N. 78 - Giugno 2014
(CIX)
Intrighi di corte
Trame e complotti nella Sicilia normanna - Parte iI
di Francesco Carbonaro
La
corte
normanna
alla
morte
di
Ruggero II
divenne
facile
preda
dei
cortigiani
che
fino
ad
allora
avevano
anelato
al
potere;
essi
divennero
protagonisti
di
un
mondo
fatto
di
trame,
orchestrato
da
insidie.
La
presa
del
potere
e il
suo
mantenimento
divennero
un
problema
centrale
per
il
successore,
Guglielmo,
il
quale
fu
costretto
a
guardarsi
le
spalle
da
eventuali
complotti
orditi
da
coloro
i
quali
avrebbero
dovuto
comporre
la
sua
corte.
L’ordine
che,
sotto
Ruggero
II,
aveva
dominato
senza
lasciare
spazio
a
losche
strategie,
come
dimostra
l’assenza
di
intrighi
(con
l’eccezione
del
caso
di
Filippo
di
Mahedia,
che
nonostante
tutto,
si
verificò
al
termine
della
parabola
ruggeriana),
venne
soppiantata
da
una
situazione
instabile
che
portò
a
una
degenerazione
della
concezione
del
potere
stesso,
il
quale
divenne
strumento
in
mano
ai
cortigiani
che
sempre
più
fecero
sentire
la
loro
presenza
sul
sovrano.
Caso
esemplificativo
è
proprio
il
destino
che
coinvolse
Maione
di
Bari,
uomo
proveniente
dalle
terre
continentali
che
aveva
acquisito
un’autorità
che
lo
aveva
portato
a
rivestire
le
grandi
cariche
del
regno
e
con
esse
a
possedere
ingenti
ricchezze.
Su
di
lui
gravano
i
pesanti
giudizi
di
Ugo
Falcando
che
lo
dipinge
con
tinte
cupe
e
oscure.
Fu
investito
della
carica
di
scriniarius,
prima
di
diventare
notaio
e
vicecancelliere;
una
carriera
folgorante
che
culminò
“ad
cancellariatus
dignitatem”
(alla
dignità
cancelliera)
che
gli
permise
di
firmare
i
documenti
direttamente
con
il
sigillo
regale,
privilegio
concesso
molto
raramente
dai
sovrani
che,
difficilmente,
si
allontanavano
da
un
tale
potente
strumento
di
ostentazione
politica.
Il
suo
potere
si
ampliò
a
dismisura,
le
sue
ricchezze
si
accrebbero;
a
quanto
pare
favorì
la
classe
mercantile
sfavorendo
quella
nobiliare.
Proprio
i
nobili
furono
protagonisti
del
progressivo
esautoramento
della
carica
di
Maione,
essi
si
fecero
promotori
della
congiura
che
venne
ordita
ai
danni
di
colui
il
quale,
a
detta
del
Falcando,
esercitava
la
sua
autorità
sul
re
stesso.
Tra
i
protagonisti
di
queste
trame
vi
furono
Roberto
conte
di
Lorotello,
Simone
conte
di
Policastro
ed
Eberardo
di
Squillace;
costoro
coagularono
il
malcontento
generale,
accentuato
dal
progressivo
sfaldarsi
delle
dominazione
nel
nord
Africa,
contro
colui
che
era
ritenuto
un
responsabile
della
decaduta
della
dignità
regale.
Le
modeste
origini
del
dignitario
palatino
erano
ritenute
poco
degne
e
per
nulla
adatte
a
chi
esercitava
gli
affari
del
regno
che
proprio
negli
stessi
anni
vedeva
assiso
sul
trono
un
sovrano
molto
meno
carismatico
del
predecessore
e
che,
al
contrario
del
padre,
si
lasciava
sedurre
dai
piaceri
mondani,
mettendo
molto
spesso
da
parte
i
doveri
politici.
Intanto
nella
terra
ferma,
in
Calabria,
cominciarono
a
scoppiare
rivolte
contro
il
potere
centrale;
movimenti
capeggiati
da
bizantini
che,
a
quanto
pare,
volevano
tornare
nell’alveo
di
Costantinopoli.
Contro
i
rivoltosi
Maione
inviò
il
fratello
Eugenio,
nominato
ammiraglio,
che
dovette
fronteggiare
un’ostinata
opposizione,
considerando
il
fatto
che
parte
dell’esercito
era
stato
spedito
in
Africa
per
soffocare
i
movimenti
indipendentisti
di
Mahedia.
Con
un
esercito
diviso
in
due
tronconi,
la
sconfitta
era
dietro
l’angolo
su
ambedue
i
fronti;
proprio
per
evitare
una
disfatta
totale
Maione
richiamò
l’esercito
africano
per
concentrare
i
proprio
sforzi
sulla
Calabria
dove,
a
prezzo
di
enormi
perdite,
la
rivolta
venne
sedata.
Immediatamente
si
ripresentò
il
problema
del
nord
Africa
dove
sempre
più
infuocava
la
rivolta
contro
i
cristiani;
nel
1160
arrivò
la
fatale
notizia
che
Mahedia
era
caduta
ed
era
tornata
in
mano
alle
tribù
locali.
Tali
avvenimenti,
ovviamente,
crearono
un
forte
malcontento
tra
i
mercanti
che
videro
restringersi
i
propri
orizzonti
commerciali,
a
cui
si
aggiunsero
i
malumori
già
presenti
tra
i
nobili
che
sempre
più
erano
irritati
per
l’esigua
sfera
di
potere
rimasta
nelle
loro
mani.
La
perdita
dei
territori
esacerbò
una
situazione
già
di
fatto
grave
e
portò
i
nobili
a
entrare
in
azione;
i
congiurati
individuarono
in
Matteo
Bonello
l’unico
possibile
principale
attore
che
avrebbe
potuto
portare
a
conclusione
una
vicenda
dalle
tinte
fosche.
Matteo
era
infatti
il
promesso
sposo
della
figlia
di
Maione
e
l’unico,
dunque,
in
grado
di
stargli
vicino
in
qualsiasi
momento.
Anche
il
re
venne
informato
della
volontà
dei
nobili
i
quali
convinsero
Matteo
Bonello
ad
agire.
Alla
vigilia
del
13
novembre
(san
Martino)
Matteo
entrò
in
azione
e
con
un
colpo
di
spada
uccise
il
suocero;
il
re
non
poté
condannare
pubblicamente
l’omicidio
dato
che
Matteo
si
proclamava
dalla
parte
del
popolo
il
quale
non
si
era
disperato
per
la
perdita
di
Maione.
Nonostante
tali
rassicurazioni,
Matteo
Bonello
preferì
allontanarsi
da
Palermo
alla
volta
di
una
regione
più
tranquilla;
scelse
Mistretta
da
dove
poté
sentire
i
clamori
di
ciò
che
aveva
fatto.
Dopo
la
morte
di
Maione,
per
paura
delle
possibili
ritorsioni
del
re,
i
congiurati
avevano
liberato
i
nemici
della
corona
insieme
ai
quali
si
recarono
presso
la
Torre
Pisana
dove
si
trovava
il
reggente
con
la
corte;
con
un
colpo
di
mano
misero
agli
arresti
Guglielmo
che
la
storia
ribattezzò
“il
malo”
per
la
sua
conclamata
noncuranza
degli
affari
del
regno.
Di
fronte
a
questo
atto
di
tradimento
il
re
dovette
assistere
alla
ben
più
grave
infedeltà
del
figlio
Ruggero,
il
quale
attirato
dalla
gloria
di
poter
divenire
il
successore
del
primo
re
di
Sicilia,
aveva
sposato
la
causa
del
popolo.
Possiamo
immaginare
che
i
giorni
della
congiura
furono
piuttosto
tumultuosi
per
la
città
e
per
il
regno
in
generale;
fu
un
capovolgimento
che
fino
a
qualche
anno
prima
sarebbe
stato
impossibile
da
presagire.
A
capo
di
questa
congiura
sebbene,
per
molti
tratti,
possa
essere
considerata
popolare
si
scorgono
i
profili
dei
nobili
i
quali
traevano
vantaggi
a
piene
mani
da
una
possibile
caduta
del
sovrano.
Di
fronte
alla
prigionia
del
sovrano,
il
clero
comprese
che
la
situazione
stava
prendendo
una
brutta
piega
e
così
decise
di
persuadere
il
popolo
a
provvedere
alla
sua
liberazione;
ancora
una
volta
il
ceto
ecclesiastico
aveva
determinato
il
destino
del
regno
e
non
sarebbe
stata
l’ultima
volta.
Guglielmo,
dunque,
venne
liberato
e
concesse
il
perdono
a
tutti
i
rivoltosi
tra
i
quali
compariva
anche
il
figlio
il
quale
era
morto
durante
i
tumulti.
Sulla
reale
fine
di
colui
che
sarebbe
dovuto
essere
Ruggero
III
vi
sono
molti
dubbi
e
poche
certezze;
si
allunga
l’ombra
del
sospetto
di
una
possibile
vendetta
perpetrata
dal
padre
nei
confronti
del
figlio
ribelle,
ma
ancora
una
volta,
le
sabbie
del
tempo
hanno
seppellito
la
verità.
Per
ristabilire
la
propria
autorità
il
sovrano
decise,
nonostante
le
rassicurazione
date
in
precedenza,
di
eliminare
Matteo
Bonello
che
fu
ucciso,
in
maniera
inaspettata
durante
una
convocazione
di
Guglielmo
stesso.
All’indomani
della
morte
di
Ruggero,
dunque,
l’ordine
sociale
subì
molte
scosse
che
causarono
il
capovolgersi
dello
status
quo
che
consisteva
nell’assoluta
fiducia
e
fedeltà
al
re;
tuttavia
tali
valori
sembravano
legati
più
alla
persona
di
Ruggero
stesso
che
all’autorità
regale
come
dimostra
il
sottile
attaccamento
al
successore.
Così
come
era
successo
oltre
cinquant’anni
prima,
alla
morte
del
sovrano
(1166)
il
regno
era
destinato
al
figlio
il
quale
per
la
minore
età
non
poteva
amministrarlo
in
prima
persona;
ancora
una
volta
era
necessaria
una
reggente
che
questa
volta
ebbe
il
nome
di
Margherita
di
Navarra,
nobil
donna
proveniente
dalla
Spagna
la
quale
dovette
far
fronte
all’assenza
di
un’autorità
maschile
forte
che
potesse
consegnare
il
regno
nelle
mani
del
figlio
Guglielmo
II.
Alla
stregua
di
Adelasia,
Margherita
fece
fronte
alla
situazione
cercando
persone
di
cui
potersi
fidare;
tra
questi
vi
fu
Pietro
l’eunuco
che,
come
un
motivo
che
si
ripete,
allo
stesso
modo
di
Maione,
non
proveniva
dalla
classe
nobiliare
e,
per
tale
motivo,
presto
fu
inviso
a
coloro
i
quali
vi
appartenevano.
Tra
i
nobili
che
mirarono
all’eliminazione
di
Pietro
vi
fu
Gilberto
conte
di
Gravina,
conosciuto
per
aver
anche
fatto
parte
di
complotti
baronali.
Intanto
la
corte
normanna
affollata
da
chierici
divenne
sempre
più
covo
di
maldicenze
e di
giochi
politici
che
videro
coinvolti
i
maggiori
esponenti
del
clero
isolano
e
non
solo;
le
principali
maldicenze
erano
indirizzate
contro
Riccardo
Palmer,
vescovo
inglese,
che
reggeva
la
diocesi
di
Siracusa
e
mirante
alla
cattedra
di
Palermo.
Romualdo
arcivescovo
di
Salerno,
Ruggero
di
Reggio,
Tustino
di
Mazzara
e
Gentile
di
Agrigento
sono
i
maggiori
esponenti
di
questa
trama
che
mirava
all’eliminazione
di
Riccardo
Palmer.
I
congiurati
cercarono
di
attirare
anche
Pietro
il
quale,
tuttavia,
non
diede
credito
alle
voci
e
per
questo
finì
per
essere
minacciato
dagli
stessi
prelati;
di
fronte
a
tale
situazione
l’eunuco
fuggì
e, a
quanto
ci
dice
Ibn
Khaldun,
si
recò
dal
califfo
Yussuf
presso
il
quale
ricoprì
cariche
militari.
Di
fronte
a
questi
movimenti,
la
reggente,
sempre
più
in
balia
del
clero,
chiamò
un
esponente
della
sua
famiglia,
Stefano
figlio
del
conte
di
Perche,
che
divenne
arcivescovo
e
cancelliere
il
quale
proprio
per
la
sua
origine
straniera
non
fu
accettato
dai
nobili.
Le
trame
che
si
intrecciarono
sotto
la
reggenza
di
Margherita
portarono
a un
esito
inevitabile.
Nel
1167,
la
regina
venne
esautorata
e
Stefano
fu
costretto
ad
andare
in
Terra
Santa;
il
regno
dopo
un
piccolo
periodo
di
transizione
vide
la
vittoria
della
fazione
reale
che
restituì
il
trono
al
legittimo
erede,
Guglielmo
II.
Il
complotto,
l’insidia,
sono
dietro
l’angolo
per
chi
amministra
il
potere;
per
un
sovrano
che
cerca
la
sua
legittimazione
è
inevitabile
rendersi
inviso
a
qualcuno.
Gli
anni
del
regno
normanno
dimostrano
come
ogni
reggenza
fosse
inevitabilmente
condita
da
congiure
che
miravano
a
estromettere
“qualcuno”
dal
potere;
che
fosse
il
cancelliere
o
l’ammiraglio
o il
re
stesso,
tutti
i
membri
della
corte
erano
al
centro
di
una
trama
volta
a
eliminarli
o a
innalzarli.
Potremo
dire,
in
maniera
piuttosto
semplicistica,
che
la
Storia
è
storia
di
complotti
e
intrighi
ma
sarebbe
riduttivo;
essi
sono
il
coerente
prodotto
di
un’epoca
che
conferì
potere
a
homines
novi,
non
legati
a
una
casata
regnante.
Pensiamo
proprio
agli
Hauteville;
essi
discesero
in
Sicilia
perché
nella
loro
Normandia
non
avevano
potuto
avere
la
possibilità
di
legittimarsi.
L’espansione
normanna
è il
risultato
della
precisa
volontà
di
trovare
un
territorio
che
potesse
sancire
la
propria
dominazione;
il
culmine
di
questo
processo
fu
l’incoronazione
di
Ruggero
II
il
quale,
nonostante
tutto,
dovette
faticare
per
vedere
“riconosciuta”
la
propria
potestà,
ma
vi
riuscì.
Non
è un
caso
che
il
suo
regno
fu
quello
nel
quale
si
assisté
a un
numero
inferiore
di
complotti;
non
si
poteva
intrecciare
trame
contro
qualcuno
che
aveva
legittimato
il
proprio
potere
ponendosi
una
corona
in
testa;
certo,
sebbene
il
simbolo
del
comando
non
sia
un
deterrente
per
chi
aspira
al
potere,
dobbiamo
sottolineare
la
grande
capacità
di
Ruggero
II a
compiere
un
percorso
che
lo
portò
alla
creazione
di
una
forte
entità
statuale,
di
cui
egli
era
stato
il
demiurgo.
Diverso
è il
discorso
per
il
successore
il
quale,
non
avendo
il
carisma
del
comando,
non
riuscì
a
trovare
quella
legittimazione
e a
farsi
riconoscere
in
qualità
di
sovrano.
Questa
mancata
riuscita
gli
fu
fatale
perché
rese
intellegibile
il
fatto
che
la
sua
dominazione
poteva
essere
sostituita;
di
questa
volontà
di
cambiamento
si
resero
protagonisti,
in
primo
luogo,
i
nobili
che
miravano
a
conquistare
quel
potere.
Diverso
è il
discorso
per
il
clero
il
quale
non
poteva
mirare
direttamente
alla
corona;
poteva,
invece,
indirizzarsi
all’eliminazione
di
coloro
i
quali
si
ponevano
tra
loro
e la
corona
stessa.
All’interno
della
corte
tutto
ruotava
attorno
una
sola
cosa:
il
potere.
Oggi
sono
cambiati
gli
sfondi
e i
personaggi
ma
il
centro
di
gravitazione
rimane
sempre
quello,
ad
ogni
costo,
senza
il
minimo
scrupolo;
“il
regno
val
bene
ogni
prezzo”
diceva
Seneca
in
chiosa
della
sua
tragedia,
non
c’è
alcun
limite
morale
o
etico
che
possa
farvi
fronte.
Riferimenti
bibliografici:
Chalandon
Ferdinand,
“Storia
della
dominazione
normanna
in
Italia
ed
in
Sicilia”,
Cassino
2008
Ibn
Khaldun
in “Biblioteca
arabo
sicula”
a
cura
di
M.
Amari,
Roma
1857
Goffredo
Malaterra,
"De
rebus
gestis
Rogerii
Calabriae
Siciliae
comitis
et
Roberti
Guiscardi
ducis
fratris
eius"
(ed.
Pontieri),
Bologna
1928
Matthew
Donald,
“I
normanni
in
Italia”,
Bari
2008
Norwich
John
Julius,
“I
normanni
nel
Sud”,
Milano
1971
Norwich
John
Julius,
“Il
regno
nel
Sole”,
Milano
1972
Ugo
Falcando,
“Liber
de
regno
Sicilie”,
a
cura
di
G.
B.
Siragusa,
Roma
1897