Pur essendo una “ritardataria” tra
le potenze coloniali del XIX secolo
e concentrando principalmente la
propria attenzione sulle ultime
terre disponibili dopo la cosiddetta
“Corsa all’Africa”, l’Italia era
comunque conosciuta in tutto il
mondo come una neo-nata nazione
forgiata dai suoi instancabili
lavoratori. È interessante notare
come si dicesse che già nel periodo
precoloniale, tra il 1830 e il 1885
dunque, circolasse un detto
abbastanza comune tra le regioni
della penisola somala, che recitava
così: “se incontri un europeo che
lavora con le proprie mani puoi
essere sicuro che egli è un
italiano”.
Gli interessi italiani sulla
penisola somala, nell’area del Corno
d’Africa, iniziarono nel 1889 con
l’istituzione del “Protettorato
italiano sui sultanati di Obbia e
Migiurtina”, nel sud della Somalia.
La sfera di influenza del
Protettorato fu estesa, negli anni
successivi, ai porti e alle coste
settentrionali della penisola. Nel
1908, poi, questo territorio fu
ufficialmente proclamato colonia dal
Parlamento italiano, sotto il nome
di “Somalia italiana”.
Istituire nuovi possedimenti
d’oltremare non è mai stato un
compito facile per una potenza
coloniale, ma per l’Italia era
ancora più cruciale, dato che
l’azione colonizzatrice nazionale
doveva iniziare il prima possibile.
Tale fretta era infatti dovuta alla
preoccupazione, comune a tutte le
principali potenze coloniali, di
evitare di acquisire solo “inutili
scatoloni di sabbia”. L’Italia
divenne inizialmente famosa tra gli
altri imperi coloniali, tuttavia,
per aver collezionato fallimenti
nella propria espansione estera: la
mancata gestione degli apparati
coloniali italiani era, difatti,
chiaramente visibile.
Alla luce di tale affermazione è
facile notare come gli sviluppi
economici e agricoli della Somalia
italiana seguirono percorsi
similmente squilibrati nel periodo
coloniale e nella prima fase di
decolonizzazione.
L’economia e gli investimenti
economici nella Somalia italiana
dal 1893 al 1941
Nessuna moneta regolamentata
ufficiale circolò nella Somalia
italiana fino al 1925, permettendo
così a valute più antiche, come il
tallero austriaco di Maria Teresa, o
a altre monete influenti, come la
rupia indiana, di diffondersi
indisturbate nella regione. Questa
iniziale mancanza di valuta italiana
nella colonia non aiutò di certo a
riscuotere sufficienti investimenti
di capitale diretti dalla
madrepatria alla regione somala, e
fu allora per tale ragione che la
società commerciale di Vincenzo
Filonardi si cimentò, nel 1893, in
un primo tentativo di introdurre una
moneta italiana semi-legalizzata.
In questo modo la cosiddetta “rupia
promissoria” fu emessa per la prima
volta per la circolazione comune,
anche se le vere intenzioni di
Filonardi erano quelle di promuovere
la sua società come il solo
intermediario commerciale con le
istituzioni native, ritenute
economicamente retrograde dai
commercianti bianchi italiani.
Nei primi anni ‘20 la rupia
promissoria fu poi unificata con i
“buoni di cassa” emessi dalla Banca
d’Italia nella sua filiale di
Mogadiscio. Cinque anni dopo, il 18
giugno 1925, il Parlamento italiano
approvò il decreto n. 1143, che
autorizzava definitivamente
l’introduzione della lira italiana
nella colonia, dove la valuta
sarebbe stata conosciuta sotto il
nome di “lira somala”, venendo
dunque destinata a sostituire la
precedente moneta dell’era del
Protettorato. I colonizzatori e gli
imprenditori italiani, giunti alla
ricerca di opportunità economiche
redditizie e a basso prezzo nella
colonia, temevano originariamente
che i lavoratori nativi non
avrebbero accettato questo nuovo
tipo di rupia in contanti, ma ciò
non si verificò, grazie alla
simultanea istituzione di comuni
attività commerciali che vendevano
beni attraverso la nuova moneta di
cassa fin dall’inizio della sua
circolazione.
Anche se il tasso di cambio tra la
lira italiana e quella somala fu
pareggiato per volontà del
Parlamento, questa decisione
politica causò notevoli tensioni
economiche a partire dal 1927, a
causa della cosiddetta “battaglia
per la lira” fascista. Proposta da
Benito Mussolini per raggiungere
l’utopica (rivalutazione della lira
a) “Quota 90”, questa campagna
economica ebbe esiti ambigui, sia
per la madrepatria che per la
colonia, portando infatti, da una
parte, alla riduzione degli
investimenti nella regione e,
dall’altra, all’abbassamento dei
salari retribuiti dalle aziende di
beni di largo consumo.
Tutto ciò inflisse temporaneamente
un colpo letale al cuore agricolo
del Somalia italiana, dove le
industrie pesanti, privilegiate da
tale politica economica, erano quasi
totalmente assenti in quel periodo.
Nonostante questa spiacevole
situazione per la regione somala,
sia a livello economico che sociale,
il tasso di cambio tra le rupie
promissorie ancora in circolazione e
la lira somala si scostò
difficilmente da quel originale
accordo di 8 a 1.
Dopo una fase di quasi stagnazione
economica coloniale, nella metà
degli anni ‘30, la nuova campagna
militare in Etiopia (1935-36) sembrò
tuttavia portare un debole vento di
cambiamento: con la creazione
dell’Impero Italiano nel Corno
d’Africa e l’istituzione dell’Africa
Orientale Italiana (A.O.I.), che
unificava sotto un’unica bandiera le
colonie di Eritrea, Etiopia e
Somalia, il governo italiano iniziò
infatti a emettere la “lira
dell’Africa Orientale Italiana” nel
1938. È giusto sottolineare,
tuttavia, che questi nuovi
certificati di cassa emessi a uso
esclusivo nella colonia, sebbene
fossero quasi totalmente simili alla
lira della madrepatria, ebbero un
risultato molto insoddisfacente; il
solo esito rilevante, infatti, fu
che questa moneta contribuì a
finanziare e mantenere gli stipendi
della nuova “Regia Agenzia Monopolio
Banane” (R.A.M.B.), la quale verrà
nuovamente trattata a seguire.
Alla fine, dopo la dichiarazione di
guerra dell’Italia contro la Gran
Bretagna e la Francia nel 1940, la
Somalia italiana, economicamente e
tecnologicamente svantaggiata sotto
ogni punto di vista, fu presto
conquistata, insieme ai restanti
territori dell’A.O.I, dalle truppe
britanniche nel 1941.
In seguito alla temporanea
istituzione della “British Military
Administration” (BMA), la lira
italiana dell’Africa orientale fu
rapidamente sostituita con gli
“scellini dell’Africa orientale
britannica”. Ciononostante, questo
cambio di valuta non causò molti
problemi economici per le entità
coloniali di per sé, ma portò a una
notevole diminuzione degli
investimenti del capitale nel
settore agricolo della Somalia.
Infatti, proprio tale mancanza di
investimenti, sotto dell’occupazione
britannica, venne percepita
localmente come la causa del
prolungato periodo di sottosviluppo.
L’agricoltura e gli investimenti
agricoli nella Somalia italiana dal
1910 al 1941:
caso di studio sulla “bananicoltura”
Osservando le dinamiche agricole
della Somalia durante l’era
coloniale italiana è facile
individuare uno sviluppo tardivo e
monopolistico delle risorse agricole
locali. Il mercato coloniale della
Somalia, infatti, potrebbe essere
giustamente definito “monopolistico”
in vista del fatto che la cosiddetta
“bananicoltura”, cioè lo sviluppo
estensivo e intensivo delle
piantagioni di banane, rappresentava
la vera risorsa redditizia della
regione.
In seguito alla “ufficializzazione
coloniale” del 1908, i primi studi
ed esperimenti sui potenziali
benefici della bananicoltura per la
popolazione locale e per le vendite
sul mercato furono eseguiti tra il
1910 e il 1918 dal Dr. Romolo Onor,
capo del servizio agricolo somalo. È
bene osservare, tuttavia, che questi
primi tentativi scientifici non
furono mai standardizzati e vennero
intrapresi in strutture tutt’altro
che ideali, considerando soprattutto
che la prima “colonia agricola”
funzionante, la quale assunse
simultaneamente i connotati sia di
piantagione che di struttura per la
ricerca agricola, fu istituita solo
nel 1920 all’interno dei confini
della Somalia italiana.
Questo ritardo tra le
sperimentazioni iniziali e la
creazione di una vera e propria
installazione dimostra la lentezza
intrinseca che caratterizzava i
progetti dello sviluppo coloniale
italiano. Inoltre, lo scoppio della
Prima Guerra Mondiale interruppe
bruscamente, seppur solo
temporaneamente, ogni possibile
investimento nella colonia,
rallentando ulteriormente ogni
sforzo di sviluppo.
A
ogni modo, la situazione iniziò a
cambiare, nell’inverno 1918-19,
grazie al nobile italiano Luigi
Amedeo di Savoia-Aosta, duca degli
Abruzzi. Desideroso di iniziare a
investire nella regione, il duca
prese parte a due spedizioni
agricolo-esplorative nelle fertili
valli del Somalia
centro-meridionale, essendo
fermamente convinto che: «È […]
giunto il momento di svolgere tutto
un programma di miglioramento nella
Colonia, per raggiungere il duplice
intento di assicurare maggior
benessere agli indigeni e di rendere
questa Colonia fonte di ricchezza
(sempre in limitate proporzioni) per
la Madre Patria [...]».
Queste ispezioni in loco giovarono
notevolmente sia al duca che alla
sua squadra tecno-agricola, i quali
riscontrarono una buona fertilità
del suolo nella regione. In questo
modo venne allora costituita a
Milano, nell’arco di due anni
(1920-1921), la “Società Agricola
Italo-Somala” (S.A.I.S.), con un
capitale iniziale di 24 milioni di
lire, che garantì così un rinnovato
flusso di risorse finanziarie e
investimenti agricoli nella Somalia
italiana. Nel frattempo veniva
inoltre inaugurata, attraverso la
collaborazione tra i tecnici
idro-agricoli italiani e i
braccianti autoctoni, la colonia
agricola “Villaggio Duca degli
Abruzzi”, posta sulla riva sinistra
del fiume Uebi Scebeli, nella zona
del Giohar.
Grazie alla rinnovata
sperimentazione agricola, alla
creazione di un impianto per la
coltivazione generosamente
finanziato, all’istituzione
dell’impresa agraria S.A.I.S. e
all’inaugurazione del “Centro
Sperimentale Agrario” di Genale, una
città sul basso Uebi Scebeli, gli
esperimenti sulla bananicoltura
iniziarono a fiorire. Lo sviluppo e
la lavorazione di queste piantagioni
intensive, reso possibile grazie
alla costruzione di diverse dighe
lungo il corso del fiume, si poneva
come principale obiettivo la
soddisfazione, in aggiunta al
normale consumo locale, della
crescente domanda estera per tali
prodotti.
L’uso di moderni trattori agricoli
venne adottato nelle piantagioni,
seppur non in modo sistematico,
poiché i vecchi metodi di raccolta a
mano utilizzati dai lavoratori
nativi erano ancora preferiti da
questi, sebbene il loro carico di
lavoro sotto le condizioni
metereologiche più avverse fosse
molto pesante e lo sfruttamento
della mano d’opera a basso costo
fosse all’ordine del giorno. A ogni
modo, come osservato in precedenza,
la produzione e il commercio delle
banane somale attraversarono una
fase di instabilità economica sotto
l’era fascista.
Alcune “stabili” esportazioni di
caschi di banane dalla colonia alla
madrepatria iniziarono nel 1927, ma
le quantità in tonnellate erano
ancora troppo basse e le navi
mercantili private impiegate non
erano sufficientemente attrezzate
per trasportare questo particolare
bene agricolo. Nonostante ciò, gli
interessi italiani in questa
nascente industria delle banane e i
suoi visibili profitti spinsero il
governo a introdurre un decreto in
materia nel 1931. Questo editto
legislativo imponeva le importazioni
di banane dalla sola Somalia
italiana, vietandone così l’acquisto
attraverso qualsiasi altro
concorrente straniero, e concedeva
un noleggio a basso costo dei mezzi
di trasporto adeguatamente
attrezzati (le cosiddette “navi
bananiere”, questa volta dotate di
frigoriferi ben funzionanti).
Grazie a queste risoluzioni le
esportazioni di banane dalla colonia
somala decuplicarono in soli due
anni, passando dalle 7.176
tonnellate del 1930 alle 56.483
tonnellate del 1932, e
successivamente quasi triplicarono
fino ad arrivare alle 185.459
tonnellate del 1936. In seguito un
nuovo decreto su tale materia fu
approvato dal governo italiano nel
1933: questi sanciva il divieto di
esportazione di varietà di banane
diverse da quella della “Giuba
nana”, azzerando così le precedenti
vendite sul mercato del tipo
“zanzibariana”. La supremazia di
questa nuova varietà fu ampiamente
apprezzata e promossa per le “ottime
caratteristiche dei frutti per la
dolcezza, il profumo e dimensioni
(che) conquistarono sia il mercato
italiano che quello di alcuni paesi
dell’Europa orientale”, come
sottolineato da Remo Roncati nel suo
articolo “Aspetti e Problemi della
bananicoltura somala e del commercio
bananiero”.
Prima degli anni ‘30 le rotte
d’esportazione delle banane si
trovavano nelle mani delle imprese
indipendenti “Società Anonima Banane
Africa Italiana” (S.A.B.A.I) e
“Compagnia Italiana Frutti Esotici”
(C.I.F.E.), in seguito, tuttavia,
esentate da un consorzio agricolo
locale della Somalia, che aveva
deciso di assumersi sia il carico di
lavoro della produzione che
l’esportazione di questi frutti.
Ciononostante, nuovi problemi
cominciarono presto a germogliare:
alcuni periodi di recessione
economica; elevati costi di
produzione, imballaggio, carico e
trasporto via terra prima e via mare
dopo; incapacità di competere con i
principali concorrenti
internazionali.
Quest’orlo di una crisi disastrosa
per il mercato delle banane
costrinse il governo fascista a
interferire ancora una volta su tali
questioni, portando alla creazione
dell’impresa nazionale R.A.M.B., già
menzionata. Tale agenzia venne
istituita nel 1935 come garanzia di
sicurezza sia per i produttori
coloniali che per il mercato di
consumo italiano. L’incarico della
R.A.M.B, infatti, era quello,
dichiarato pubblicamente nei
documenti ufficiali dell’impresa, di
occuparsi del “trasporto marittimo
della frutta, del commercio della
stessa, della lavorazione
industriale, compresa quella dei
sottoprodotti; inoltre stabiliva i
prezzi di cessione delle banane ai
concessionari di rivendita
all’ingrosso e successivamente ai
dettaglianti e da questi ai
consumatori”. La flotta della
R.A.M.B. poteva contare su diverse
navi mercantili, alcuni
cacciatorpediniere dotati di
frigoriferi e persino quattro nuove
e moderne “navi bananiere”.
Con lo scoppio della Seconda Guerra
Mondiale l’industria agricola delle
banane italo-somale ebbe un crollo
totale in termini di produzione,
esportazione e sviluppo tecnologico.
Le esportazioni da questa colonia
crollarono completamente, essendo
stata tagliata fuori sia dalle rotte
commerciali del Canale di Suez che
da quelle di Città del Capo durante
il conflitto, e le guarnigioni
italiane furono infine sopraffatte
dalle truppe britanniche. Sotto la
BMA le piantagioni di banane vennero
per lo più abbandonate a sé stesse e
la loro estensione in ettari divenne
oltremodo improduttiva. La Somalia
italiana fu così lasciata
all’abbandono totale e quasi alla
fame estrema, essendo le banane uno
dei beni alimentari di consumo di
base della colonia.
L’economia e gli investimenti
economici nel caso unico
dell’Amministrazione fiduciaria
italiana della Somalia (1950-60)
La cosiddetta “temporanea”
instaurazione del BMA e
l’imposizione formale dello scellino
britannico dell’Africa orientale sul
Somalia italiana durarono 8 anni
alla fine. A ogni modo, passato
questo arco di tempo, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite
approvò, il 21 novembre 1949, la
Risoluzione n. 289, istituendo di
fatto la “Amministrazione fiduciaria
italiana della Somalia”, con un
vademecum amministrativo fissato a
10 anni. L’unicità di questa
risoluzione risiedeva in due
questioni: 1) l’Italia non faceva
ancora parte delle Nazioni Unite nel
1949 e 2) questo era l’unico caso di
amministrazione fiduciaria assegnata
a una potenza sconfitta durante la
Seconda Guerra Mondiale.
La necessità di un nuovo sistema
monetario, in seguito alla formale
istituzione del mandato il 2
dicembre 1950, per questo paese, che
si avviva a diventare una vera e
propria “nazione”, divenne
impellente. Conoscendo in anticipo
questa situazione, il 18 aprile 1950
era già stata costituita a Roma la
“Cassa per la Circolazione Monetaria
della Somalia” (CCMS), con una
capitalizzazione iniziale di 87,5
milioni di lire.
La responsabilità della CCMS era
quella di garantire il conio e la
circolazione dell’unica nuova valuta
somala legale, il “somalo”, e allo
stesso tempo si accingeva a
intraprendere i primi passi del suo
percorso comportamentale come
autorità monetaria nazionale
indipendente. I tassi di cambio
durante i dieci anni di
amministrazione, per poterne
garantire così una certa rilevanza
economica internazionale, furono
fissati a 1 somalo per 1 scellino
dell’Africa Orientale Britannica e a
1.143 somali per 100 lire italiane.
La CCMS dipendeva formalmente dalla
sede centrale della Banca d’Italia
per quanto riguarda le operazioni e
le transazioni economiche
quotidiane, legando in tal modo il
valore d’acquisto del somalo a
quello della lira italiana.
Tuttavia, questa autorità monetaria
somala poteva, allo stesso tempo,
essere sostenuta da una scorta di
valute estere miste, senza alcuna
limitazione imposta
dall’amministrazione economica
italiana. Seppur fosse stata
consentita tale libertà, un altro
problema si stagliava all’orizzonte:
il consiglio d’amministrazione della
CCMS fu purtroppo composto solo da
funzionari italiani durante i dieci
anni dell’Amministrazione
fiduciaria, danneggiando così in
parte il futuro passaggio di questa
organizzazione economica nella
pienamente indipendente “Banca
Nazionale Somala” (BNS).
Ciononostante, il ritorno
dell’Italia e l’istituzione della
CCMS aiutarono la Somalia, sotto
alcuni punti di vista, a far
risalire la propria economia e a
risanare, attraverso investimenti
nazionali, l’indecoroso stato di
abbandono in cui verteva ormai da
anni. In questo decennio di
amministrazione fiduciaria
“gorgoglianti torrenti” di somali
ricominciarono così a scorrere come
investimenti significativi, inviati
anche da investitori privati e
pubblici italiani, in una nazione
sulla via dell’indipendenza.
L’agricoltura e gli investimenti
agricoli nel caso unico
dell’Amministrazione fiduciaria
italiana della Somalia (1950-60):
caso di studio sulla “bananicoltura”
Le condizioni in cui venne
abbandonata l’agricoltura somala
dopo l’occupazione della Seconda
Guerra Mondiale erano estremamente
povere: le piantagioni di banane
soffrirono infatti una profonda
mancanza di manutenzione e le
esportazioni all’estero erano state
bloccate sin dal 1943. L’istituzione
dell’Amministrazione fiduciaria
italiana della Somalia nel 1950
ripristinò la fiducia nell’industria
agricola locale e in quelle imprese
private italiane ancora in piedi
nell’ex-colonia. I nuovi
investimenti di capitale dall’Italia
assunsero allora il ruolo di una
temporanea “ancora di salvezza” per
il settore agricolo somalo,
purtroppo ancora principalmente
focalizzato sulla sola
bananicoltura.
Nel 1949 la “Azienda Monopolio
Banane” (A.M.B.), conosciuta fino al
1946 come R.A.M.B., tornò nel
commercio e nel settore delle
spedizioni, questa volta, però,
sotto le dirette dipendenze del
Ministero delle Finanze italiano.
L’estensione delle piantagioni di
banane venne riportata, durante i
dieci anni dell’Amministrazione
fiduciaria, al suo antico splendore,
passando dalle 2.800 del 1950 alle
7.992 del 1960. Come conseguenza
diretta anche le esportazioni
decuplicarono nello stesso periodo,
passando dalle 75.000 tonnellate del
1949 alle 769.537 tonnellate del
1960.
Al fine di promuovere nuovamente la
produzione agricola, alcune migliaia
di tecnici idro-agricoli vennero
inviati dal governo italiano in
Somalia, con il compito ultimo di
ristrutturare le vecchie aziende
agricole, introdurre nuove tecniche
agricole e insegnare alla
popolazione somala come continuare
questi lavori dopo la partenza
definitiva degli stessi tecnici
italiani nei primi anni ‘60.
Inoltre, gli investimenti privati
italiani sulla sola bananicoltura
intensiva ammontarono, tra il 1950 e
il 1959, a circa 56 milioni di
somali, con un tasso di cambio fisso
a 1 somalo per 87,50 lire italiane.
Non è difficile dedurre, attraverso
un’attenta osservazione di tali
investimenti, che le esportazioni di
banane rappresentavano quasi la
quota maggiore delle esportazioni
totali provenienti
dall’Amministrazione fiduciaria,
passando infatti dal 26,9% del 1950
all’incredibile 73,1% del 1960.
Oltre alle innovazioni strutturali e
al sovraccarico di investimenti nel
settore agricolo nel periodo
fiduciario, l’aspetto più
interessante fu comunque
l’introduzione di un’importante
innovazione in termini di
coltivazione delle banane. Nel 1958
il Governo italiano, congiuntamente
a quello somalo, istituì infatti una
“Missione Tecnico-Agricola per la
Somalia”, al fine di studiare e
raccogliere nuove varietà di banane
adattabili alla coltivazione
estensiva.
Tale risoluzione venne presa in
considerazione dei diversi problemi
riscontrati nella coltivazione della
precedente “Giuba nana”, soprattutto
in termini degli elevati costi di
esportazione e delle tendenze alle
deformità del prodotto finale. La
varietà “Poyo”, già ampiamente
coltivata in Guinea e Costa d’Avorio
e più resistente al clima somalo, fu
infine identificata come la migliore
in termini di produzione,
coltivazione e redditività delle
esportazioni. Dal 1959 diverse
industrie agricole
nell’Amministrazione fiduciaria
iniziarono allora a impiantare
questo nuova varietà di banane nelle
piantagioni e già nel 1960 furono
inviati in Italia i primi carichi
sperimentali.
Fu proprio grazie a quest’ultimo
miglioramento che le banane somale
tornarono ruggenti sul mercato
agricolo globale, diventando anche
una delle principali merci importate
negli anni ‘70 nei paesi del Medio
Oriente, brevemente in Francia e
persino nella Germania dell’Est.
Considerazioni conclusive
Alla fine degli anni ‘90 il
giornalista, storico e scrittore
italiano Indro Montanelli affermò
che “i dieci anni di Amministrazione
fiduciaria italiana furono l’età
d’oro della Somalia: la popolazione
quasi raddoppiò, l’analfabetismo fu
ridotto del 60%, la malnutrizione
nelle aree rurali scomparve,
l’economia salì allo stesso livello
dei paesi africani più sviluppati e
ci fu una completa integrazione in
materia religiosa e socio-politica
tra tutti gli abitanti della
Somalia”.
È
anche molto interessante, inoltre,
vedere cosa accadde nel gennaio del
1948 quando la Commissione delle
Nazioni Unite arrivò a Mogadiscio
per verificare la fattibilità
dell’istituzione di un territorio
fiduciario sotto amministrazione
italiana: in questa occasione i
delegati dell’ONU furono
letteralmente sopraffatti da gioiose
folle di manifestanti somali che
giovano del possibile ritorno
temporaneo dell’Italia. Queste
entusiastiche manifestazioni
scioccarono sia i rappresentanti
della BMA che gli indipendentisti
della “Lega della Gioventù Somala”.
Purtroppo, questo shock degli
indipendentisti venne presto a
trasformarsi in un’indiscriminata
violenza pubblica contro i residenti
italiani in Somalia, senza alcun
intervento repressivo da parte della
polizia della BMA. Durante gli
eventi del cosiddetto “massacro di
Mogadiscio” furono uccisi 54
italiani, ma anche 14 somali
morirono mentre cercavano di
proteggere gli italiani. Lasciando
da parte questo caso di violenza, è
impossibile negare il temporaneo
successo mostrato
dall’Amministrazione fiduciaria
italiana della Somalia in termini di
sviluppo economico e agricolo per
un’ex-colonia devastata dalla
Seconda Guerra Mondiale.
Questa rinnovata cooperazione tra
italiani e somali aveva infatti
dimostrato l’efficacia dei trascorsi
buoni rapporti e risultati,
nonostante fosse tutto un piano a
breve termine. Dal passato coloniale
all’Amministrazione fiduciaria degli
anni ‘60 il concetto di “sviluppo”
si era spesso concretizzato nelle
intenzioni dell’Italia verso questa
terra africana e il legame tra
l’agricoltura locale e il sistema
statale era più evidente, ma il vero
problema fu, a lungo andare, la
cieca concentrazione monopolistica
dello sviluppo agricolo ed economico
sulla sola bananicoltura.
L’individuazione di tale aspetto
come un problema è ancora più vera
se si considera che dalla fine degli
anni ‘90, dal periodo quindi delle
intermittenti guerre civili somale,
quelle banane sono diventate un
prodotto esclusivamente per il
consumo locale.
Riferimenti bibliografici: