N. 128 - Agosto 2018
(CLIX)
La più sorprendente vittoria del genio ellenico
SULL’invasione
slava
del
Peloponneso
di
Roberto
Conte
Come
è
noto,
l’Impero
Romano
d’Oriente
sfuggì
nel
V
secolo
al
triste
destino
del
suo
corrispettivo
occidentale
e,
nonostante
invasioni
e
razzie,
mantenne
integri
i
suoi
confini
settentrionali,
arginando
o
dirottando
le
massicce
migrazioni
verso
sud
dei
popoli
germanici.
Tuttavia,
dalla
metà
del
secolo
successivo,
si
trovò
a
dover
fronteggiare
un
nuovo,
imponente
arrivo
di
popolazioni
barbariche
dal
nord
del
Danubio.
Anche
se,
dopo
lunghissime
lotte
dall’esito
altalenante,
sotto
la
dinastia
macedone
esso
fu
in
grado
di
recuperare
praticamente
tutto
il
territorio
perduto,
ormai
l’intera
penisola
balcanica
aveva
subito
trasformazioni
culturali
e
etniche
irreversibili:
era
diventata,
e lo
sarebbe
stata
sino
a
oggi,
una
terra
in
assoluta
preponderanza
di
Slavi,
con
gli
antichi
abitanti,
di
stirpe
illirica
o
tracia
e di
lingua
latina
o
greca,
relegati
in
zone
marginali,
dove
saranno
in
seguito
conosciuti
sotto
il
nome
di
Aromuni,
Vlachs,
Morlacchi,
Cici,
Sarakatsani.
Una
parziale
eccezione
a
questo
scenario
potrebbe
essere
rappresentata
dagli
Albanesi,
qualora
venisse
provata
la
loro
discendenza
diretta
dagli
antichi
Illiri.
Nell’ambito
di
questi
eventi,
particolare
interesse
ha
destato
presso
gli
storici,
a
partire
dall’inizio
dell’Ottocento,
la
sorte
che
ebbe
a
subire
la
Grecia,
e
soprattutto
il
Peloponneso,
portando
a un
acceso
e
appassionante
dibattito,
non
ancora
del
tutto
appianato.
Esso
ebbe
inizio
nel
1830,
quando
lo
storico
austriaco
Jacob
Philipp
Fallmerayer
pubblicò
Geschichte
der
Halbinsel
Morea
während
des
Mittelalters,
opera
nella
quale
affermava
senza
mezzi
termini
che
i
Greci
moderni
discendevano
dagli
Slavi
invasori
o da
immigrati
mediorientali
trapiantati
dal
governo
bizantino,
e
addirittura
che
non
una
goccia
di
sangue
degli
antichi
Elleni
scorreva
nelle
loro
vene.
Questa
teoria
radicale
fu
avanzata
in
pieno
periodo
romantico,
e
quando
era
ancora
vivissima
l’eco
della
lotta
insurrezionale
dei
Greci
contro
il
dominio
ottomano,
che
aveva
visto
anche
la
partecipazione
di
molti
giovani
occidentali,
alcuni
dei
quali,
come
l’inglese
George
Byron
e
l’italiano
Santorre
di
Santarosa,
avevano
perso
la
vita
durante
quell’impresa;
è
naturale
quindi
che
essa
scatenasse
immediatamente
vibratissime
proteste
e
confutazioni.
Si
avviò
quindi
una
polemica
storiografica
che
si è
trascinata
sino
ai
giorni
nostri,
con
posizioni
che
andavano
dalla
totale
aderenza
alla
teoria
di
Fallmerayer
al
più
completo
negazionismo,
che
escludeva
qualsiasi
intrusione
slava
nel
Peloponneso.
Le
fonti
scritte
dell’epoca
in
cui
si
svolsero
i
fatti
sono
piuttosto
rare
e
non
molto
precise,
tanto
da
poter
essere
spesso
impugnate
da
entrambe
le
parti
come
attestazione
della
veridicità
delle
proprie
ipotesi.
Le
prove
di
altra
natura,
toponomastiche,
archeologiche,
numismatiche
o
genetiche
che
siano,
sono
altrettanto
aleatorie
e
aperte
a
qualsiasi
tipo
di
interpretazione.
In
ogni
caso,
una
disamina
il
più
obiettiva
possibile
di
tutti
i
documenti
disponibili
può
aiutare
a
raggiungere
qualche
conclusione
sicura
su
questo
argomento.
Le
prime
ondate
di
invasioni
slave
a
sud
del
Danubio
avvennero
sotto
il
regno
di
Giustiniano
I
(529-565),
e
furono
di
certo
favorite
dal
fatto
che
questo
imperatore
stava
impegnando
il
grosso
delle
sue
risorse
materiali
e
umane
nel
grandioso
piano
di
riconquista
dell’Occidente:
se
questa
notevole
impresa
riuscì
infine
a
raggiungere
risultati
non
disprezzabili,
come
la
conquista
dell’Africa
vandala,
dell’Italia
ostrogota
e
della
parte
meridionale
della
Spagna
visigota,
d’altro
canto
lasciò
la
frontiera
settentrionale
piuttosto
sguarnita,
facilitando
le
infiltrazioni
dei
barbari
invasori.
Costoro,
e in
particolare
la
tribù
slava
degli
Anti,
forzarono
più
volte
la
frontiera
danubiana
(nel
534,
538,
540,
546,
547,
551,
552,
558
e
562),
compiendo
razzie
e
devastazioni
in
tutti
i
Balcani,
senza
che
si
riuscisse
seriamente
a
mettere
fine
alle
loro
attività.
Nel
562
Giustiniano
pensò
di
aver
trovato
una
soluzione
a
questo
drammatico
problema
stringendo
un’alleanza
con
gli
Avari,
popolo
di
stirpe
turanica
o
mongolica
appena
giunto
dalle
steppe
orientali,
proprio
in
funzione
anti-slava.
I
nuovi
arrivati
svolsero
bene
il
loro
compito,
sottomettendo
tutte
le
tribù
dell’area
transdanubiana,
ma
ben
presto
la
cura
si
rivelò
peggiore
del
male.
Quando
il
nuovo
imperatore,
Giustino
II
(565-578),
rifiutò
improvvidamente
di
corrispondere
loro
il
tributo
sino
a
quel
momento
versato,
egli
si
trovò
a
dover
affrontare
non
più
bande
di
predoni
che,
per
quanto
grandi,
agivano
senza
concertazione
tra
di
loro,
ma
un
impero
simile
a
quello
creato
da
Attila
un
secolo
prima,
in
grado
di
portare
avanti
una
strategia
di
lungo
respiro.
La
caduta
nel
582
di
Sirmio,
fortezza
sulla
Sava
che
costituiva
la
chiave
di
volta
dei
Balcani
settentrionali,
spalancò
agli
invasori
le
porte
per
la
conquista
di
tutta
la
penisola.
In
particolare,
gli
Slavi,
che
in
quel
momento
operavano
in
quanto
sudditi
del
khagan
avaro,
penetrarono
in
massa
entro
i
confini
dell’impero,
e
non
più
al
solo
scopo
di
saccheggiare,
bensì
per
stabilirvisi
permanentemente.
In
queste
prime
fasi
non
sembra
che
il
Peloponneso
sia
stato
colpito
da
queste
devastazioni:
scrivendo
intorno
al
584,
nelle
sue
Historiae
Ecclesiasticae,
Giovanni
di
Efeso
afferma
che
nel
581,
approfittando
del
fatto
che
il
grosso
delle
truppe
imperiali
era
impegnato
nella
guerra
contro
i
Persiani,
gli
Slavi
percorsero
tutta
l’Ellade
e le
province
di
Tessaglia
e di
Tracia,
e
per
i
successivi
quattro
anni
ebbero
mano
libera,
potendo
non
solo
saccheggiare
città
e
campagne,
ma
anche
installarsi
a
loro
piacimento
all’interno
delle
province.
Anche
altri
storici
del
periodo,
come
Menandro,
Evagrio
e
Giovanni
de
Biclar
affermano
chiaramente
che
gli
invasori
razziarono
e
occuparono
parte
dell’Ellade,
ma
nessuno
di
essi
nomina
mai
esplicitamente
il
Peloponneso,
e è
anche
fonte
di
dibattito
cosa
essi
volessero
indicare
precisamente
con
il
nome
di
Ellade,
che
all’epoca
era
usato
a
volte
per
designare
gli
interi
Balcani,
a
volte
solo
la
Macedonia
e la
Tracia,
a
volte
solo
la
Grecia
centrale
(il
territorio
su
cui
in
seguito
fu
costituito
l’omonimo
thema).
Ma
solo
pochi
anni
dopo
sembra
che
gli
invasori
siano
riusciti
a
spingersi
più
a
sud,
non
si
sa
se
via
terra,
forzando
l’istmo
di
Corinto,
o
via
mare,
passando
su
barche
l’omonimo
golfo.
La
testimonianza
più
esplicita
di
questa
catastrofe
ci
viene
dalla
Cronaca
di
Monemvasia,
che
segnala
che
nel
sesto
anno
dell’imperatore
Maurizio,
ovverosia
nel
587,
gli
Avari
dilagarono
anche
nel
Peloponneso,
che
sarebbe
sfuggito
al
controllo
di
Costantinopoli
per
ben
duecentodiciotto
anni.
I
contestatori
più
radicali
delle
tesi
di
Fallmerayer
hanno
sempre
messo
in
dubbio
la
veridicità
di
questa
fonte,
considerandola
troppo
tarda
rispetto
agli
eventi
narrati,
tuttavia
le
stesse
indicazioni
giungono
da
una
glossa
del
vescovo
Areta
di
Cesarea,
vissuto
all’inizio
del
X
secolo,
il
che
porta
a
concludere
che
la
fonte
comune
ai
due
testi
fosse
precedente
a
questo
periodo,
dunque
piuttosto
vicina
all’epoca
dei
fatti.
La
Cronaca
di
Monemvasia
fornisce
anche
ulteriori
particolari:
gli
abitanti
di
Sparta
avrebbero
cercato
rifugio
nel
neonato
centro
abitato
di
Demena,
presso
Messina,
quelli
di
Patrasso
presso
Reggio
Calabria,
quelli
di
Argo
sull’isola
di
Orobè
(probabilmente
l’attuale
Romvi),
quelli
di
Corinto
a
Egina.
A
parziale
contraddizione
di
tali
affermazioni,
tuttavia,
la
stessa
fonte
afferma
che
la
parte
orientale
del
Peloponneso,
da
Corinto
a
Capo
Malea,
rimase
immune
dall’effetto
delle
invasioni,
e
continuò
a
rimanere
sotto
il
controllo
imperiale.
Per
lungo
tempo
gli
imperatori
di
Costantinopoli
non
furono
in
grado
di
prendere
alcuna
iniziativa
per
rimediare
a
questa
situazione:
per
quanto
nel
601,
dopo
una
vittoriosa
campagna
transdanubiana,
Maurizio
(582-602)
fosse
in
grado
di
concludere
con
il
khagan
avaro
Baian
una
pace
che
impegnava
quest’ultimo
a
riconoscere
il
Danubio
come
frontiera
in
cambio
di
un
aumento
del
tributo,
nulla
fa
intendere
che
gli
Slavi
già
insediatisi
nei
Balcani
ritornassero
a
nord
del
fiume,
e
comunque
l’anno
successivo
l’assassinio
di
Maurizio
e
l’usurpazione
di
Foca
(602-610)
fecero
piombare
nel
caos
tutto
l’impero,
e
gli
Avaro-slavi
poterono
riprendere
impunemente
le
loro
scorrerie,
giungendo
a
minacciare
seriamente
la
stessa
capitale.
Neanche
il
declino
della
supremazia
avara,
che
ebbe
inizio
proprio
dopo
il
fallito
assalto
a
Costantinopoli,
nel
626,
riuscì
a
frenare
le
continue
infiltrazioni
delle
tribù
slave,
ormai
libero
di
agire
come
entità
del
tutto
indipendenti,
e il
loro
definitivo
insediamento
all’interno
dell’impero.
In
queste
condizioni,
e
con
la
continua
minaccia
dell’appena
nata
potenza
araba
a
est,
i
successivi
sovrani
dovettero
occuparsi
esclusivamente
della
sopravvivenza
stessa
dello
stato.
Anche
quelli
tra
loro
che
riuscirono
a
lanciare
qualche
controffensiva
nei
Balcani,
come
Costante
II
nel
659
o
Giustiniano
II
nel
688-689,
concentrarono
i
loro
sforzi
sulle
zone
più
vicine
alla
capitale
e
per
questo
più
fondamentali
dal
punto
di
vista
strategico,
come
la
Tracia
o la
Macedonia.
È
vero
che
le
operazioni
militari
di
Giustiniano
II
sembrano
aver
permesso
la
costituzione
del
thema
dell’Ellade,
la
cui
esistenza
è
attestata
con
sicurezza
dal
695,
ma
non
è
chiaro
se
esso
includesse
anche
il
Peloponneso
orientale
o
fosse
limitato
alla
Grecia
centrale,
che
in
effetti
costituiva
la
sua
base
territoriale
nel
IX
secolo.
Dalle
poche
testimonianze
disponibili,
sembra
però
che
l’intero
Peloponneso
restasse
abbandonato
a se
stesso:
tra
il
723
e il
728
il
monaco
(in
seguito
vescovo
e
poi
santo)
inglese
Willibald,
in
viaggio
verso
la
Terrasanta,
sostò
a
Monemvasia,
che
secondo
lui
si
trovava
“in
Sclawinia
terra”.
A
peggiorare
la
situazione,
nel
746-747
si
abbattè
su
tutta
la
Grecia
una
terribile
pestilenza,
che
decimò
la
popolazione:
fu
in
questa
occasione,
secondo
quanto
scrive
Costantino
Porfirogenito
nel
suo
de
Thematibus,
che
tutto
il
Peloponneso
su
slavizzato
e
divenne
barbaro
(εσθλαβωθη
δε
πασα
η
χωρα,
και
γεγονε
βαρβαρος).
Molti
studiosi
si
sono
accapigliati
sulla
traduzione
più
esatta
del
termine
εσθλαβωθη,
per
alcuni
da
intendersi
come
“fu
slavizzata”,
per
altri
“fu
resa
schiava”,
ma
il
senso
delle
parole
dello
scrittore
e
imperatore
resta
lo
stesso:
gli
Slavi
erano
ben
presenti
nella
penisola
e se
ne
erano
resi
padroni.
Considerando
queste
testimonianze,
non
è
possibile
negare
l’arrivo
e
l’insediamento
di
numerosi
slavi
nel
corso
del
Medioevo.
Tuttavia
sarebbe
altrettanto
errato
sposare
incondizionatamente
la
tesi
dell’estinzione
degli
antichi
Elleni.
La
calata
delle
loro
orde
tra
la
fine
del
VI e
la
prima
metà
dell’VIII
secolo
nel
Peloponneso
causò
certamente
molto
terrore
e un
rilevante
spostamento
di
popolazioni,
come
rilevato
dalla
Cronaca
di
Monemvasia:
accanto
a
coloro
che
cercarono
rifugio
oltremare,
ci
furono
Elleni
che
emigrarono
in
luoghi
più
difendibili,
in
zone
impervie
o
vicine
al
mare,
dove
era
possibile
ottenere
rifornimenti
e
aiuti
da
Costantinopoli.
In
questo
caso
un
aiuto
importante
può
essere
fornito
dalla
toponimia.
Nel
periodo
successivo
alla
discesa
slava,
diverse
importanti
città
dell’età
classica
risultano
scomparse,
soprattutto
nella
parte
centrale
e
occidentale
della
penisola.
Non
c’è
più
traccia
di
Messene
o di
Olimpia,
mentre
altri
abitati
celebri
nell’antichità
hanno
assunto
nomi
in
apparenza
di
origine
slava:
così
al
posto
di
Tegea
troviamo
Nikli,
al
posto
di
Mantinea
Goritsa,
al
posto
di
Micene
Charvati,
poco
distante
da
Megalopoli
Veligosti.
Da
un
censimento
dei
centri
abitati
nel
Peloponneso
recanti
un’onomastica
slava,
è
possibile
evincere
una
loro
particolare
diffusione
in
Acaia,
Arcadia
e
Laconia,
mentre
al
contrario
essi
sono
piuttosto
rari
in
Argolide
e
Corintide,
il
che
in
un
certo
modo
viene
a
confermare
la
testimonianza
della
Cronaca
di
Monemvasia
sul
ritiro
delle
genti
elleniche
verso
le
coste
orientali.
Ma
altri
indizi
forniti
dalla
toponomastica
permettono
di
intuire
altri
movimenti
di
popolazioni
in
questa
fase
storica
piuttosto
oscura.
A
sud
di
Kalamata,
presso
le
coste
della
Messenia,
esisteva
il
villaggio
di
Ano
Mantinea,
in
seguito
ribattezzato
Megali
Mantinea,
il
che
sembrerebbe
indicare
che
gli
abitanti
dell’antica
città
arcade
si
trasferirono
in
massa
in
questa
zona,
molto
probabilmente
proprio
a
causa
dell’intrusione
slava.
Ci
furono
comunque
anche
distretti
dell’interno
che
riuscirono
a
arginare
quella
marea
umana:
nella
zona
dell’antico
lago
di
Feneo,
per
esempio,
sopravvissero,
a
volte
mutando
solo
leggermente
la
loro
denominazione,
i
villaggi
di
Lykouria
(Lykouri),
Kleitur
(Klitouras),
Steno,
Tarso.
Costantino
Porfirogenito,
nella
sua
altra
opera
de
Administrando
Imperio,
ricorda
il
caso
degli
abitanti
dell’estremità
della
penisola
di
Maina,
che
indica
come
gli
eredi
degli
antichi
Spartani,
che
in
quel
territorio
impervio
resistettero
a
ogni
penetrazione
slava,
mantenendo
addirittura
sino
al
regno
di
Basilio
I
(860-885)
la
religione
pagana.
Questa
notizia
può
sembrare
sospetta,
e ha
indotto
alcuni
studiosi
a
ritenere
che
essa
sia
invece
una
prova
dell’origine
slava
di
questa
gente,
ma
bisogna
considerare
che
Sparta
nel
Tardo
Antico
era
una
città
molto
meno
aperta
al
resto
del
mondo
rispetto
a
Atene
o
Tessalonica,
erede
di
una
prestigiosa
tradizione
classica,
in
cui
ancora
nel
IV
secolo
avanzato
si
aveva
notizia
di
contrasti
tra
cristiani
e
pagani.
Non
sarebbe
assurdo
ritenere
che
ancora
al
momento
dell’invasione,
nel
587,
molti
dei
suoi
abitanti
fossero
ancora
legati
alle
antiche
credenze.
Forse
i
membri
della
comunità
cristiana
cercarono
rifugio
a
Monemvasia
o in
Sicilia,
ma i
pagani,
quelli
più
legati
alle
memorie
del
passato,
non
vollero
abbandonare
la
Laconia
e si
asserragliarono
nella
penisola
di
Maina,
di
difficile
accesso
e
per
questo
facilmente
difendibile.
Successivamente,
il
periodo
di
isolamento
di
più
di
due
secoli
che
interessò
l’intero
Peloponneso
permise
ai
Mainoti
di
restare
pagani
sino
al
ritorno
dell’autorità
di
Costantinopoli,
che
in
seguito
provvide
alla
loro
evangelizzazione.
Un’altra
comunità
indicata
come
del
tutto
esente,
o
almeno
poco
permeata,
di
elementi
slavi
è
quella
degli
Tsakoni,
abitante
le
coste
orientali
della
Laconia,
dove
si
parla
ancora
oggi
un
dialetto
di
tipo
dorico,
derivato
direttamente
dall’antico
spartano.
È
dunque
presumibile
che
gli
Slavi
si
insediassero
soprattutto
nelle
aree
centrali
e
occidentali
del
Peloponneso,
ma
anche
in
queste
località
è
eccessivo
parlare
di
una
totale
eradicazione
della
popolazione
indigena.
Gli
Slavi
non
avevano
alcun
concetto
di
purezza
razziale,
e,
una
volta
occupate
le
terre
che
desideravano,
non
avevano
alcun
interesse
a
sterminare
i
primitivi
abitanti;
le
loro
stesse
tribù
comprendevano
anche
elementi
germanici,
unni,
iranici:
è
probabile
addirittura
che
gli
Anti,
che
furono
i
principali
protagonisti
delle
invasioni
del
VI
secolo,
fossero
governati
da
un’aristocrazia
di
origine
appunto
iranica.
A
questo
proposito,
è
indicativa
una
storia
narrata
nei
Miracula
Sancti
Demetri,
risalente
più
o
meno
alla
metà
del
VII
secolo
e
che
si
occupa
della
rivolta
contro
il
khagan
degli
Avari
di
un
capo
bulgaro
di
nome
Kouver,
che
ottenne
l’aiuto
dell’imperatore
Eraclio
I
(610-641).
Costui
era
a
capo
di
una
grande
banda,
formata
da
Slavi,
Avari
e
Bulgari,
ma
anche
da
indigeni
legati
agli
invasori
da
relazioni
matrimoniali.
Proprio
su
istanza
di
questi
ultimi,
questo
gruppo
si
spostò
da
Sirmio
in
Macedonia,
allo
scopo
di
tornare
nelle
loro
sedi
originarie,
da
cui
erano
stati
allontanati
un’ottantina
di
anni
prima.
Da
questo
episodio
si
evince
che
in
molti
casi
non
ci
fu
una
drastica
sostituzione
di
popolazioni,
ma
piuttosto
una
loro
fusione,
volontaria
o
imposta
che
fosse;
in
seguito,
il
predominio
linguistico
andò
alla
parte
che
risultava
più
numerosa,
e in
questo
caso
bisogna
ammettere
che
nel
Peloponneso,
e in
generale
nella
Grecia,
l’elemento
ellenico
finì
con
il
prevalere
nettamente,
favorito
anche
dalla
definitiva
riscossa
bizantina:
nel
783
un
esercito
al
comando
dell’eunuco
Stauracio
ristabilì
l’autorità
imperiale
su
tutta
la
penisola,
e
nell’805
un
tentativo
di
sollevazione
slava
fu
definitivamente
sconfitto
davanti
alle
mura
di
Patrasso.
La
costituzione
del
thema
del
Peloponneso,
avvenuta
qualche
tempo
prima
di
quest’ultimo
episodio,
sancì
il
definitivo
ritorno
di
tutta
la
penisola
sotto
il
controllo
di
Costantinopoli.
Il
predominio
numerico
degli
Elleni
rispetto
ai
nuovi
arrivati
sembrerebbe
confermato
da
recenti
studi
genetici,
condotti
dal
professor
George
Stamatoyannopoulos
della
Washington
University,
che
hanno
dimostrato
che
l’eredità
slava
sull’odierna
popolazione
peloponnesiaca
va
da
un
minimo
dello
0,2
a un
massimo
del
14,4%,
mentre
molto
più
stretto
appare
l’apparentamento
con
gli
Italiani
meridionali
e
con
i
Siciliani.
Questi
dati,
tuttavia,
devono
essere
considerati
con
molta
cautela,
tenendo
conto
che
il
Peloponneso
fu
interessato
nel
XIV
secolo
da
un
rilevante
flusso
di
genti
albanesi,
che
contribuirono
a
mescolare
ulteriormente
il
patrimonio
genetico
dei
Peloponnesiaci,
e
anche,
come
notato
prima,
del
carattere
composito
dal
punto
di
vista
etnico
delle
tribù
di
lingua
slava.
È
vero
d’altronde
che
nei
decenni
e
nei
secoli
successivi
continuarono
a
essere
menzionate
comunità
slave
indipendenti
all’interno
del
Peloponneso.
Verso
l’842
lo
stratego
Teoctisto
Brienne
dovette
condurre
nuove
operazioni
contro
alcune
popolazioni
ancora
recalcitranti
a
sottostare
all’autorità
degli
imperatori.
Si
suppone
che
i
montanari
della
regione
chiamata
Skorta,
in
Arcadia
occidentale,
che
nel
XIII
secolo
non
mancarono
di
causare
grattacapi
ai
signori
latini
della
Morea,
fossero
appunto
di
origine
slava,
come
lo
erano
certamente
le
tribù
dei
Melingi
e
degli
Ezeriti,
stanziate
rispettivamente
sul
versante
occidentale
e su
quello
orientale
della
catena
del
Taigeto,
in
Laconia.
Queste
comunità,
tenute
a
versare
tributi
all’imperatore,
scesero
in
rivolta
tra
il
921
e il
924,
e
vennero
sottomesse
solo
al
termine
di
una
campagna
militare
di
otto
mesi,
condotta
dallo
stratego
Krinitis
Arotras.
Costui
impose
loro
un
aumento
delle
tassazioni,
che
tuttavia
fu
abbuonato
quasi
subito
dall’imperatore
Romano
I
Lecapeno,
che
temeva
che
esse
potessero
far
lega
con
il
khan
bulgaro
Samuele,
che
aveva
invaso
l’impero.
Gli
Ezeriti
sparirono
presto
dalla
storia,
probabilmente
assorbiti
dai
vicini
ellenofoni,
ma i
Melingi
furono
ancora
ricordati
a
lungo,
almeno
sino
al
XV
secolo.
Risale
proprio
a
questo
periodo
un’interessante
relazione
scritta
da
un
certo
Mazaris,
giunto
verso
il
1415
da
Costantinopoli,
che
distingue
otto
gruppi
di
popolazione
presenti
nella
penisola
(tra
l’altro
avendo
da
lamentarsi
su
tutti):
i
Peloponnesiaci
(presumibilmente
la
gran
massa
degli
Ellenofoni),
i
Laconi
(probabilmente
gli
Tsakoni),
gli
Albanesi
(giunti
in
gran
numero,
come
detto,
sul
finire
del
XIV
secolo)
gli
Italiani
(cioè
i
mercanti
e i
trafficanti
occidentali),
gli
Zingari,
gli
Ebrei
e,
appunto,
gli
Slavi,
che
quindi
costituivano
ancora
un
gruppo
a
sé.
In
conclusione,
è
possibile
affermare
con
una
certa
sicurezza
che
il
Peloponneso
fu
interessato,
come
il
resto
dei
Balcani,
da
uno
stanziamento
piuttosto
massiccio
di
popolazioni
slave,
iniziato
probabilmente
già
nel
587,
rafforzatosi
nel
corso
del
VII
secolo,
e
favorito
anche
dalla
terribile
pestilenza
che
nel
746-747
decimò
la
popolazione
indigena.
Quest’ultima,
però,
non
scomparve
completamente:
accanto
ai
molti
profughi
che
cercarono
rifugio
in
Italia
meridionale
o a
Costantinopoli,
ci
furono
molti
altri
Elleni
che
continuarono
a
resistere
nella
parte
orientale
e
meridionale
della
penisola,
e
altri
che
si
adattarono
a
vivere
accanto
ai
nuovi
venuti.
Per
un
certo
periodo
di
tempo
il
Peloponneso,
rimasto
privo
di
contatti
con
il
cuore
dell’impero,
si
imbarbarì,
tanto
da
essere
considerato
una
terra
slava
sia
dagli
ambienti
colti
della
capitale,
sia
dagli
occasionali
viaggiatori
occidentali.
Al
momento
della
riconquista
bizantina,
però,
il
sostrato
ellenico
potè
riprendere
il
sopravvento,
in
quella
che
lo
storico
francese
Paul
Lemerle
definì
“una
delle
più
sorprendenti
vittorie
del
genio
ellenico”,
facilitato
anche
dall’arrivo
di
migranti
ellenofoni
provenienti
da
altre
zone
dell’impero
e
dal
ritorno
dei
discendenti
di
quanti
erano
fuggiti
in
Italia
al
momento
dell’invasione,
e
riuscì
a
assorbire
tutte
le
comunità
slave
all’interno
della
penisola,
anche
se
alcune
di
esse
mantennero
più
a
lungo
la
loro
distinta
identità.
È
questo
l’elemento
più
probante
della
sopravvivenza,
in
numero
piuttosto
rilevante,
degli
antichi
abitanti:
altrove
nei
Balcani,
anche
nelle
zone
più
vicine
a
Costantinopoli,
e a
onta
dei
massicci
trasferimenti
di
popolazioni
orientali
operati
dai
vari
imperatori
bizantini,
furono
i
nuovi
arrivati
a
fagocitare
gli
indigeni
e a
slavizzarli
completamente
o a
marginalizzarli
nelle
aree
più
impervie
del
territorio.