulla riva sinistra del fiume Uebi Scebeli, nella zona del Giohar.

 

Grazie alla rinnovata sperimentazione agricola, alla creazione di un impianto per la coltivazione generosamente finanziato, all’istituzione dell’impresa agraria S.A.I.S. e all’inaugurazione del “Centro Sperimentale Agrario” di Genale, una città sul basso Uebi Scebeli, gli esperimenti sulla bananicoltura iniziarono a fiorire. Lo sviluppo e la lavorazione di queste piantagioni intensive, reso possibile grazie alla costruzione di diverse dighe lungo il corso del fiume, si poneva come principale obiettivo la soddisfazione, in aggiunta al normale consumo locale, della crescente domanda estera per tali prodotti.

 

L’uso di moderni trattori agricoli venne adottato nelle piantagioni, seppur non in modo sistematico, poiché i vecchi metodi di raccolta a mano utilizzati dai lavoratori nativi erano ancora preferiti da questi, sebbene il loro carico di lavoro sotto le condizioni metereologiche più avverse fosse molto pesante e lo sfruttamento della mano d’opera a basso costo fosse all’ordine del giorno. A ogni modo, come osservato in precedenza, la produzione e il commercio delle banane somale attraversarono una fase di instabilità economica sotto l’era fascista.

 

Alcune “stabili” esportazioni di caschi di banane dalla colonia alla madrepatria iniziarono nel 1927, ma le quantità in tonnellate erano ancora troppo basse e le navi mercantili private impiegate non erano sufficientemente attrezzate per trasportare questo particolare bene agricolo. Nonostante ciò, gli interessi italiani in questa nascente industria delle banane e i suoi visibili profitti spinsero il governo a introdurre un decreto in materia nel 1931. Questo editto legislativo imponeva le importazioni di banane dalla sola Somalia italiana, vietandone così l’acquisto attraverso qualsiasi altro concorrente straniero, e concedeva un noleggio a basso costo dei mezzi di trasporto adeguatamente attrezzati (le cosiddette “navi bananiere”, questa volta dotate di frigoriferi ben funzionanti).

 

Grazie a queste risoluzioni le esportazioni di banane dalla colonia somala decuplicarono in soli due anni, passando dalle 7.176 tonnellate del 1930 alle 56.483 tonnellate del 1932, e successivamente quasi triplicarono fino ad arrivare alle 185.459 tonnellate del 1936. In seguito un nuovo decreto su tale materia fu approvato dal governo italiano nel 1933: questi sanciva il divieto di esportazione di varietà di banane diverse da quella della “Giuba nana”, azzerando così le precedenti vendite sul mercato del tipo “zanzibariana”. La supremazia di questa nuova varietà fu ampiamente apprezzata e promossa per le “ottime caratteristiche dei frutti per la dolcezza, il profumo e dimensioni (che) conquistarono sia il mercato italiano che quello di alcuni paesi dell’Europa orientale”, come sottolineato da Remo Roncati nel suo articolo “Aspetti e Problemi della bananicoltura somala e del commercio bananiero”.

 

Prima degli anni ‘30 le rotte d’esportazione delle banane si trovavano nelle mani delle imprese indipendenti “Società Anonima Banane Africa Italiana” (S.A.B.A.I) e “Compagnia Italiana Frutti Esotici” (C.I.F.E.), in seguito, tuttavia, esentate da un consorzio agricolo locale della Somalia, che aveva deciso di assumersi sia il carico di lavoro della produzione che l’esportazione di questi frutti. Ciononostante, nuovi problemi cominciarono presto a germogliare: alcuni periodi di recessione economica; elevati costi di produzione, imballaggio, carico e trasporto via terra prima e via mare dopo; incapacità di competere con i principali concorrenti internazionali.

 

Quest’orlo di una crisi disastrosa per il mercato delle banane costrinse il governo fascista a interferire ancora una volta su tali questioni, portando alla creazione dell’impresa nazionale R.A.M.B., già menzionata. Tale agenzia venne istituita nel 1935 come garanzia di sicurezza sia per i produttori coloniali che per il mercato di consumo italiano. L’incarico della R.A.M.B, infatti, era quello, dichiarato pubblicamente nei documenti ufficiali dell’impresa, di occuparsi del “trasporto marittimo della frutta, del commercio della stessa, della lavorazione industriale, compresa quella dei sottoprodotti; inoltre stabiliva i prezzi di cessione delle banane ai concessionari di rivendita all’ingrosso e successivamente ai dettaglianti e da questi ai consumatori”. La flotta della R.A.M.B. poteva contare su diverse navi mercantili, alcuni cacciatorpediniere dotati di frigoriferi e persino quattro nuove e moderne “navi bananiere”.

 

Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale l’industria agricola delle banane italo-somale ebbe un crollo totale in termini di produzione, esportazione e sviluppo tecnologico. Le esportazioni da questa colonia crollarono completamente, essendo stata tagliata fuori sia dalle rotte commerciali del Canale di Suez che da quelle di Città del Capo durante il conflitto, e le guarnigioni italiane furono infine sopraffatte dalle truppe britanniche. Sotto la BMA le piantagioni di banane vennero per lo più abbandonate a sé stesse e la loro estensione in ettari divenne oltremodo improduttiva. La Somalia italiana fu così lasciata all’abbandono totale e quasi alla fame estrema, essendo le banane uno dei beni alimentari di consumo di base della colonia.

 

L’economia e gli investimenti economici nel caso unico

dell’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia (1950-60)

 

La cosiddetta “temporanea” instaurazione del BMA e l’imposizione formale dello scellino britannico dell’Africa orientale sul Somalia italiana durarono 8 anni alla fine. A ogni modo, passato questo arco di tempo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò, il 21 novembre 1949, la Risoluzione n. 289, istituendo di fatto la “Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia”, con un vademecum amministrativo fissato a 10 anni. L’unicità di questa risoluzione risiedeva in due questioni: 1) l’Italia non faceva ancora parte delle Nazioni Unite nel 1949 e 2) questo era l’unico caso di amministrazione fiduciaria assegnata a una potenza sconfitta durante la Seconda Guerra Mondiale.

 

La necessità di un nuovo sistema monetario, in seguito alla formale istituzione del mandato il 2 dicembre 1950, per questo paese, che si avviva a diventare una vera e propria “nazione”, divenne impellente. Conoscendo in anticipo questa situazione, il 18 aprile 1950 era già stata costituita a Roma la “Cassa per la Circolazione Monetaria della Somalia” (CCMS), con una capitalizzazione iniziale di 87,5 milioni di lire.

 

La responsabilità della CCMS era quella di garantire il conio e la circolazione dell’unica nuova valuta somala legale, il “somalo”, e allo stesso tempo si accingeva a intraprendere i primi passi del suo percorso comportamentale come autorità monetaria nazionale indipendente. I tassi di cambio durante i dieci anni di amministrazione, per poterne garantire così una certa rilevanza economica internazionale, furono fissati a 1 somalo per 1 scellino dell’Africa Orientale Britannica e a 1.143 somali per 100 lire italiane.

 

La CCMS dipendeva formalmente dalla sede centrale della Banca d’Italia per quanto riguarda le operazioni e le transazioni economiche quotidiane, legando in tal modo il valore d’acquisto del somalo a quello della lira italiana. Tuttavia, questa autorità monetaria somala poteva, allo stesso tempo, essere sostenuta da una scorta di valute estere miste, senza alcuna limitazione imposta dall’amministrazione economica italiana. Seppur fosse stata consentita tale libertà, un altro problema si stagliava all’orizzonte: il consiglio d’amministrazione della CCMS fu purtroppo composto solo da funzionari italiani durante i dieci anni dell’Amministrazione fiduciaria, danneggiando così in parte il futuro passaggio di questa organizzazione economica nella pienamente indipendente “Banca Nazionale Somala” (BNS).

 

Ciononostante, il ritorno dell’Italia e l’istituzione della CCMS aiutarono la Somalia, sotto alcuni punti di vista, a far risalire la propria economia e a risanare, attraverso investimenti nazionali, l’indecoroso stato di abbandono in cui verteva ormai da anni. In questo decennio di amministrazione fiduciaria “gorgoglianti torrenti” di somali ricominciarono così a scorrere come investimenti significativi, inviati anche da investitori privati e pubblici italiani, in una nazione sulla via dell’indipendenza.

 

L’agricoltura e gli investimenti agricoli nel caso unico dell’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia (1950-60): caso di studio sulla “bananicoltura”

 

Le condizioni in cui venne abbandonata l’agricoltura somala dopo l’occupazione della Seconda Guerra Mondiale erano estremamente povere: le piantagioni di banane soffrirono infatti una profonda mancanza di manutenzione e le esportazioni all’estero erano state bloccate sin dal 1943. L’istituzione dell’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia nel 1950 ripristinò la fiducia nell’industria agricola locale e in quelle imprese private italiane ancora in piedi nell’ex-colonia. I nuovi investimenti di capitale dall’Italia assunsero allora il ruolo di una temporanea “ancora di salvezza” per il settore agricolo somalo, purtroppo ancora principalmente focalizzato sulla sola bananicoltura.

 

Nel 1949 la “Azienda Monopolio Banane” (A.M.B.), conosciuta fino al 1946 come R.A.M.B., tornò nel commercio e nel settore delle spedizioni, questa volta, però, sotto le dirette dipendenze del Ministero delle Finanze italiano. L’estensione delle piantagioni di banane venne riportata, durante i dieci anni dell’Amministrazione fiduciaria, al suo antico splendore, passando dalle 2.800 del 1950 alle 7.992 del 1960. Come conseguenza diretta anche le esportazioni decuplicarono nello stesso periodo, passando dalle 75.000 tonnellate del 1949 alle 769.537 tonnellate del 1960.

 

Al fine di promuovere nuovamente la produzione agricola, alcune migliaia di tecnici idro-agricoli vennero inviati dal governo italiano in Somalia, con il compito ultimo di ristrutturare le vecchie aziende agricole, introdurre nuove tecniche agricole e insegnare alla popolazione somala come continuare questi lavori dopo la partenza definitiva degli stessi tecnici italiani nei primi anni ‘60. Inoltre, gli investimenti privati italiani sulla sola bananicoltura intensiva ammontarono, tra il 1950 e il 1959, a circa 56 milioni di somali, con un tasso di cambio fisso a 1 somalo per 87,50 lire italiane.

 

Non è difficile dedurre, attraverso un’attenta osservazione di tali investimenti, che le esportazioni di banane rappresentavano quasi la quota maggiore delle esportazioni totali provenienti dall’Amministrazione fiduciaria, passando infatti dal 26,9% del 1950 all’incredibile 73,1% del 1960.

 

Oltre alle innovazioni strutturali e al sovraccarico di investimenti nel settore agricolo nel periodo fiduciario, l’aspetto più interessante fu comunque l’introduzione di un’importante innovazione in termini di coltivazione delle banane. Nel 1958 il Governo italiano, congiuntamente a quello somalo, istituì infatti una “Missione Tecnico-Agricola per la Somalia”, al fine di studiare e raccogliere nuove varietà di banane adattabili alla coltivazione estensiva.

 

Tale risoluzione venne presa in considerazione dei diversi problemi riscontrati nella coltivazione della precedente “Giuba nana”, soprattutto in termini degli elevati costi di esportazione e delle tendenze alle deformità del prodotto finale. La varietà “Poyo”, già ampiamente coltivata in Guinea e Costa d’Avorio e più resistente al clima somalo, fu infine identificata come la migliore in termini di produzione, coltivazione e redditività delle esportazioni. Dal 1959 diverse industrie agricole nell’Amministrazione fiduciaria iniziarono allora a impiantare questo nuova varietà di banane nelle piantagioni e già nel 1960 furono inviati in Italia i primi carichi sperimentali.

 

Fu proprio grazie a quest’ultimo miglioramento che le banane somale tornarono ruggenti sul mercato agricolo globale, diventando anche una delle principali merci importate negli anni ‘70 nei paesi del Medio Oriente, brevemente in Francia e persino nella Germania dell’Est.

 

Considerazioni conclusive

 

Alla fine degli anni ‘90 il giornalista, storico e scrittore italiano Indro Montanelli affermò che “i dieci anni di Amministrazione fiduciaria italiana furono l’età d’oro della Somalia: la popolazione quasi raddoppiò, l’analfabetismo fu ridotto del 60%, la malnutrizione nelle aree rurali scomparve, l’economia salì allo stesso livello dei paesi africani più sviluppati e ci fu una completa integrazione in materia religiosa e socio-politica tra tutti gli abitanti della Somalia”.

 

È anche molto interessante, inoltre, vedere cosa accadde nel gennaio del 1948 quando la Commissione delle Nazioni Unite arrivò a Mogadiscio per verificare la fattibilità dell’istituzione di un territorio fiduciario sotto amministrazione italiana: in questa occasione i delegati dell’ONU furono letteralmente sopraffatti da gioiose folle di manifestanti somali che giovano del possibile ritorno temporaneo dell’Italia. Queste entusiastiche manifestazioni scioccarono sia i rappresentanti della BMA che gli indipendentisti della “Lega della Gioventù Somala”.

 

Purtroppo, questo shock degli indipendentisti venne presto a trasformarsi in un’indiscriminata violenza pubblica contro i residenti italiani in Somalia, senza alcun intervento repressivo da parte della polizia della BMA. Durante gli eventi del cosiddetto “massacro di Mogadiscio” furono uccisi 54 italiani, ma anche 14 somali morirono mentre cercavano di proteggere gli italiani. Lasciando da parte questo caso di violenza, è impossibile negare il temporaneo successo mostrato dall’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia in termini di sviluppo economico e agricolo per un’ex-colonia devastata dalla Seconda Guerra Mondiale.

 

Questa rinnovata cooperazione tra italiani e somali aveva infatti dimostrato l’efficacia dei trascorsi buoni rapporti e risultati, nonostante fosse tutto un piano a breve termine. Dal passato coloniale all’Amministrazione fiduciaria degli anni ‘60 il concetto di “sviluppo” si era spesso concretizzato nelle intenzioni dell’Italia verso questa terra africana e il legame tra l’agricoltura locale e il sistema statale era più evidente, ma il vero problema fu, a lungo andare, la cieca concentrazione monopolistica dello sviluppo agricolo ed economico sulla sola bananicoltura. L’individuazione di tale aspetto come un problema è ancora più vera se si considera che dalla fine degli anni ‘90, dal periodo quindi delle intermittenti guerre civili somale, quelle banane sono diventate un prodotto esclusivamente per il consumo locale.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Noah Naparst, Was the cassa per la circolazione monetaria della Somalia an orthodox currency board?, 2018

Umberto Triulzi, L’italia e l’economia somala dal 1950 ad oggi, in “Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente”, Marzo 1972.

Ariberto Forlani, Il cuore agricolo della Somalia, in “Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente”, Agosto 1950.

Remo Roncati, Aspetti e problemi della bananicoltura somala e del commercio bananiero, in “Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente”, Settembre 1974.

R.A.M.B., Un biennio di attività della R.A.M.B., Roma, 1937

Luigi Gasbarri, L’AFIS (Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia. 1950-1960): una pagina di storia italiana da ricordare, in “Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente”, Marzo 1986.

Luigi Gasbarri, Linee fondamentali di sviluppo economico nel settore agrario in Somalia, in “Rivista di agricoltura subtropicale e tropicale”, 1960.

Federico Senatore, Dovunque mi trovi, parte del mondo. Storia di Augusto, da Montecassino al Protettorato somalo con Vademecum della Somalia, 2016. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]