N. 5 - Maggio 2008
(XXXVI)
l'invasione sovietica dell'AFGHANISTAN
il vietnam russo
di Matteo Liberti
La vigilia di Natale
del 1979 è ricordata in Afghanistan come l’inizio di
un incubo. Fu infatti in quell’occasione che
l’Unione Sovietica diede ordine al suo esercito di
invadere il paese asiatico, dove sarebbe rimasto per
quasi dieci anni (fino al febbraio 1989). Quell’atto
di forza si rivelerà ben presto essere una tragedia
inutile, una sorta di “Vietnam russo”, che
preannunciò la definitiva caduta dell’URSS e devastò
lo stato afgano.
Prima dell’invasione sovietica, la vita politica afgana
era tradizionalmente in equilibrio tra società civile ed
elemento religioso, personificato nelle figure dei
mullah (capi religiosi). A far saltare gli equilibri
fu però un colpo di stato messo in atto nell’aprile del
1978 dal Partito Democratico Popolare
dell'Afghanistan (PDPA). Il presidente
Mohammed Daoud Khan, in carica
dal 1973 e fautore di una politica progressista, venne
ucciso, e il potere fu assunto da Mohammed Taraki, uomo
poco gradito però alle gerarchie religiose. Nasceva con
lui la “Repubblica Democratica dell'Afghanistan”.
Il PDPA mise subito in atto un programma di stampo
socialista, che prevedeva una grande riforma agraria e
importanti innovazioni di stampo laico: tra le altre
cose veniva riconosciuto il diritto di voto alle donne,
si vietava l’uso del burqa afgano (l’abito che
copre testa e corpo, con una retina all'altezza degli
occhi) e si avviava un’importante campagna di
scolarizzazione.
Tutto ciò produsse lo scontento delle
gerarchie ecclesiastiche, che non tardarono ad
organizzare un'opposizione armata, guidata dai
mujaheddin (combattenti per la fede), contro il
nuovo regime di Taraki. Il governo rispose con fermezza
e decine di arresti, mentre da
Mosca partirono per l’Afghanistan circa tremila
consiglieri militari. Nel gennaio 1979
iniziarono gli scontri armati fra esercito e resistenza
islamica, e in primavera, presso la città di Herat,
scoppiò una rivolta in cui vennero assassinati alcuni
consiglieri sovietici.
La reazione del
governo fu un feroce bombardamento che causò la morte di
migliaia di persone, ma, ciò nonostante, in
estate buona parte del paese era
già sotto il controllo delle formazioni islamiche
(appoggiate nella guerriglia dall’Iran e dal Pakistan).
A questo punto intervennero nella questione afgana anche
gli Stati Uniti, ed il presidente Carter firmò una
direttiva per la fornitura di aiuti bellici ed economici
ai mujaheddin. L’obbiettivo era quello di
appoggiare l’elemento religioso in funzione
anti-sovietica.
Il 14 settembre del 1979 un altro evento scosse la già
tesa situazione: l’ex primo ministro Hafizullah Amin
prese il potere e Taraki venne assassinato. Il nuovo
governante, se da una parte fece concessioni
all’opposizione politica islamica, dall’altra accentuò
le forme di persecuzione, eliminando migliaia di
persone. Amin cercò anche un ulteriore appoggio
statunitense, rifiutando ogni proposta d’aiuto
sovietico. A Mosca ciò non piacque, e qualcuno iniziò
addirittura a sospettare di rapporti tra Amin e la Cia.
L’assassinio di un altro consigliere sovietico nel
dicembre del 1979 fu il pretesto ultimo per
un’operazione di forza da parte dell’URSS, motivata
anche dal timore di un’estensione della ribellione
islamica nelle vicine repubbliche dell’Asia centrale. Il
24 dicembre l'esercito ricevette l'ordine di invadere
l'Afghanistan e la sera del 27 Kabul vide l’arrivo
dell'Armata rossa. Lo stesso giorno Amin fu ucciso e
sostituito da Babrak Karmal, già vicepresidente di
Taraki. Da quel momento iniziarono a giungere in
Afghanistan decine di migliaia di soldati sovietici.
Politica internazionale e resistenza.
Gli Stati Uniti reagirono con un embargo immediato e
l’offerta al Pakistan di aiuti militari per contrastare
l'avanzata russa. A ciò si aggiunse il gesto simbolico
di boicottare le Olimpiadi del 1980 a Mosca.
L'ONU condannò l'invasione e, attraverso
la risoluzione 35, chiese l'immediato ritiro di tutte le
truppe straniere dall'Afghanistan. Il nuovo presidente
statunitense, Ronald Reagan, aumentò gli aiuti ai
combattenti anti-sovietici, con l’obiettivo di
trasformare la guerra in un lenta agonia per l’URSS,
come era accaduto agli stessi americani in Vietnam
qualche anno prima. Peraltro i mujaheddin,
appoggiati ora anche dai pasdaran iraniani (le
guardie della rivoluzione) e dall’Arabia saudita,
continuavano a mostrarsi ottimi combattenti, e la loro
resistenza diventava sempre più efficace. Tra di loro vi
era anche Osama bin Laden, ma il vero leader della
resistenza divenne presto Ahmad Shah Massoud, detto
il Leone di Panishir (dal nome della valle in cui
combatteva e in cui fu più eroica l’opposizione ai
sovietici).
Nel novembre del 1986 un Karmal ormai
impotente diede le dimissioni su invito di Mosca,
per essere sostituito da Haji Mohammed Chamkani, il cui
posto verrà poi preso, nel 1987, da Mohammed Najibullah.
Il ritiro.
La premessa decisiva per la fine
dell’occupazione fu l’avvento al Cremino di Michail
Gorbaciov. Salito al potere nel 1985, questi si dichiarò
da subito disponibile ad una soluzione politica della
questione afgana, e già nell’autunno del 1986 una parte
delle truppe sovietiche iniziò a lasciare il paese.
Il 14 aprile 1988, con gli accordi di
Ginevra, venne stabilito il ritiro definitivo
dell'Armata Rossa sotto la supervisione dell'ONU e il
rientro dei profughi dal Pakistan. Le operazioni
iniziarono a maggio, e il 15 febbraio 1989 l'Unione
Sovietica diede comunicazione ufficiale del
completamento del ritiro. La guerra d’invasione finiva
con un bilancio di quasi 2 milioni di morti afgani e
oltre 5 milioni di profughi.
Per l’Unione Sovietica, che contò
circa 15 mila caduti, terminava l’ultima prova di
forza della sua storia. Per l’Afghanistan iniziava
invece un periodo di grave instabilità politica e di
nuovi drammi (lotte tra
mujaheddin,
presa del potere dei talebani e intervento statunitense
post 11 settembre).
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