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N. 9 - Settembre 2008 (XL)

L'INVENCIBLE ARMADA

inizio della fine, fine dell'inizio

di Cristiano Zepponi

 

Alla metà del XVI secolo, la Spagna era ancora unanimemente considerata la principale potenza militare d’Europa, di gran lunga superiore ai principali avversari che proprio allora cominciavano ad affacciarsi sullo scenario.

 

Ancora, dicevamo, perché il 5 di aprile del 1566 una rappresentanza della nobiltà fiamminga invase in armi il palazzo della governatrice spagnola dei Paesi Bassi, Margherita, sorellastra di re Filippo II – il difensore dell’ortodossia cattolica.

 

L’opera del cardinale di Granvelle, che aveva decisamente difettato di acume, oltre che di rispetto per le consuetudini e le prerogative locali, scatenando un’aspra lotta contro l’eresia aveva avuto una parte notevole nella sollevazione; inseguita, da vicino, dalle tensioni generate da una generalizzata diffusione del calvinismo e da una seria crisi economica.

 

Il governo degli Asburgo fu in breve avvertito come straniero, ed oppressivo, per la prima volta dopo l’”epoca d’oro” di Carlo V. Nell’estate di quell’anno, ad Anversa ed in altri centri folle di calvinisti presero a devastare chiese ed icone, tentando di eliminare ogni simbolo dell’invasore.

 

Ne derivò una durissima, e prevedibile reazione spagnola. Il re decise di inviare la tetra figura del Duca D’Alba, insieme ad una massiccia armata comprendente il meglio dell’esercito iberico, che giunse a Bruxelles il 22 agosto del 1567.

La repressione attuata dal “Duca di ferro”, anche in questo caso, ne accrebbe la fama.

 

L’esercito, però, reclamava oro in abbondanza, e per questo le autorità decisero di imporre una severa tassazione sulle transazioni commerciali.

Il clima degenerò, e fu lesto ad approfittarne il principe Guglielmo di Orange-Nassau, precedentemente fuggito per sfuggire alle persecuzioni.

Nominato statolder (governatore militare) nel 1572, il principe evitò saggiamente di affrontare le corazze e la disciplina dell’avversario, ritirandosi nelle provincie di Olanda e Zelanda al fine di sfruttare le difese naturali offerte dalle terre acquitrinose dei grandi estuari del Reno e della Mosa.

Qui, i “pezzenti” – come erano chiamati dagli spagnoli i rivoltosi – decisero di resistere, impedendo l’approdo delle navi nemiche, e costringendo quindi i rifornimenti spagnoli lungo l’interminabile via terrestre che partiva da Genova.

 

10 milioni di ducati andarono sprecati, nel tentativo di sopprimere la rivolta, e non bastarono. Filippo II fece bancarotta – una cosa che gli riusciva assai bene – ed i soldati, rimasti senza paga, si abbandonarono ad inumani saccheggi.

All’inizio del 1579 il Paese arrivò, però, alla scissione completa tra le dieci provincie meridionali (l’attuale Belgio, all’incirca), tornate lentamente all’obbedienza, e le sette provincie settentrionali, che decisero di proseguire nella lotta.

Un sicario pose fine alla vita di Guglielmo d’Orange il 10 luglio del 1584; ciononostante, il flusso continuo di profughi calvinisti dalle Fiandre e dal Brabante permise la continuazione dello scontro, mentre altre nubi si addensavano sulla fazione spagnola.

 

I rapporti tra la Spagna e l’Inghilterra, a metà del secolo, erano piuttosto buoni. Filippo II era legato alla corona inglese grazie al suo matrimonio con Maria Tudor, regina inglese fino alla morte, nel 1558. A quella data, tuttavia, la sua influenza nel Paese – che rimaneva tutto sommato meno sviluppato della potente terra d’origine del sovrano – si ridusse considerevolmente, in modo inversamente proporzionale allo sviluppo della marineria inglese.

 

Elisabetta declinò la proposta di matrimonio dell’illustre sovrano, anche perché il padre – il poligamo Enrico VIII – le aveva trasmesso una naturale fedeltà alla dottrina protestante.

Con simili premesse, era prevedibile un inasprimento dei rapporti tra i due Paesi; ed infatti ciò fu favorito dalla decisione inglese di proclamare la Chiesa anglicana ufficiale espressione religiosa della monarchia.

 

Raramente, però, le motivazioni religiose – da sole – spiegano i conflitti; ragioni decisamente più terrene, in effetti, causarono il rapido evolversi della situazione.

 

La flotta spagnola era numerosa, agguerrita ed orgogliosa, ed a ciò si aggiungeva l’esperienza e la consapevolezza di sé conquistate nelle acque di Lepanto, contro le galee turche. Conscia di questa situazione, Elisabetta aveva incaricato segretamente alcuni corsari di colpire il placido traffico mercantile tra la madrepatria spagnola e le colonia americane, ed i possedimenti della corona in tutto il pianeta.

Francis Drake, Martin Frobisher e John Hawkins, tra gli altri, assolsero brillantemente il compito, e consentirono così di finanziare quegli stessi movimenti ribelli – primo fra tutti quello dei “pezzenti” nei Paesi Bassi – che le ricchezze americane avrebbero dovuto contribuire a distruggere.

 

Elisabetta, però, era una sovrana instabile: oltre ad affrontare le dure discordie religiose del tempo, dovette anche subire le voci malevole che parlavano di una sua presunta nascita illegittima, rinfocolate dalla sua decisione di negare a tutti i pretendenti la sua preziosa mano.

Maria Stuart, la decaduta regina di Scozia – oltreché discendente legittima di Enrico VII Tudor - era divenuta la figura chiave del complesso gioco di macchinazioni che destabilizzavano la società inglese, foraggiate dagli oppositori della regina e dagli emissari delle potenze cattoliche.

 

Le relazioni tra i due Paesi barcollarono pericolosamente negli anni ’70 del secolo: nel ’71, Filippo sostenne la cospirazione di Rodolfo, che aveva proprio per obiettivo quello di sostituire Elisabetta con Maria; a sua volta, la decisa sovrana ritenne opportuno proteggere i corsari olandesi che colpivano le navi spagnole in transito; alla fine del decennio, poi, Drake circumnavigò il globo seminando una scia di colonie spagnole colpite e di bastimenti colati a picco.

 

Dopo che Filippo ebbe aggiunto ai suoi enormi possedimenti il regno del Portogallo, Elisabetta scelse di ricambiare le precedenti attenzioni sostenendo don Antonio, pretendente e rivale di Filippo, ed avviando trattative con Caterina de’ Medici, l’altra energica testa coronata di sesso femminile che in quegli anni dominava la scena in Europa.

La flotta di Filippo, però, colò a picco le navi francesi nel 1582, al largo dell’isola di Terceira. Due anni dopo, in seguito ad un nuovo tentativo di uccidere Elisabetta, le normali relazioni fra Inghilterra e Spagna furono troncate; ancora un anno, e 5000 soldati inglesi – agli ordini del duca di Leicester – sbarcarono sul Continente, per sostenere la guerriglia olandese.

 

Le condizioni erano mature per un’escalation; la classica goccia, stavolta, fu rappresentata dalla decisione inglese – anche se non ci sono dubbi sull’origine dell’iniziativa – di giustiziare la rivale cattolica della regina, Maria Stuart.

Poche settimane dopo, Filippo rispose alla provocazione ordinando la costruzione di una marina da guerra che avrebbe fatto impallidire qualsiasi rivale di ogni tempo, l’”Invincible Armada”.

 

L’Inghilterra, d’altra parte, non era un cliente facile: viveva proprio in quegli anni un generale moto d’espansione dell’economia, delle arti e della società in genere, accompagnato dallo sviluppo della mobilità sociale e di alcuni settori della popolazione (gruppi mercantili, uomini di legge, ceti intermedi) particolarmente coinvolti in quel fenomeno complesso che prese il nome dalle recinzioni – enclosures - poste a protezione dei campi al fine d’impedire gli usi civici e collettivi del suolo.

 

Il piano originale per la formazione dell’armata navale fu quindi elaborato dalla migliore mente marinara disponibile in Spagna, il marchese di Santa Cruz, che all’esperienza pluridecennale di comando univa la fama derivante dalla partecipazione agli scontri di Lepanto e Terceira.

510 navi, e oltre 94.000 uomini, sarebbero stati a suo avviso necessari per la spedizione; ma Filippo, perennemente alle prese con i problemi monetari derivanti dal forte deficit commerciale del regno, ridusse sensibilmente la cifra a 130 velieri.

 

I pesanti galeoni iberici avrebbero dovuto inizialmente rinforzare il duca di Parma – l’equivalente terrestre del marchese – impegnato contro i protestanti in Olanda; insieme, poi, i due capitani avrebbero dovuto far vela verso l’Inghilterra, sfidando la tradizione di inviolabilità che l’accompagnava dal 1066 (anno dello sbarco normanno seguito dalla vittoria nella battaglia di Hastings).

 

Drake, il valoroso marinaio corsaro al servizio della regina, si mosse però per primo, e contribuì a mescolare le carte prima ancora che il mazzo fosse formato; quando ancora – nel mese di aprile del 1587 - le varie parti dell’armata cominciavano lentamente a riunirsi in un corpo compatto, guidò ventitré vascelli verso la Spagna, spargendo il terrore sulle coste fino a Cadice, per poi affondare ventiquattro velieri all’ancora nella vicina baia di Cascais.

Si diresse poi verso capo San Vicente, base portoghese, dove riuscì a distruggere buona parte delle doghe destinate ai barili per le provviste spagnole, ed infine navigò in direzione delle Azorre, dove catturò il galeone San Felipe che trasportava preziose informazioni sul commercio della corona spagnola con le Indie, oltre ad un’ingente quantità di ricchezze varie.

 

Tuttavia, i preparativi proseguirono, mentre Elisabetta cominciava ad esitare di fronte alla prospettiva di battersi contro la superpotenza dell’epoca, come dimostrato dall’accettazione dell’apertura di colloqui di pace offerti dal duca di Parma, e dall’affannosa ricerca di alleati che diede i suoi frutti con l’acquisizione del supporto dell’agguerrita marina olandese, che pose il blocco alle Fiandre isolando le truppe spagnole nella zona.

 

All’inizio del 1588, l’anno fatale, il marchese di Santa Cruz – che l’aveva allestita – assunse il comando dell’armata, per poi morire improvvisamente in primavera; fu sostituito dal duca di Medina-Sidonia, un nobile d’alto rango sfortunatamente piuttosto digiuno in fatto di spedizioni navali, che capiva assai poco delle peculiarità delle battaglie in mare. Il capitano don Diego de Valdez, allora, fu nominato comandante in seconda, con la speranza che la sua esperienza potesse bilanciare la mancanza di una guida abbastanza carismatica, teoricamente rappresentata dal duca di Parma che si pensava di poter imbarcare sulle coste olandesi.

 

La difesa dell’Inghilterra fu affidata a Lord Howard Effingham, un altro esempio di aristocratico imbarcato e marinaio piuttosto anonimo, che però conosceva il valore dei consigli della “gente del mestiere” (Drake, Frobisher, Hakins, ancora loro) che lo circondava.

Elisabetta, invece, rifiutò la loro proposta di un attacco preventivo - una forma di combattimento che certamente non è stata inventata di recente – e permise alle navi anglosassoni esclusivamente di pattugliare i mari intorno all’isola, una volta circolata la voce che l’armata era salpata da Lisbona.

 

La foresta d’alberi che il re di Spagna aveva faticosamente messo insieme, in effetti, lasciò Lisbona il 20 di maggio del 1588, rifugiandosi a La Coruña per sfuggire ad una tempesta. Qui, ci si accorse che le provviste stipate in barili di legno non stagionato erano andate a male, e che tutta l’armata, in effetti, non si trovava nelle migliori condizioni per combattere.

Riprese il mare solo il 12 luglio, dopo aver imbarcato nuovi rifornimenti, costeggiò la Bretagna ed entrò nello stretto della Manica il 19 luglio.

 

Quel giorno gli inglesi s’avvidero del pericolo. Secondo la leggenda, prima di salpare i capitani isolani finirono la loro partita a bowling; ma è usuale, una volta passato il pericolo, la tendenza a minimizzarne la portata.

 

Fu una notte di luna lo scenario per l’incontro tra le due flotte rivali, tra il 20 ed il 21 luglio.

La parte spagnola era numerosa, splendente e minacciosa, e vantava scafi più massicci, e cannoni di calibro maggiore, ma ebbe da subito la peggio. Le piccole, manovrabili e temerarie navi inglesi, sfruttando il vento a favore e la maggiore gittata dei loro piccoli pezzi d’artiglieria, non permisero all’avversario di applicare la tecnica dell’abbordaggio, che – un po’ come i corvi di romana memoria – avrebbe dovuto trasformare le onde in terraferma, avvantaggiando le carabine e le picche iberiche. La perdita della San Salvador, che trasportava l’ufficiale pagatore della flotta e l’oro necessario, costituì l’esemplificazione del successo avversario.

 

“Le navi del nemico erano così rapide e agili, che non v’era modo di fare nulla contro di esse”, commenterà sconsolato il duca di Medina-Sidonia, forse imbarazzato da tanto ingombrante titolo.

 

Gli spagnoli si disimpegnarono dallo scontro e fecero rotta verso est, in direzione dell’isola di Wight, tallonati dagli inglesi guidati da un indiavolato Drake, che nella foga dell’inseguimento aveva anche perso il contatto con i suoi.

 

L’Armada consumò le sue munizioni in duelli a distanza, nel disperato tentativo di allontanare i britannici; e ben presto dovette far vela verso Calais, dato che le navi spagnola erano state nel frattempo raggiunte e attaccate.

La Manica, che pochi giorni prima aveva ammirato la superba sfilata della formazione da battaglia spagnola, ebbe anche in sorte l’opportunità di valutare appieno l’entità del disastro, scorgendo all’orizzonte un gregge disperso, confuso e preoccupato che approdò a Calais il 27 del mese

 

L’arrivo di ulteriori rinforzi e l’ebbrezza del successo dominavano invece nel campo inglese, quando il giorno dopo, una domenica, i comandanti tennero un consiglio a bordo dell’ammiraglia Ark Royal, e decisero di scaricare alcune delle loro navi per usarle come brulotti incendiari, invece di attendere vecchie navi equipaggiate alla bisogna.

 

La sorveglianza delle navi picchetto degli spagnoli, che pure conoscevano il terribile effetto prodotto da simili esplosioni, lasciò probabilmente a desiderare. Il 29, alle prime ore del mattino, gli inglesi riuscirono a forzare l’ingresso del porto ed a lanciare le navi contro la flotta spagnola all’ancora.

Il caos, prima ancora delle fiamme, fece il resto; nella fretta di salpare, diversi giganteschi vascelli causarono goffe collisioni, disperdendo ancor di più la già provata “Armada” iberica.

 

Le munizioni erano pressappoco finite, il duca di Parma era ancora prigioniero degli acquitrini fiamminghi e della flotta olandese, le navi spagnole si trovavano in condizioni preoccupanti.

Non restò altra scelta, al duca di Medina-Sidonia, che far vela verso la Scozia settentrionale, per cercare di recuperare la via di casa senza incontrare di nuovo la Royal Navy.

 

Non si tenne abbastanza conto, tuttavia, della scarsità di risorse alimentari a bordo dei tozzi galeoni superstiti, né del pessimo tempo che li attendeva nell’Atlantico settentrionale.

Fu così che l’armata prese a consumarsi lentamente, giorno dopo giorno, onda dopo onda, nel romantico tentativo di salvarsi percorrendo la via che si sapeva più lunga, e tortuosa.”Le difficoltà e le privazioni che abbiamo sofferte non possono essere descritte a Vostra Maestà; esse sono state più grandi di quanto io abbia mai sperimentato in qualsiasi precedente viaggio”, avrebbe poi raccontato lo sfortunato duca che assurge a casuale protagonista di questa pagina di storia, ma le sue parole non possono spiegare come nelle acque della Scozia, dell’Irlanda e della Cornovaglia metà della flotta scomparve, senza che i compagni potessero far niente.

 

Le formazioni da battaglia persero compattezza, e si trasformarono in funeree, silenti processioni di mastodonti domati, che scivolavano sulle gelide acque dell’Oceano; e così si presentarono a Cadice nel mese di settembre, accolte dal silenzio della popolazione che si chiedeva come la più potente macchina bellica della storia dei mari non fosse riuscita ad affondare nemmeno un vascello avversario, un bastimento, niente; e probabilmente non s’accorse che di lì a poco la Spagna intera, come la sua flotta, avrebbe imboccato la strada di un umiliante declino, mentre sarebbe emersa prepotente la stella dell’impero britannico, padrone dei secoli successivi.



 

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